domenica 31 gennaio 2016

DIARIO VIOLA: A Marassi un pessimo "occhiale"

Alla metà del primo tempo le telecamere di Sky indugiano impietosamente sullo spettacolo di un cospicuo numero di piccioni che pascolano più o meno sulla cosiddetta tre quarti d’attacco della Fiorentina. Dice che è “colpa” dei giardinieri di Marassi, che hanno riseminato l’erba da poco. In realtà, quella è la zona più tranquilla del campo, più o meno quella cioè dove gli attaccanti della Fiorentina dovrebbero creare il consueto tourbillon e fare di questo derelitto Genoa quart’ultimo in classifica un sol boccone.
Fanno tenerezza i simpatici volatili che indisturbati compiono la loro funzione primaria, quella di cibarsi. La Fiorentina invece è un po’ che fa rabbia, perché ci dovrebbe essere lei sopra quell’erba a cibarsi di un avversario che non dovrebbe rappresentare in teoria un grande ostacolo, aggrappato com’è alla serie A per fare affari che muovono tanti soldi al calciomercato ma che hanno ancor meno logica di quelli fatti – e soprattutto non fatti – dalla Fiorentina stessa.
Fatto sta che oggi il possesso palla a cui i viola ci avevano abituati ce l’hanno i piccioni, e in seconda battuta un Genoa che nel primo tempo quella palla la fa vedere all’avversario al fischio d’inizio e poi a quello finale. Nella ripresa idem, almeno fino al quarto d’ora. Poi, più che dai cosiddetti “cambi azzeccati” di Paulo Sousa (ma ci voleva poco a migliorare lo schieramento iniziale), l’equilibrio viene spostato dal calo di fiato dei genoani. Alla fine, la Fiorentina si ritrova a rammaricarsi su una vittoria mancata soprattutto per lo stato di confusione mentale in cui versa attualmente nel suo complesso, malgrado per gran parte del match abbia meritato né più e né meno che la sconfitta.
Confusione mentale, non si può definire altrimenti in sintesi la prestazione della squadra che va in campo al Luigi Ferraris. E non è questione di schemi, o di nuovi al posto dei vecchi. Al primo minuto uno Zarate in formato Lazio sembra imbeccare un Babacar in formato Modena. Gol facile facile, a cinquanta centimetri dalla linea di porta. Ma oggi lo spauracchio Perin non deve nemmeno impegnarsi. Il senegalese esala un tiro che in realtà è un ultimo respiro.
Poco male, direbbero i miei piccoli lettori (prendendo a prestito la frase da Collodi) e anche la miriade di tifosi viola che si sono disposti oggi a vedere la loro squadra del cuore salvare una faccia che la società al contrario ha perso da tempo, ben prima di spedire i suoi emissari in Argentina per il Mammana Day. La Fiorentina che prima di San Siro non finiva un match sullo 0-0 da almeno due anni prima o poi la rete la buca, Perin o non Perin.
E invece no, sulla scarsa vena della ex promessa nera a cui oggi Sousa ha affidato la maglia di centravanti titolare lasciando Kalinic a riposo si spengono le speranze viola di tenere il passo delle prime due, che macinano risultati come rulli compressori e che paiono ormai francamente di un’altra categoria, Higuain e Dybala a parte. I 44 minuti successivi sono un patire, perché il Genoa sembra la nazionale delle Furie Rosse e la Fiorentina sembra tornata quella inguardabile di certi periodi bui degli anni Settanta: palla lunga e pedalare, se ci fosse qualcuno in grado di pedalare.
Gonzalo e Astori reggono patria, bandiera e risultato al limite delle loro notevoli possibilità. Roncaglia è Roncaglia, c’è un motivo se la Vox Populi (quella non addomesticata dalle sirene societarie) spingeva per l’acquisto di un difensore, magari anche due. La difesa è sotto pressione perché il centrocampo non esiste: Borja non è un leader e non lo sarà mai, la breve stagione in cui giocava di prima è finita. Vecino è un portatore d’acqua, quando c’è da servire avanti qualcosa di più raffinato rovescia puntualmente il vassoio, non parliamo di tirare in porta, roba da I.O.T. Bernardeschi si sta intristendo a fare il terzino aggiunto, quando trova le condizioni per passare la metà campo è già in debito di ossigeno e non ha nessuno con cui dialogare. Ilicic spalle alla porta sembra una vecchia gloria, più che altro prende pedate (purtroppo oggi tutte lontane dal limite dell’area avversaria).
Davanti, Babacar dimostra al mister che non c’è bisogno di fare cambi polemici come in passato. Basta fare quelli che la piazza richiede a gran voce. Se il senegalese è questo, qualunque offerta rifiutata dalla Fiorentina è un delitto. Non lotta, e se lotta fa casino. Non trova la porta e non crea spazio. Al suo fianco, Zarate fa reintravedere il suo potenziale, e bisogna concedergli l’attenuante di essere appena arrivato. Nella ripresa inoltrata, Sousa lo leva per Kalinic che non fa molto di più di lui, anche perché si ritrova spesso a fare il rifinitore. Tino Costa rileva Ilicic e almeno ci mette la personalità già intravista con il Torino. Per il gioco, bisogna concedergli l’attenuante che resuscitare una squadra di morti o di moribondi è impresa alla portata di pochi.
Per lunghi tratti la Fiorentina dà la sensazione di essere una squadra in rottura psicologica prolungata. Oddio, con la società che si ritrova alle spalle ci sarebbe anche da capirlo. Anche Paulo Sousa si vede che fa del suo meglio per tenere i nervi saldi e continuare a cavare da questa stagione bella per quanto assurda il più possibile. Ma alla fine inciampa anche lui sul filo del rasoio del nervosismo, commettendo una sciocchezza imperdonabile su un campo di serie A. Stoppa un pallone non ancora uscito dal campo, e l’arbitro Giacomelli vorrebbe non doverlo espellere, ma c’è costretto.
Il direttore di gara fino a quel momento ha arbitrato bene, forse c’era il secondo giallo su Vecino, forse un rigore su Kalinic. In verità, nessuna delle due squadre oggi merita di vincere, per un motivo o per l’altro. Troppi strafalcioni il Genoa, troppo tardiva la reazione della Fiorentina, e dalle polveri bagnate. Lo zero a zero, il famigerato occhiale come si diceva una volta, è la fotografia perfetta di una partita che sembra bella solo ai commentatori della TV a pagamento, che qualcosa per giustificare l’ora e mezzo di intrattenimento - chiamiamolo così - devono pur inventarsi.
Con Sousa fuori, i viola continuano come prima. HAnno di fronte un Genoa che non ne ha più, ma la squadra che faceva tremare il mondo qualche mese fa adesso fa tremare i suoi tifosi e basta, perché dalla baraonda che è diventato il suo centrocampo può sempre scapparci fuori la boiata che costa la sconfitta finale. Il quarto d’ora finale si gioca quasi ad una porta sola, quella di Perin. Il più pericoloso dei viola è Astori, e abbiamo detto tutto.
Alla fine i grifoni escono tra gli applausi del pubblico genovese. I viola tra la perplessità di quello fiorentino, che già era arrivato qui dopo averne fatta una bella scorta per le note vicende di mercato. Poco prima del tiro di Alonso che potrebbe valere al 95’ una incredibile vittoria, fa il suo ingresso in campo dalla panchina rossoblu nientemeno che De Maio, a quanto sembra diventato l’obbiettivo di mercato principale degli uomini di Della Valle. Se sta in panchina in una squadra quartultima, ci sarà un motivo. Se è un obbiettivo di mercato di questa Fiorentina, ci sarà parimenti un motivo.

Speriamo che non sia lo stesso.

mercoledì 27 gennaio 2016

La giornata di un mondo senza memoria



Un altro anno trascorso, una memoria che si allontana nel tempo, un mondo che non è più preparato per ricordare, e che è destinato prima o poi a rivivere, secondo il celebre aforisma di George Santayana.
Dopo settant’anni ha ancora senso la Giornata della Memoria? Lo ha eccome. I 6 milioni di Ebrei morti prima e durante la seconda guerra mondiale sono un dato certo, tramandato nei secoli dei secoli. Non c’è revisionismo storico che tenga, né giustificazionismo. La “belva umana” si scatenò in Europa come poche altre volte nella storia. E mai più avrebbe avuto a disposizione i mezzi tecnici della potenza industriale e bellica del Terzo Reich. Nemmeno nella Russia del comunismo trionfante di Stalin.
Ha senso parlare di memoria, ma solo se a partire dai punti fermi di eventi storici ormai “codificati” come l’Olocausto lo si fa anche per tutte le tragedie – grandi e meno grandi, secondo una scala di importanza che tiene conto soltanto del numero delle vittime – che si sono successe prima e dopo gli anni di Hitler. E se vengono accantonate una volta per tutte ipocrisie di parte altrettanto storiche, che a questo punto risultano non meno dolorosamente offensive delle azioni efferate dei boia dell’epoca.
Così, è giusto affiancare agli Ebrei in questa giornata gli Armeni, il cui genocidio rappresentò uno degli ultimi atti dell’Impero Ottomano e uno dei primi della repubblica di Ataturk che ereditò le sue vestigia. Con buona pace di Erdogan, che è sempre più tentato di risolvere la tradizionale dicotomia tra Turchia Europea e Turchia Asiatica strizzando l’occhio all’Islam più radicale, fanatico.
E’ giusto ricordare anche quegli Ebrei che non furono uccisi da Hitler ma bensì da Stalin. Quelli nessuno li ha mai contati. Sappiamo solo che nella Grande Guerra Patriottica, come i russi chiamano la guerra del 1939-45, morirono 22 milioni di loro connazionali per mano della Wehrmacht. Unico dato certo: le malefatte del Nazismo si conoscono tutte ormai, quelle del Comunismo si possono soltanto ipotizzare. Quanti russi, di qualunque etnia, ceto e confessione religiosa, morirono per mano del Grande Padre comunista prima durante e dopo il conflitto mondiale non lo sapremo mai.
E’ giusto ricordare gli Istriani e gli altri italiani che furono sterminati da Tito e dai comunisti jugoslavi e autoctoni nel 1945. Anche qui, non sapremo mai quanti, dove e come. Se ne sta andando a poco a poco la generazione che purtroppo conserva i ricordi dolorosi di quegli eccidi commessi dagli “eserciti del popoli”, per averli vissuti sulla propria pelle. Poi le foibe verranno richiuse per sempre, con il cemento più armato di tutti: l’oblio. C’è voluta una vita intera, trascorsa tra l’esilio e l’abbandono delle proprie case e delle proprie cose e poi i campi profughi attorno ai quali nessuna forza politica italiana stendeva – al contrario di adesso – i tappeti rossi dell’accoglienza per finire integrati di malavoglia come figliastri da parte di uno Stato che aveva rimosso perfino le proprie ragioni d’essere, figuriamoci la memoria; c’è voluta una vita intera, dicevamo, perché figli, nipoti ed amici delle vittime delle foibe si vedessero riconoscere una giornata della memoria a parte, quasi fossero rubricate di serie B. Si chiama Giornata del Ricordo, cade il 10 febbraio, ed a questo mondo ormai distratto da nuove tragedie e soprattutto da nuove sciocchezze di tale data frega ancor meno che di quella odierna.
E’ giusto ricordare Tibetani, Vietnamiti, Cambogiani e tutti gli altri gruppi etnici decimati da guerre lontane causate dall’eterno scontro tra la superpotenza di Golia e la sopravvivenza di Davide, oppure dalla logica della Guerra Fredda o dalle ultime propaggini della follia comunista. Di queste tragedie lontane, solo il Vietnam ha "bucato lo schermo", perché cadde in un’epoca in cui si contestava tutto e tutti. Ci sembrava di saperne tutto, in realtà non ne sapevamo e sappiamo nulla. Per non parlare di cosa fecero dopo la sconfitta americana i liberatori, vietcong vietnamiti e khmer rossi cambogiani.
E’ giusto ricordare tutti i sudamericani che negli anni settanta ed ottanta caddero vittime di un’altra follia, l’applicazione destrorsa fino alle estreme conseguenze della Dottrina di Monroe, l’America agli Americani. Per evitare l’infiltrazione comunista nel Nuovo Mondo, dopo la vittoria di Fidel castro a Cuba ci fu un’epoca in cui gli Stati Uniti appoggiarono i regimi dittatoriali più feroci. Loro sì, le Giunte militari, se ne avessero avuto i mezzi avrebbero fatto impallidire il Terzo Reich, di cui non a caso avevano accolto i reduci dopo il 1945.
E’ giusto ricordare Ebrei, Palestinesi e tutti coloro che sono morti a causa dell’illusione di aver dato un nuovo assetto al Medio Oriente dopo la seconda guerra mondiale. Quella Terra era Santa per troppe religioni, tutte mal disposte alla convivenza reciproca. La più bella canzone di John Lennon avrebbe invitato ad immaginare per il futuro un mondo senza più religioni. Nell’attesa, il conto dei morti i Palestina e dintorni si è interrotto da tempo. Guerre arabo-israeliane, guerre del Golfo, Intifade, Iran-Iraq, Al-Qaeda e Isis. Tutto perché in settant’anni non abbiamo saputo o voluto sviluppare i combustibili alternativi alla benzina.
E’ giusto ricordare gli Africani morti al loro paese – per guerre ed epidemie varie – o tentando di venirne via. Attirati dal mito  del nord ricco del mondo, e dalla propaganda e/o dalla connivenza di una sinistra europea alla fine dei conti non meno assassina dei commercianti di diamanti e di materie prime o degli apprendisti stregoni che si sono lasciati scappare di laboratorio i virus che dagli anni settanta decimano le tribu del Continente Nero e gravano sulle nostre coscienze di post-colonialisti.
Shlomo, il protagonista di Train de vie
E’ giusto ricordare tutti, e scusate se ho dimenticato chissà quanti milioni di persone. Oggi è la giornata di tutti quei morti. Altrimenti si fa come quelle nostre istituzioni che ripetono stancamente un rituale annuale che non ha più senso della messa in latino finanziando i treni della memoria per Auschwitz, più in ossequio alle lobbies ebraiche presenti nelle amministrazioni e nella società civile che ad un reale sentimento, ad un reale bisogno di compassione e informazione. "Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario", scrisse Primo Levi. Alle nuove generazioni non forniamo da tempo né comprensione né conoscenza. Solo treni e gite organizzate verso posti dove fa freddo e tanto tempo fa successe qualcosa. Un qualcosa che si è poi ripetuto a scadenze fisse, regolari e frequenti. Un qualcosa di cui abbiamo notizie tutti i giorni, anche se perse tra le miriadi di altre con cui ci bombardano inutilmente i telegiornali.
La nostra memoria, nella giornata odierna come in tutte le altre, è quella di un malato di Alzheimer. Abbiamo confuso la realtà vera con quello che avremmo voluto che fosse, come nello splendido film di Moni Ovadia Train de vie, dove il protagonista racconta una rocambolesca fuga attraverso l’Europa nazista e solo alla fine ci rendiamo conto che si tratta solo del suo ultimo sogno di recluso in un campo di concentramento.
Abbiamo confuso la realtà. E non siamo nemmeno pronti a riviverla.

domenica 24 gennaio 2016

DIARIO VIOLA: Il malato ha preso un brodino

Metà partita la fa la voglia della Fiorentina di rialzare la testa. Infortuni, squalifiche, cali di forma e incomprensioni societarie non possono uccidere il sogno. E allora oggi non ci sono e non ci devono essere gemellaggi e non si fanno prigionieri. Oggi non ci sono scuse. Vittoria e tre punti, perché senza vittoria – come disse qualcuno tanti anni fa – non sopravviveremo.
L’altra metà la fa il Torino. Se sei una squadra in crisi, o perlomeno in calo, ti devi augurare questi avversari. Farebbero resuscitare anche un morto, tiri in porta zero, pressing zero, nemmeno la Fiorentina delle peggiori occasioni. Uno dei grandi interrogativi di questo scorcio di secolo è e probabilmente resterà questo: come ha fatto la Fiorentina a perdere il match di andata a Torino per 3-1, dopo averlo dominato per 70 minuti.
Il Torino, rispetto all’andata, ha un Quagliarella in meno (cioè il 90% del suo potenziale offensivo) e un Immobile in più. La Fiorentina ha fuori Alonso per infortunio, con buona pace dei tifosi granata così offesi per la sua esultanza al gol del vantaggio e anche di quei tifosi viola per cui i gemellaggi sono più importanti di una sana e consapevole sportività. Ed anche Badelj, sempre per infortunio, e Vecino, per squalifica. Mazzate che abbatterebbero un toro e che favorirebbero il Toro, se solo il Toro fosse in grado di approfittarne.
Il Toro esiste per dieci minuti, quelli iniziali in cui la Fiorentina stenta a capire punti deboli e di forza propri e dell’avversario. Sousa oggi non può fare polemiche né esperimenti. Non potendo gettare nella mischia fin dal primo minuto i nuovi acquisti Tino, Tello e Zarate, bisogna che si arrangi con quello che ha, compresi giocatori che ha finora accuratamente evitato di utilizzare. Verdu e Babacar sono un azzardo, perché non vedono il campo in modo continuativo da tempo immemorabile. O bene bene o male male. Finirà abbastanza bene perché i due hanno voglia di mettersi in mostra.
Chi invece ha sicuramente una condizione inferiore alla voglia è Bernardeschi, che forse avrebbe bisogno della cosiddetta pausa di riflessione. Insieme a Kalinic. Non bucano la difesa del Torino neanche mezza volta, per sbaglio. Al quarto d’ora prima schiaccia di testa Astori, fuori di un soffio. Poi cicca malamente Ilicic su liscio della difesa granata. Si apre il dibattito, era il piede meno educato, il destro. Si, ma siamo pur sempre in serie A……. Neanche il tempo di rammaricarsi e su altro break viola Bernardeschi spedisce in Viale Manfredo Fanti. Tre gol sbagliati sono indizi che fanno una prova, e in altre circostanze costano il risultato.
Ma il Torino oggi rasenta lo Zero Assoluto, una squadra di pedatori neanche tanto onesti che l’arbitro Mazzoleni forse tiene in vita più del lecito. Sulla punizione dalla tre quarti che comunque al 23’ viene concessa ai viola, Ilicic mette all’opera il suo piede educato, il sinistro. E diventa il capocannoniere della squadra appaiando Nikola Kalinic. El segna semper lu.
Comincia una partita noiosa, in cui gli avanti viola provano blandamente a sfruttare calci da fermo su cui Ilicic prova a ripetere qualche magia. Ichazo, portiere granata, può trovarsi in difficoltà per il proprio cognome, non certo per le punzecchiature della Fiorentina. Dall’altra parte Baselli sparacchia su Tatarusanu l’unica azione granata degna di questo nome e della serie A in cui milita.
A metà ripresa il Torino dovrebbe ritrovarsi in dieci, invece Mazzoleni gli mantiene la parità numerica. La Fiorentina a quel punto ha ritrovato un minimo di qualità, quanto basta a tenere il campo senza rischiare nemmeno un contropiede. Astori si è fatto notare oggi solo per lo splendido e sfortunato colpo di testa nel primo tempo. Nel secondo, tocca a Gonzalo, ed è più fortunato. Il 2-0 ci sta tutto tra questa Fiorentina pur convalescente e questo Torino. Nel frattempo hanno fatto il loro esordio Tino Costa (buona personalità ed un lancio splendido in profondità per Pasqual) e Mauro Zarate (rivedibile). Ilicic esce tenendosi il fianco sinistro, non un buon segno. Kalinic esce e non se ne accorge nessuno, anche se Sousa preferisce continuare a rimbrottare Babacar.

La sensazione è che oggi sarebbe bastata la Primavera. Ma senza prodezze individuali sbloccare questo fondamentale risultato forse per la prima squadra sarebbe stata davvero dura. La Fiorentina riprende comunque il passo dell’alta classifica. Domenica a Genova test sicuramente più probante. Nell’attesa, gli ultimi giorni di calciomercato. Della Valle, fate vobis.

giovedì 21 gennaio 2016

La repubblica delle fate ignoranti



Debora Serracchiani che pontifica contro assenteisti e fannulloni nella pubblica amministrazione è uno spot per il governo Renzi. L’esecutivo forse che ha fatto registrare in assoluto la maggiore distanza tra promesse fatte, aspettative create e realtà dei fatti dell’intera storia repubblicana.
Da quando è stata eletta (con i voti decisivi di cittadini jugoslavi di lontane origini italiane e forniti di doppio passaporto), la vice-segretaria del Partito Democratico nonché, en passant, governatrice della Regione Friuli – Venezia Giulia ha alimentato nelle terre da lei teoricamente amministrate storielle e battute in egual misura ai malumori. Una di queste la vede esclamare di fronte ad una immagine suggestiva del capoluogo: “Bella città Trieste! Ci sono stata una volta!”. Chiedere a qualsiasi triestino dove finisce la battuta e dove comincia la constatazione amara, in una realtà sociale tra l’altro che proprio negli ultimi anni di governo (si fa per dire) democratico ha visto il crollo a valanga di molti dei connotati migliori che ne facevano una delle zone migliori d’Italia per qualità della vita.
Di tutti i testimonial possibili per questa campagna contro il nuovo “nemico interno”, il governo del Rottamatore ha scelto insomma uno dei più improbabili. Le labbra sottili, mai indice di buona disposizione verso il prossimo ed il mondo circostante, della signora Serracchiani sibilano nel compiacente salotto di Lilli Gruber le parole “licenziamento” e “sanzione”con una voluttà che si richiama ai più bassi istinti di un popolo spinto di nuovo dal peggioramento delle proprie condizioni socio-economiche e del proprio livello di consapevolezza politico-culturale a cercare capri espiatori a buon mercato.
Ha un bel ribattere Maurizio Landini, segretario della FIOM peraltro parte integrante del pur screditato sindacato CGIL – storicamente difensore di cause perse, indifendibili, ma redditizie per gli interessati – che gli strumenti per sanzionare assenteisti e fannulloni c’erano già. E che la pubblica amministrazione ha fermi da almeno sette anni (ma nella realtà dei fatti da diversi di più) i rinnovi dei contratti di lavoro. Quegli atti cioè che dovrebbero contenere sia gli incentivi a chi fa il proprio dovere ed anche qualcosa di più, sia le sanzioni a chi è negligente o addirittura –a vari livelli – truffatore del pubblico interesse. Applicando tra l’altro istituti che esistono almeno dal tempo dell’entrata in vigore del testo Unico degli impiegati civili dello Stato del 1957, rafforzati dalla cosiddetta Riforma Brunetta del 2001.
Nel salotto della Gruber tutti parlano di lavoro. Tutti esclusa gente che abbia esperienza di cosa vuol dire lavorare a stipendio bloccato ed eroso, divorato dal costo della vita in costante impennata (anche e soprattutto per le scelte dello stesso governo di che trattasi). E soprattutto cosa vuol dire lavorare sotto dirigenti messi lì dalla politica e da altre consorterie più o meno innominabili. Da tutto comunque meno che dal merito. Dirigenti che poi dovrebbero attivare quelle sanzioni con competenza ed equità, magari evitando di abusarne ad ogni pié sospinto per consolidare un proprio potere personale che non ha altro fondamento che l’appartenenza. Di partito, di loggia o di quant’altro.
Ma l’Italia del 2016 è distratta, e ha bisogno di trovare capri espiatori. E’ la cosiddetta riforma Madia, quella che dovrebbe stroncare furbetti del cartellino nel tempo record di 48 ore. In un paese in cui la giustizia ordinaria ha dei tempi medi paragonabili a quelli occorsi a Mosé per riportare il Popolo Eletto nella Terra Promessa, la giustizia amministrativa si vuole che abbia i tempi del giudice Jeffreys, il magistrato mandato da re Giacomo II d’Inghilterra nel 1685 a stroncare la rivolta dei settari protestanti contro la sua restaurazione cattolica strisciante. Tra l’arresto e l’impiccagione passavano appunto non più di 48 ore. Dei processi che venivano celebrati in quel lasso di tempo non è rimasta gran memoria nella Common Law britannica. Chissà perché.
Il governo Renzi ha bisogno di distrarre l’opinione pubblica. Nelle stesse ore l’Europa per bocca del presidente della commissione Junker sbotta senza mezzi termini per il fatto di “non avere un interlocutore in Italia”. Non è Sarri che dà del “frocio” a Mancini, la questione è un po’ più complessa e difficilmente risolvibile con una ritrattazione.
Nelle stesse ore, al Senato si vota il Ddl Boschi-Verdini, quello che riporterà equilibrio nella Forza del partito democratico, avverando la profezia del suo segretario: “sarò l’ultimo presidente del consiglio a chiedere la fiducia a quest’aula”. Mussolini non avrebbe saputo dire di meglio. Di sicuro dopo la vittoria in questa battaglia renziana per l’unicameralismo, Palazzo Madama assomiglierà a quell’aula sorda e grigia che fu per quasi vent’anni la Camera dei Fasci e delle Corporazioni.
Il Boschi – Verdini passa per 180 voti contro 112. Adesso tocca alla Camera, poi al popolo sovrano, quello che dal 2011 in poi si evita accuratamente di interpellare, dopo una campagna elettorale che durerà nove mesi e che verrà trasformata in un plebiscito pro o contro Renzi per volontà dello stesso premier.
Del sistema di pesi e contrappesi per la gestione dei poteri costituzionali voluto dai Padri Costituenti non interessa a nessuno. A Terracini e De Nicola succedono appunto due figure inquietanti come Maria Elena Boschi (redattrice) e Denis Verdini (portatore dei voti decisivi), due che diresti che si intendono più di banche e di faccendieri che di costituzionalismo.
Ma tant’è, il convento passa questo. Ettore Scola, di cui si piange in questi giorni la scomparsa, fa dire al protagonista Gianni Perego (interpretato da un monumentale Vittorio Gassman) del più grande dei suoi capolavori, C’eravamo tanto amati, una rivisitazione della storia popolare d’Italia dalla Resistenza ai primi anni settanta: “La nostra generazione ha fatto schifo”.
Caro Ettore, non avevi ancora visto quella successiva. Ti sia lieve la terra.

VIOLA NELLA TESTA E NEL CUORE: Arrivano Tino & Tello



E pur si muove. Non la Terra intorno al Sole, come non poté fare a meno di notare Galileo Galilei malgrado fosse stato appena costretto all’abiura davanti al tribunale dell’Inquisizione. Ma piuttosto il mercato dell’A.C.F. Fiorentina, costretta a rinunciare – pare – alla tradizionale ritrosia in sede di compravendita di calciatori dalla situazione di emergenza creatasi a seguito di infortuni, stanchezza, squalifiche e scelte tecniche discutibili. Tutti eventi prevedibili e puntualmente verificatisi tutti insieme nelle ultime partite, nelle quali la bella coperta viola si è ulteriormente accorciata.
Dopo Tino & Tello (non è un fumetto dei tempi del Vittorioso o del Corriere dei Piccoli anteguerra) pare arrivi anche Zarate (non è un centro abitato della Brianza, alle porte di Milano, ma un calciatore ex-Lazio e a questo punto anche ex-West Ham che si porta dietro pendenze giudiziarie da far invidia a quelle di Adrian Mutu). Fiorentina scatenatissima perché pare che addirittura stia trattando Cigarini dell’Atalanta. Fino a ieri mancava l’ufficialità, che a Firenze era diventata un po’ come l’amalgama a Catania ai tempi del presidente Massimino. Mancava sempre, e nessuno – malgrado le esortazioni del patron – la comprava mai.
Non è il momento di scherzare, e chiediamo scusa se lo facciamo, ma è solo per stemperare un ambiente che si va arroventando sempre di più, giorno dopo giorno. Pare incredibile, ma un campionato che era cominciato tra fanfare e sogni di gloria a cui non eravamo più abituati da decenni sta scivolando rapidamente nell’apatia e nel disamore, con possibilità di virata improvvisa alla incavolatura ed alla contestazione. Basterebbe non battere il Torino domenica in casa (a proposito, visto che siamo in tempi di grandi riforme, lo vogliamo riformare questo istituto del gemellaggio che non ci porta quasi mai punti, ma soltanto complicazioni?).
Tino Costa esce dalle visite mediche da Fanfani
Guai a fare sognare il tifoso. Poi il tifoso ai sogni ci si affeziona e quando li vede svanire non reagisce per niente bene. La famiglia Della Valle aveva trovato qui a Firenze un punto di equilibrio vanamente inseguito da tante altre famiglie di mecenati veri o presunti: mai una gioia, ma mai neanche (o quasi) una paura come quella che si concretò nell’estate del 2002 con il fallimento e la retrocessione. E adesso, proprio nell’anno che doveva segnare l’ennesimo ridimensionamento per quieto vivere, cosa ti va a combinare la Fiorentina? Va in testa alla classifica alla quinta giornata e ci rimane fin quasi al titolo di campione d’inverno.
In tribuna, non più il solo Andrea della Valle, che fa simpatia e in un certo qual modo anche tenerezza, essendo ormai percepito più come uno di noi, un tifoso, che come il padrone. No, da un po’ di tempo ecco anche Diego. Lui sì il padrone, l’uomo che detiene i cordoni della borsa. Stai a vedere che ci ha preso gusto, comincia a crederci, a voler provare. A vincere finalmente qualcosa, dopo quattordici anni. Per non ritrovarsi a battere il record del marchese Ridolfi, fondatore e presidente a tutt’oggi più longevo, che spendeva in tempi eroici, pionieristici (Firenze fu l’ultimo capoluogo di Regione a dotarsi di una squadra rappresentativa cittadina). E che almeno una Coppa Italia la portò comunque a casa, inaugurando la bacheca viola.
Cristian Tello
Illusione e disillusione, sono i due estremi entro cui oscilla il pendolo. Non di Foucault, per restare nell’ambito della Fisica, ma del tifo fiorentino. Tutti gli anni ci si illude che sia quello buono. Tutti gli anni puntualmente ci si ritrova scottati da cocente delusione. A dibattere su come sia possibile che “non vogliano spendere quando bisogna spendere”, su come sia possibile che la torcida più innamorata del mondo stia scivolando verso il disincantamento e l’apatia, si stia spaccando tra “leccavalle” e “rosiconi” come nemmeno al tempo di Guelfi e Ghibellini, e con ancor minore utilità.
Eppure ormai dovremmo conoscerla questa A.C.F. Fiorentina, che non assomiglia più alle società sportive del passato ma piuttosto ad una holding imprenditoriale moderna con le sue regole industriali e di mercato. Che tratta i tifosi ormai da clienti ed il calcio come la fabbrica di qualsiasi altro prodotto commerciale. Che non si compenetrerà mai fino in fondo con questo ambiente, con questa Lega sportiva dove gli imprenditori devono convivere con gli avventurieri, i faccendieri ed i finanzieri creativi.
No, Diego e Andrea Della Valle i soldi li hanno fatti con l’imprenditoria più classica. Si investe a ragion veduta, non si fanno follie. Nemmeno per inseguire un sogno. Quando hanno provato a distendere il famoso “braccino” (la definizione appartiene al copyright di quella parte della tifoseria che non venera il 3 agosto 2002 come l’inizio della storia viola) è andata male. Prima Calciopoli, poi Ovrebo, poi la finale di Coppa Italia vinta da Jenny ‘a carogna. Passando per Rossi e Gomez. I più grandi investimenti, finiti malamente tutti e due.
Mauro Zarate
Non è un caso se da sempre le imprese del gruppo Della Valle – e la Fiorentina non fa eccezione – sono nelle mani del ragionier Cognigni, plenipotenziario fiduciario dei fratelli di Casette d’Ete. Il ragioniere, è noto, lesina la propria firma anche sull’acquisto di risme di carta per la fotocopiatrice, figurarsi per il bene più aleatorio del mondo, il talento di un giocatore di calcio. Non è un caso se Corvino prima e Pradé poi, due diesse acclamati a furor di popolo e poi alla fine detestati come responsabili dei mancati acquisti (nelle monarchie costituzionali non si attacca mai il re ma sempre e soltanto il primo ministro), siano rimasti a lungo nelle grazie dei loro datori di lavoro.
La Fiorentina insomma funziona così perché è così che vuole funzionare. E non sa in che altro modo farlo. Se a ciò si aggiunge una difficoltà intrinseca, congenita di comunicazione, il quadro è completo. Del resto, abbiamo sentito tutti più volte Diego della Valle intrattenere l’auditorium circa i propri progetti politici. Sia detto senza alcun intento polemico: siamo ancora tutti a domandarci che cosa abbia voluto dire. E soprattutto cosa vuole fare.
E’ un grande imprenditore Diego Della Valle, ma non chiedetegli di comunicare. Le sue possono essere le migliori intenzioni, ma non “bucano lo schermo”, non arrivano alla platea. Nella società di calcio da lui posseduta, l’ ultima e unica addetta stampa in grado di presentare all’esterno una immagine chiara e convincente di cosa fanno e di chi la fa è stata Silvia Berti. Dopo di lei, non c’è stato manca poco più verso nemmeno di sapere dove si allena la squadra e a che ora, figuriamoci parlare di strategie e di compravendite.
Le strategie forse ci sono, per quanto imperscrutabili. In questo gennaio, del resto, non c’era da inventarsi chissà cosa, bastava rinforzare difesa e centrocampo con gente di pronto utilizzo e sicuro rendimento. Nessuno ha mai chiesto Iniesta o Xavi, men che meno Mascherano. Ma un Quagliarella a tre milioni di euro o un Lisandro Lopez a nove non li puoi valutare solo in termini di listino e di plusvalenza futura. Se per disgrazia finisci a vincere uno scudetto hai voglia a ritorno economico in una città come questa. Hai voglia a portare il marchio Tod’s in giro per il mondo.
Giuseppe Rossi
O forse si naviga più a vista di quello che sembra. La Fiorentina, che a giugno prese in fretta e furia un allenatore – bravo – per sostituirne un altro – altrettanto bravo – che aveva dato disdetta senza (o quasi) preavviso, si è ritrovata a fare mercato prima e a comandare la classifica poi senza averne l’intenzione e tantomeno la preparazione, psicologica ed economica. Tino, Tello & Zarate si spiegano anche così, dopo mesi passati a recitare il rosario: “per gennaio abbiamo già il nome giusto in pugno”.
E allora, nessuno aveva chiesto lo scudetto. Nessuno, dopo il 2010, ci credeva nemmeno più. Ma se il destino ti spedisce lassù in cima e tu non ci provi, a cosa serve tutto il resto? Sousa la prenderà male, la sta prendendo male. Come Bagnoli e Boskov voleva provare a scrivere il suo nome da outsider nell’albo d’oro del calcio italiano. Fra qualche domenica e qualche altro risultato incerto, chissà che nomi vedremo scritti in compenso sui muri dello stadio.
A proposito. Pepito Rossi se ne sta andando. E’ un suo diritto di professionista e di uomo inseguire ancora il suo sogno personale. Convincere Conte, come già tentò con Prandelli, a portarlo con sé agli Europei. E’ stata una storia dolorosa, tormentata, quella sua alla Fiorentina. Niente è andato come doveva, ma non è colpa di nessuno se non dell’ineffabile Rinaudo. E adesso è il momento degli addii e degli strascichi. Dei cocci rotti.
Cara Firenze, per una volta cerca di ragionare con la testa e non con la pancia. L’unica bandiera è quella che sventola sulla Torre di Maratona. C’era prima del 2002. Ci sarà sempre. Il resto passa. Passeranno anche Tino & Tello. E speriamo di non ritrovarsi tutti a Zarate.

lunedì 18 gennaio 2016

DIARIO VIOLA: L'Armata Brancaleone



Di solito non diamo voti ai singoli, sa tanto di scuola dell’obbligo, di quel modo un po’ tranchant che avevano ed hanno i professori di sintetizzare il rendimento dei loro allievi con un simbolo numerico che sembra dire tutto e invece spesso e volentieri non dice nulla, o perlomeno tralascia molto. Luoghi comuni, come quel “potrebbe fare di più” o “non si applica” che hanno accompagnato, quando non funestato, la nostra infanzia e la nostra adolescenza dal giorno di San Remigio fino a quello dell’esame di maturità.
Uscendo da San Siro e dovendo riassumere in poche righe la prestazione di una Fiorentina che comincia ad occhio e croce un girone di ritorno ben diverso e probabilmente molto meno divertente di quello d’andata, forse i famigerati voti sono però la cosa migliore. Vediamo un po’: Bernardeschi 4 (di incoraggiamento), Ilicic 3, Kalinic 2. E avremmo detto tutto o quasi.
Con un attacco in condizioni miserrime come quelle viste al Meazza non c’è Fiorentina che tenga. Se non salti un uomo, non fai un cross, non tiri in porta tutto il resto è inutile e stucchevole accademia, dal momento che scopo del gioco è tutt’ora quello di buttarla dentro almeno una volta di più del tuo avversario. La Fiorentina non tira mai nello specchio della porta, e due volte sole orientativamente nella direzione di Donnarumma, con una ciabattata horror di Kalinic ed una zuccata dello stesso da rimessa in gioco del pallone a Volley. Il Milan invece tira tre o quattro volte, e in almeno due casi va a segno, ridicolizzando tra l’altro l’intero reparto difensivo viola, portiere compreso.
Tutto qui. Potremmo evitare dunque di criticare una proprietà che si presenta al 50% in tribuna a San Siro per assistere allo spettacolo disarmante di una squadra – la propria – senza condizione, senza testa, senza spirito e senza più uomini da schierare. Proprio mentre l’orologio del calciomercato scorre inesorabile, siamo a meno 12. Non di temperatura ma di giorni che mancano alla fine di questa sessione in cui – ci era stato detto a settembre – la Fiorentina aveva già in mano i nomi giusti e bastava solo aspettare il primo giorno legalmente utile a mettere nero su bianco.
Potremmo anche evitare di criticare un mister che non sta reagendo bene alla fase di risveglio dal sogno. Quello coltivato per quattro mesi di poter dire anche qui in Italia “veni, vidi, vici”. Mi stanno disfacendo la squadra, avrà pensato Paulo Sousa, ma in fondo con quello che mi resta e che non è proprio malaccio mi basta arrivare a gennaio. A quel punto “arriveranno i nostri”, il Settimo Cavalleria promesso dal Grande Padre Bianco e dai suoi uomini con cui ho firmato a giugno il trattato, pardon, il contratto. E invece niente, né Lisandro Lopez e nemmeno un Quagliarella o un Mexes. Roba almeno da usato garantito, chiavi in mano e di pronto impiego. Poi uno mette Alonso a terzino destro o Rossi al posto di Mario Suarez. Comprensibile, “questi” farebbero perdere la pazienza anche a San Pietro.
Potremmo evitare di criticare anche quei giocatori che non hanno saputo gestirsi durante le feste di Natale. Come il prode Bernardeschi, poco più che ventenne e apparso in affanno fisico e mentale manco fosse al Torneo Vecchie Glorie e manco in tribuna non ci fosse presente nientemeno che il selezionatore della Nazionale azzurra Antonio Conte. O come l’altrettanto prode Kalinic, troppo presto e troppo temerariamente paragonato da qualcuno nientemeno che ad Omar Gabriel Batistuta (ma del resto dopo che hai paragonato Borja Valero ad Antognoni tutto è lecito). Caro Nikola, gol come quello orrendamente “bruttato” nell’unica palla decente che hai avuto ieri sera Batigol li segnava anche quando aveva le caviglie molto più disfatte delle tue. E non aggiungiamo altro per carità di patria.
Potremmo infine evitare di stigmatizzare tutti coloro, tanti, che rispondono al coro ormai classico “bisogna spendere” che tanto ha indispettito Andrea Della Valle domenica scorsa dopo il ceffone rifilato ai viola dalla Lazio, con l’altrettanto classico refrain “allora comprala te la Fiorentina e vediamo cosa sai fare”. Una cosa va detta: sono pochi coloro che nel calcio moderno hanno le risorse economiche non tanto per comprarla, quanto per tenerla a certi livelli. Ma sono molti di più coloro che sfidano una nottata di gelo polare come quella di ieri per valicare gli Appennini e spingersi fino a Milano a sostenere questa squadra che fino a poco fa faceva sognare il rinnovo di fasti ormai talmente lontani nel tempo da risultare sconosciuti ad almeno un paio di generazioni di supporters viola. E tutto ciò solo per passione, ricevendo in cambio al primo mugugno rimbrotti stizziti da parte di permalosi cronici, e limitandosi per lo più a qualche sfottò fiorentino, come il ribattezzare il neoacquisto Tino Costa come Costa Pochigno.
Potremmo fare tutto questo, e anche di più. Poi guardiamo quei voti, e ci rendiamo conto che con un attacco mal messo come quello viola di ieri sera neanche strateghi affermati come Mourinho o Guardiola, neanche magnati del calcio moderno come Abramovich avrebbero salvato le penne al Meazza. Chi pare averle salvate piuttosto è la nostra vecchia conoscenza Sinisa Mihajlovic, che in qualche modo ha saputo ricompattare la truppa rossonera spingendola verso questa vittoria che la rilancia e soprattutto appaga il suo desiderio di rivalsa. Firenze è stata avara ed amara con lui e per lui? Ecco qua servito il celebre piatto che si mangia freddo.
Ma Sinisa lì davanti ha Bacca, che magari segnerebbe al quarto minuto quel gol anche se avesse addosso un marcatore meno improvvisato di Tomovic (al quarto anno di inamovibilità) e davanti un portiere più attento di Tatarusanu. Magari è da chiedersi se basterebbe poco più dello stesso Tatarusanu ormai in stato confusionale e di un Roncaglia per il quale abbiamo finito gli aggettivi (almeno quelli non positivi) per evitare a Boateng il raddoppio che chiude i giochi a due minuti dalla fine. La risposta ci sentiamo di dire che è sì.
Tra le due reti rossonere, una partita neanche brutta a vedersi ma tutto sommato poco consistente. Come all’andata, gran possesso palla viola e Milan forse più pericoloso in ripartenza. All’andata aveva trovato due volte il gol la Fiorentina, su prodezza individuale. Al ritorno tocca al Milan. La panchina di Mihajlovic è salva, le sue squadre si confermano non improntate al bel gioco ma -quando obbediscono ai suoi dettami - estremamente motivate e determinate. Del resto, per tagliare in due questa Fiorentina e metterla knock out basta poco. Basta una difesa rossonera attenta e Bacca lì davanti.
Paulo Sousa appare sconsolato per buona parte del match, come se i suoi non lo ascoltino più. Per “suoi” si intende naturalmente quella pattuglia di 12-13 giocatori (meno infortunati e squalificati) a cui lui ha ristretto la rosa viola. Forse i fedelissimi non ce la fanno più, forse tutti sanno, anche il Milan, come giocare contro la ex sorpresa Fiorentina. Aspettano dietro e ripartono, e il Milan qualche uomo per far male ce l’ha. Forse, forse, forse, di doman non v’è più certezza.
I cambi, se ne vogliamo parlare, spostano poco e come già nella partita precedente sembrano più dettati da qualche intento polemico che da un reale disegno tattico. Sousa toglie Suarez che se oggi non è stato il migliore in campo poco ci manca e che ha retto la baracca di centrocampo senza far rimpiangere troppo Badelj. Al suo posto mette un Rossi abbastanza spaesato, in una partita in cui la Fiorentina si trova costretta da se stessa a verticalizzare per vie centrali, finendo ad ogni azione – o presunta tale – in un imbuto senza speranza.
Le notizie che si susseguono sono tutte pessime per un Sousa già demoralizzato. Vecino salterà il Torino per squalifica, e c’è il caso che analoga sorte tocchi a Marcos Alonso per infortunio. Entra Pasqual, ed è l’unica buona notizia per Conte, che di lì a poco riterrà di aver visto abbastanza e lascerà San Siro. Poi tocca all’inguardabile Ilicic di questa circostanza lasciare il campo a Babacar, che subisce ancora una volta i “sei minuti di Rivera” proprio nello stadio che fu di Rivera. La sensazione data dai viola nei minuti finali è quella di un’Armata Brancaleone senza nemmeno Brancaleone. Il senegalese si mette in luce solo per due falli sul portiere. Almeno il suo dirimpettaio Balotelli un paio di numeri li fa, dall’altra parte. Ma il 3-0 sarebbe troppo anche per questa Fiorentina.
Finisce così, con la sensazione che dopo la Lazio la Fiorentina abbia fatto da madrina anche alla resurrezione del Milan. E che il girone di ritorno possa riservare sorprese non proprio positive per una squadra che fino a poco fa autorizzava ben altri sogni. Dal fronte societario tutto tace. Niente di nuovo sotto il sole. Forse sarebbero bastati davvero un Quagliarella e un Mexes per restare aggrappati a quei sogni un altro po’. Ma dopo quindici anni di gestione Della Valle, è più facile che alla fine dei giochi, tra un paio di settimane, ci si ritrovi con un Keirrison o un Bonazzoli. E qualcuno in più fuori dello stadio a intonare il canto “Bisogna spendere”.

lunedì 11 gennaio 2016

L'ultima ballata del Duca Bianco



Sono cresciuto ascoltando e guardando il genio pop di David Bowie. Era un maestro della re-invenzione, che continuava a riproporsi al meglio. Una perdita enorme”.
Il governo di Sua Maestà britannica nella sua lunga storia si è scomodato raramente a rilasciare pubblici statement a proposito di persone o eventi appartenenti al cosiddetto mondo dello spettacolo. Forse il precedente più clamoroso, ma anche l’unico, era stata la concessione del titolo di baronetti ai Beatles da parte di una giovanissima Regina Elisabetta negli anni sessanta, in piena era della swinging London. David Cameron, primo ministro di una Gran Bretagna ormai completamente diversa, rompe cinquant’anni dopo il riserbo per celebrare la scomparsa di un’altra monumentale icona dell’ultimo fenomeno culturale in cui la sua nazione è stata all’avanguardia nella storia contemporanea, il Rock and Roll.
David Robert Jones era figlio di Peggy Burns, cassiera di cinema, e Haywood Stenton Jones, impiegato di un orfanotrofio (in cui lui stesso era cresciuto) e reduce della Seconda Guerra Mondiale. Il piccolo David era nato a Brixton l’8 gennaio 1947. Due giorni fa aveva festeggiato il suo sessantanovesimo compleanno, unitamente all’uscita della sua ultima raccolta di inediti, Blackstar. Erano – e non lo sapevamo - le ultime ore di una lotta ormai pluriennale contro il male del secolo, un cancro devastante, ma soprattutto di una vita avventurosa che lo consegna alla posterità come la più grande rockstar britannica di tutti i tempi, ed anche se possibile qualcosa di più.
E’ perfettamente inutile adesso rievocare una storia personale che conoscono tutti. Ha molto più senso cercare di fermare su queste pagine sensazioni e sentimenti che questo ragazzo caduto sulla Terra del Rock oltre cinquanta anni fa (e come dice appropriatamente il premier Cameron ancora capace di sorprenderci con le sue trasformazioni e re-invenzioni di se stesso e della propria arte) ha fatto provare a intere generazioni di ragazzi come lui, invecchiati senza rendersene conto, almeno fino ad oggi, insieme a lui.
Era un grande attore David, oltre che un  grande musicista, e forse è proprio ciò che l’ha reso unico, irripetibile. Con lui il rock ed il pop sono diventati glamour, dicono unanimemente adesso tutti i critici. Hanno acquisito cioè una veste grafica, visiva, che non ha eguali nell’arte di nessun altro dei giganti della musica che dagli anni sessanta in poi ha fatto da colonna sonora alle generazioni. Che a partire da quella denominata beat hanno sognato di cambiare il mondo così come lui riusciva a cambiare pelle, mantenendo sempre uguale a se stessa soltanto (si fa per dire) l’inconfondibile e splendida voce, fino all’ultima incisione uscita sul mercato pochi giorni fa.
Destinato a non passare inosservato per l’aspetto fisico che ne faceva un idolo delle teenagers (così come un’icona gay anche per certi suoi atteggiamenti giovanili), David colpiva per lo sguardo magnetico impreziosito dalla celebre eterocromia (il raro fenomeno delle due pupille di colori diversi) e dalla midriasi provocatagli dal pugno di un antico compagno della sua band originaria. La musica ce l’aveva nel sangue, a dieci anni sognava già di diventare l’Elvis Presley britannico, a venti era già una stella emergente del rock. C’era già un Davy Jones nel rock d’Oltremanica, era il cantante dei Monkees. E allora ecco il nostro eroe cambiare cognome, prendendo a prestito quello del celebre colonnello americano Jim Bowie, inventore dell’altrettanto celebre coltello.
Space Oddity, l’album ispirato all’allora recente primo viaggio dell’uomo verso la Luna, decretò nel 1969 il suo primo successo discografico planetario, nonché l’avvio della sua straordinaria carriera. Ziggy Stardust, poi soprannominato definitivamente il Duca Bianco, era un personaggio teatrale prima ancora che un rock singer. Le sue canzoni, un successo dietro l’altro per quasi cinquant’anni, aiutavano molto la costruzione di un personaggio il cui paradigma forse fu stabilito per sempre dalla celebre Changes.
David Bowie ed Iman a Firenze il 6 giugno 1992 il giorno del loro matrimonio



Dopo la fase ambigua di Ziggy e quella della trilogia nazi-fantasy-esoterico-berlinese di Heroes, Low e Lodger, arrivarono gli anni del pop e del cinema. Due titoli su tutti, L’uomo che cadde sulla Terra, e Merry Christmas Mr. Lawrence. Poi gli anni della maturità, del matrimonio con la modella somala Iman Mohamed Abdulmajid, seconda moglie dopo Angela Barnett e seconda madre di una  sua figlia, Alexandria Zahra "Lexi" Jones, sorellastra di Duncan avuto dalla prima moglie, meglio noto come Zowie Bowie. David e Iman si sposarono proprio a Firenze il 6 giugno 1992, nella Chiesa americana di Saint James in Via Rucellai. Sempre a Firenze aveva avuto luogo il 9 giugno 1987 il primo storico concerto italiano di David Bowie. L’arte aveva riconosciuto l’arte e se ne era innamorata.
E’ stato Zowie a dare l’annuncio della morte del padre. Così percossa, attonita la terra al nunzio sta, le parole di Manzoni scritte per la morte di Napoleone sono le uniche che ci vengono in mente per tentare di descrivere il vuoto altrettanto grande lasciatosi dietro da questo fenomeno che a modo suo ha segnato il proprio tempo altrettanto significativamente del celebre corso.
Addio, Duca Bianco. Ci credevamo immortali. Non lo siamo. E il giorno che ce ne accorgiamo senza possibilità di equivoci è comunque un gran brutto giorno.

domenica 10 gennaio 2016

DIARIO VIOLA: I nodi al pettine

D’ora in avanti, quando usciranno i calendari della serie A ad agosto la prima cosa che i tifosi della Lazio faranno sarà quella di andare a vedere quando si gioca Fiorentina – Lazio. La gita più bella, rilassante e divertente che il supporter laziale possa fare, almeno in Italia, è e resta quella a Firenze. Se i numeri dicono qualcosa, cinque vittorie in sei anni dei biancocelesti al Franchi parlano un linguaggio chiarissimo.
Se fossimo imprenditori del settore del calzaturificio, e per cinque volte su sei uscisse dalla nostra linea di produzione la stessa tomaia con lo stesso difetto, probabilmente qualche domanda ce la faremmo. E qualche decisione la prenderemmo, sempre se vogliamo restare concorrenziali.
Quando segna Keita al 45’ del primo tempo dopo che la sua squadra ha mancato almeno altre tre ghiotte occasioni per passare in vantaggio, la sensazione è di rivedere per la quinta volta lo stesso film. E finché lo rivediamo noi che siamo “tifosi” (cioè afflitti da una ben nota patologia, quella viola) o a seconda delle interpretazioni “clienti” (cioè gente che ormai ha comprato, e non può più esercitare il diritto di recesso) pazienza. Ma quei due signori presenti ieri in Tribuna Autorità che fino a prova contraria ci mettono fior di soldi per rivedere lo stesso film tutti gli anni forse a questo punto potrebbero fare anche valutazioni diverse.
La Lazio che ha preso l’abitudine di queste passeggiate fiorentine, si badi bene, non è certo quella di Chinaglia, Re Cecconi, Wilson e compagnia bella. E nemmeno quella di Salas, Mihajlovic, Mancini & C. E’ una discreta squadra, che l’anno scorso riusciva ad essere qualcosa di più e che quest’anno fino alla diciottesima giornata aveva destato più che altro perplessità. Ma alla diciannovesima si gioca appunto Fiorentina – Lazio, e allora ecco che l’aquila torna a volare. Come sempre.
Passano gli anni, passano gli allenatori sulla panchina viola. Mihajlovic, Delio Rossi, Montella, ora Sousa. Filosofie diverse, stesso pastrocchio. La Fiorentina macina gioco orizzontale, nella circostanza anche particolarmente farraginoso. La Lazio aspetta, e poi colpisce. Gli uomini per andare via in velocità in questi anni ce li ha avuti sempre. Lotito evidentemente i suoi problemi di tetto – ingaggi li ha saputi risolvere. Prendendo a base Candreva, o Felipe Anderson, o Keita, o Klose o Cana affondano nella ipotetica difesa viola come e quando vogliono.
Quest’anno, l’ago della bilancia sembrava pendere decisamente dalla parte toscana. La Lazio non ha più fame, si lamentavano a Roma. La Fiorentina vola nella zona scudetto, gongolavano a Firenze. Non ci doveva essere partita. Ma il buon Pioli in settimana presentando la partita dei suoi si era detto di essere sicuro di venire a vincere in casa degli osannati gigliati. E il perché lo sapeva lui, che da bravo allenatore studia gli avversari. La Fiorentina del 3-5-2 è una vittima sacrificale prediletta per quelle squadre che si presentano come una testuggine compatta pronta a colpire con la velocità letale del cobra. Come la Roma un paio di mesi fa, come la Lazio adesso.
Come contro la Roma, due terzi del tempo trascorrono con lo sterile possesso palla viola. Peggio che contro la Roma, il primo tiro nello specchio della porta della Lazio scoccato dalla Fiorentina accade al 75’. Autore quel Giuseppe Rossi che non avrebbe dovuto più nemmeno esserci, se le sirene di mercato avessero cantato la melodia giusta.
Da parte viola, il bravo allenatore Paulo Sousa, al contrario del suo collega biancoceleste, oggi sbaglia lo sbagliabile. Lascia fuori Ilicic con l’intenzione di risparmiarlo per Milano. La mossa, contestuale al mancato utilizzo per squalifica di Bernardeschi, si rivela ovviamente funesta. Nella morsa del centrocampo laziale, tosto, compatto, veloce e tecnico, quello viola va sott’acqua. Sulle fasce si notano un Alonso costretto più a difendere che a spingere ed un Blaszczykowski  che brilla soprattutto per la sua assenza, tanto da costringere il mister a toglierlo per coprire almeno la buca creatasi a destra.
Il solo Borja Valero appare insufficiente a portare azioni offensive verso la porta difesa da Berisha. Le velleità viola si arrestano regolarmente sulla tre quarti della Lazio, che una volta ripreso il pallone fa paura con le sue ripartenze, soprattutto dalla mezz’ora del primo tempo in poi. Mati Fernandez è impalpabile, malgrado il fresco rinnovo del contratto. Badelj e Vecino sono costretti più all’interdizione che alla riproposizione. La squadra non ha soluzioni offensive, ed è un male non da poco, visto che gioca in casa una partita decisiva per le proprie ambizioni ormai dichiarate.
In difesa, Roncaglia non tiene Keita, Astori e Gonzalo non riescono a tappare tutti i buchi. Nell’ultimo quarto d’ora del primo tempo la Lazio potrebbe passare almeno tre volte. In particolare si mette in luce una vecchia (si fa per dire) conoscenza nostrana, quel Milinkovic Savic che è stato in estate coprotagonista (insieme agli uomini mercato viola) di una delle più clamorose farse della storia del calcio italiano. Il ragazzo non sarà un granché in quanto a statura morale (ma chi lo è nel calcio di oggi?), ma a calcio sa giocare. Lo dimostra sfiorando il gol del vantaggio poco prima di quello di Keita. E lo conferma segnando un irrisorio 2-0 dopo una ripresa interamente trascorsa dai suoi a reggere il confusionario arrembaggio di una Fiorentina che non vuole rinunciare ai suoi sogni.
Il gesto con cui poi il Milinkovic indica alla panchina viola lo stemma sulla sua maglia biancoceleste è in effetti di cattivo gusto, un vero e proprio schiaffo in faccia all’A.C.F. che gli aveva pagato il biglietto aereo dal Belgio all’Italia, prima del proseguimento per Formello. Ma è difficile non ammettere che in qualche modo non sia meritato. In ogni caso, a quel punto la Fiorentina si è affondata da sola. Soltanto quel Rossi dato ormai per ex giocatore ha cercato di tenerla in vita, mentre Kalinic intristisce in campo completamente isolato e Babacar fa lo stesso in panchina.
Paulo Sousa, non contento di aver sbagliato formazione iniziale, fa lo stesso con i cambi. Alonso finisce a giocare a destra. O si tratta di stato confusionale, o di polemica verso la società. Come dire, la famosa omelette. E il bello è che Alonso a destra ed il subentrante Pasqual a sinistra non sono nemmeno dei peggio nella ripresa. Anche se tocca a Roncaglia segnare un inutile gol della bandiera, vanificato poco dopo da Felipe Anderson subentrato a Keita.
Finisce con la sensazione che la Fiorentina abbia finalmente incontrato il proprio limite, dopo mesi trascorsi ad andare a 100 all’ora, per dirla con Gianni Morandi. D’altra parte, se a torto o a ragione si ritiene di avere soltanto 12-13 giocatori all’altezza e il resto sono doppioni da scambiare, essere stati in testa per quattro mesi rappresenta un mezzo miracolo. Con 38 punti in altre stagioni si era largamente campioni d’inverno.
Finisce anche con la sensazione che “nel manico” ci sia qualcosa che non va. Quando Vincenzo Montella invitò il pubblico di Firenze ad accettare il fatto che “siamo questi” (dopo una semifinale di Europa League) mezza città quasi insorse. Adesso che Paulo Sousa gioca senza riserve perché non ritiene di averne all’altezza (e soprattutto non ha schemi alternativi all’altezza, questo va detto) le reazioni sono molto più tendenti alla comprensione. Anche questa è Firenze.
Per quanto riguarda quei due signori in Tribuna Autorità che ci mettono i soldi, difficile stabilire se sia giusto criticarli o applaudirli comunque. L’equilibrio è sempre d’obbligo, nella vita e nello sport. Siamo pur sempre a ridosso della vetta pur dopo l’ennesima prestazione disarmante in fotocopia contro la “nemesi” Lazio. Ma una cosa va detta: non è quel gruppo di tifosi che accenna ad una peraltro garbata contestazione a rendersi responsabile di una caduta di stile, ma piuttosto il patron che la stigmatizza ai microfoni della televisione. Perché conferma tra l’altro che la famiglia di Casette d’Ete ha grossi problemi di comunicazione con l’esterno, se addirittura si nasconde dietro ad un episodio così marginale per non dover parlare delle proprie responsabilità.
Il cliente, caro Andrea Della Valle, ha sempre ragione. Vediamo di ricordarsene anche quando non fa comodo.


venerdì 8 gennaio 2016

Guido è andato a dirigere il centralino del Paradiso

Quand’io l’ho conosciuto, o inizio a ricordarlo, non era già vecchio. Anche se i suoi capelli precocemente imbiancati potevano farlo sembrare. Non aveva avuto una vita facilissima, come molti ragazzi del dopoguerra. Si era fatto da sé, Guido. Completamente. E se aveva un difetto – o magari un pregio, per quello che può valere il mio giudizio – era quello di pretendere dagli altri né più e né meno che quello che aveva preteso da se stesso.
Dove lavoro io, era diventato una istituzione, una leggenda. E incuteva rispetto, se non addirittura timore, anche a molti che erano arrivati più in alto di lui almeno in apparenza. Passare da bischeri con Guido Capperucci era questione di un attimo, tu fossi usciere o presidente, se non eri sicuro di quello che dicevi quando parlavi con lui.
Operaio, infermiere, poi centralinista. Era diventato lui il "signore" del centralino della Regione Toscana. Da autodidatta. E quando venivano gli ingegneri della Telecom a proporre qualche soluzione tecnica, finiva che prima si levavano il cappello e poi stavano in silenzio a sentire come avrebbe fatto lui. Che della sua centrale telefonica conosceva vita, morte e miracoli. Ne conosceva “l’anima”, come si trattasse di un altro figlio oltre a quelli che aveva. E dei quali parlava sempre con orgoglio.
Non sopportava chi non valeva niente. Per questo mi provai a dirgli che era andato in pensione al momento giusto, perché ormai la Regione Toscana – da cima a fondo – è piena zeppa soprattutto di persone, donne e uomini, che niente appunto valgono. E quella volta, la prima e l’ultima, mi dette ragione senza discutere. Era il primo a sapere che il suo tempo, il tempo del merito, era irreparabilmente finito.
Non sopportava i figli d’arte. Io, che almeno teoricamente lo ero, dovetti lottare allo spasimo per conquistarmi il suo rispetto e la sua stima. Malgrado mi conoscesse fin da ragazzino. Malgrado avesse avuto amicizia ed affetto per mio padre. Ma il lavoro era un’altra cosa. E quando un capo settore in vena di esperimenti mi mise a lavorare a fianco a lui – io che ero il “laureato” e lui che era venuto su dalla gavetta, io l’apprendista e lui l’uomo che malgrado avesse fatto (come era solito dire) soltanto “la terza media al buio” aveva da insegnare più sul lavoro, su qualunque lavoro, più di un manager formato alla Bocconi – mi fece senza immaginarselo un regalo inestimabile.
Fu dura lavorare con Guido, ancora più dura dimostrargli quello che valevo e tirargli fuori ogni giorno di più qualcuno dei suoi “segreti” del mestiere. Posso dire soltanto due cose. La prima è che ce l’ho fatta, e me ne accorsi quando cominciò a trattarmi non più da ragazzo ma piuttosto da uomo. La seconda è che dopo mio padre è stata la persona da cui ho imparato di più. Se oggi sono appunto diventato un uomo vero, lo devo parecchio anche a lui.
Non l’ho mai ringraziato. Non me l’avrebbe permesso. Non era il tipo d’uomo che si perde in nostalgie da ricchi, e andava per la sua strada senza sforzo. Mi viene facile prendere a prestito le parole della più bella canzone di Francesco Guccini. Perché Guido era come Amerigo. La storia migliore del nostro ventesimo secolo.
Come mio padre, se l’é goduta poco quella pensione che si era meritato come pochi altri. Quest’anno non l’avevo sentito, avevo mancato la consuetudine della telefonata il primo dell’anno, giorno del suo compleanno. Ho pensato la stessa sciocchezza di sempre: tanto ci sarà tempo per recuperare.
Era già condannato e non lo sapevo. Avrei voglia di piangere. Eppure sento che se lo facessi verrei meno a uno degli insegnamenti più importanti che ho avuto da quest’uomo. Non si piange. Mai. E se proprio si deve, lo si fa da soli. Quando non ci vede nessuno. Quando il dolore può essere soltanto nostro. Poi si stringe i denti e si prosegue. Finché non verrà il tempo, in faccia a tutto il mondo, per rincontrarsi.

Addio amico Guido. Quel tempo verrà prima o poi. Nel frattempo, che ti sia lieve quella terra da cui venivi e di cui – come molti miei cari - eri rimasto profondamente orgoglioso. 

giovedì 7 gennaio 2016

DIARIO VIOLA: Dove eravamo rimasti?

La notizia del giorno è che Paulo Sousa ha sconfitto anche la Befana. La vecchina che porta doni e/o carbone era tradizionalmente uno degli avversari più temibili della Fiorentina, alla quale spesso e volentieri in epoca recente è andato di traverso il panettone natalizio al ritorno sui campi di gioco.
In sede di presentazione dell’impegno da cui era attesa la banda viola in questa diciottesima giornata, la prima del 2016 e l’ennesima ormai in veste di squadra virtualmente in lotta per lo scudetto, avevamo presentato il Palermo come il cliente più scomodo tra quelli posti di fronte alle varie pretendenti al titolo. Malgrado il trend positivo degli ultimi anni al Barbera, tornare via dalla Sicilia ancora una volta con un risultato pieno non pareva cosa facile. E poi c’era di mezzo lei, la temibile Befana. O per meglio dire l’Epifania, quella che tutte le feste le porta via. E spesso anche i sogni.
Avevamo lasciato i nostri eroi ad un punto dalla vetta della classifica della serie A, dopo diciassette turni giocati bene come nessun altro e qualche sconfitta di troppo, maturata sì per “episodi” e contro “pari grado” ma che proprio in virtù di quei ricorrenti episodi lasciava qualche dubbio sulla tenuta psicofisica della squadra allenata da Paulo Sousa. Nello scambiarci gli auguri di buone feste ci eravamo anche detti che nei giorni in cui la palla non avrebbe rimbalzato sull’erba, essa sarebbe doverosamente passata alla società, intesa come staff di addetti al mercato. La splendida coperta viola sembrava corta più che mai, e lo stesso mister che aveva piacevolmente sorpreso in quanto a chiarezza di idee e capacità di trasmettere il proprio carattere a giocatori abituati da tre anni ad altra personalità ed altri schemi sembrava egli stesso in difficoltà in quanto a gestione di questa coperta. Da cui non si era fatto scrupolo tra l’altro di tagliare via una bella fetta di scampoli per un motivo o per l’altro ritenuti non all’altezza della trama complessiva.
Palermo-Fiorentina non scoglie tutti i nodi bene o male venuti al pettine viola nell’ultima fase del 2015, ma consente un ottimo avvio di 2016, a prescindere da cosa farà l’A.C.F. al calciomercato appena iniziato e che si protrarrà fino alla fine del corrente mese. Qualunque cosa sia destinato a trovare Paulo Sousa nella calza della Befana che tardivamente gli verrà aperta il 31, egli sa che deve partire a razzo con quello che ha in mano. I suoi undici fedelissimi, a cui come a tutto il resto della squadra ha concesso ferie ridotte e che evidentemente ha saputo tenere sulla corda – psicologicamente e fisicamente parlando – in senso decisamente positivo.
La Fiorentina aggredisce il Palermo come ha fatto più o meno con tutti quest’anno, grandi e piccini. Difesa a tre con recupero di Roncaglia a fianco di Gonzalo e Astori, con Alonso (fresco di rinnovo) e Bernardeschi sulle fasce a tenere il baricentro della squadra più alto possibile. Borja, Badelj e Vecino sono quelli che ci ricordavamo là in mezzo. Davanti, per un Kalinic che non sembra ritornato ancora quello migliore, c’è un Ilicic che meglio di così non si può. Il Palermo dimostra subito di essere tutt’altro che lo spauracchio paventato, la Fiorentina di essere per una volta passata indenne attraverso la lunga sosta natalizia.
Dopo dieci minuti, Kalinic ha già mangiato un gol grosso come una casa. Dopo altri tre, Ilicic va via al marcatore con una giocata degna di Roberto Baggio e si presenta davanti a Sorrentino spostato sulla destra con uno spazio di tiro in porta così ridotto che metterebbe in difficoltà una sarta provetta. Per di più, la palla è sul piede meno benedetto, il destro. Ma alla sarta slovena il ricamo riesce alla perfezione. Partita in discesa, ottimo inizio per i viola e per i loro aficionados. Come si dice, buona fine e buon principio, meglio di così….
Come già il Chievo, il Palermo sembra una squadra che ti può dare filo da torcere per segnargli il primo gol, ma una volta che l’ha preso difficilmente te lo rifa. La truppa agli ordini di Ballardini non è un granché, ma insomma giocando davanti al proprio pubblico qualcosa di più e di meglio lo potrebbe combinare. Invece lo score del primo tempo rosanero è una fila di zeri. Merito anche di una Fiorentina che gioca la partita perfetta.
Al 42’ Kalinic recupera una delle tante palle controllate oggi non alla perfezione e serve divinamente al centro un Ilicic solo soletto al limite dell’area. Se lo sloveno ha il tempo di aggiustarsi la palla sul sinistro e di pensare a cosa farne, da quella posizione difficilmente perdona. Doppietta e commozione profonda per un giocatore che in questo stadio ha giustamente lasciato un bel pezzo di cuore, e che pur facendo il suo dovere di professionista fino in fondo signorilmente limita la sua esultanza al rispetto per una maglia e per tifosi che fino a tre anni fa erano i suoi.
Prima del riposo, c’è tempo perché Borja Valero sciupi una prodezza alla Baggio (anche questa) servendo tardivamente Kalinic che completa la sua scorpacciata di gol praticamente già fatti. Dice, ma siamo sul due a zero, che vuoi che sia, e poi siamo in controllo totale del match.
Una squadra che studia da grande come la fiorentina deve imparare che i gol “già fatti” vanno fatti davvero, sempre e comunque. Perché prima o poi servono. Nella ripresa, vuoi l’impossibilità viola di mantenere il ritmo del primo tempo a questo stadio della preparazione, vuoi l’orgoglio (e la paura di Zamparini) che impone ai rosanero di mettere in campo qualcosa che assomigli ad una reazione per quanto tardiva, la musica sembra fin da subito diversa. Ed il 3-0 fallito pochi istanti prima del riposo assume una connotazione un tantino diversa.
Bernardeschi e Alonso non tengono più le fasce come nel primo tempo, ed anche in mezzo il trio di centrocampo non appare più infallibile. Lasciata a se stessa, una difesa fino a quel momento inoperosa comincia a mettere in risalto i consueti affanni, con Astori in particolare che compie un paio di “roncagliate” (molto meglio il Facundo propriamente detto, quest’oggi), una delle quali consente a Tatarusanu di riprendere diversi dei punti persi durante l’autunno.
Sousa capisce che la squadra non tiene più il campo come prima, subendo le ricorrenti folate palermitane. Peccato che reagisca da allenatore nostrano vecchio stampo, togliendo attaccanti e mettendo difensori. Prima esce Ilicic per il redivivo Kuba. Volontà di non infierire sui suoi ex da parte dello sloveno, oppure affanno? Il polacco comunque si sistema a destra e mostra di essere rientrato in squadra con buona condizione e soprattutto buona testa.
Bernardeschi andrebbe al centro a fare quello che sa fare meglio: il numero 10. Senonché appare un po’ in calo, stremato dalle continue rincorse a Lazaar. La decisione del mister di toglierlo a beneficio di Tomovic qualche perplessità per la verità la suscita. Fatto sta che, ne sia consapevole Sousa o meno, da quel momento per la Fiorentina ripassare la metà campo diventa ovviamente un problema non da poco.
Nel frattempo tra i rosanero è entrato l’ex di turno, Alberto Gilardino. La Fiorentina resiste fino al 32’ a negargli la soddisfazione che ha concesso a tutti i suoi ex, prima o dopo. Poi, Morganella diventa incontenibile come Cristiano Ronaldo, Vazquez crossa come David Beckam e Astori non salta sul Gila, che avendo spazio e tempo a pochi passi dalla porta viola di testa non perdona. 2-1 e partita complicata assai, perché ormai la Fiorentina tiene pochi palloni a centrocampo e non riparte più.
I minuti finali sono quelli già sofferti tante volte, e se il Palermo avesse più consistenza in avanti anche il risultato potrebbe diventare quello di altre volte. Al 45’, con quattro da recuperare, Sousa leva l’ultimo attaccante, quel Kalinic che forse è meglio aspettare un po’ prima di paragonare a Omar Gabriel Batistuta e che oggi ha dato vita ad una prestazione difficilmente giudicabile come positiva, e mette dentro il vecchio capitano Pasqual.
Si tratterebbe solo di far passare i minuti calciando via i palloni, ma questa squadra ha un altro DNA. Così, quando il pallone capita sulla tre quarti ad un esausto Borja Valero, lo spagnolo per una volta e proprio nel momento più diffcile la gioca di prima sul filo del fuorigioco lanciando a rete il più fresco e più lucido Kuba. Che davanti a Sorrentino mantiene la giusta freddezza aspettando il momento di metterlo a sedere e di piazzare la palla.
Finisce così, con la bella e ancora un po’ corta coperta viola portata in trionfo dalla sparuta pattuglia di tifosi viola spintasi fino in Sicilia per festeggiare degnamente l’anno nuovo. Mentre scriviamo, Napoli ed Inter hanno ancora da giocare. Ma una Fiorentina a 38 punti è difficile non celebrarla. E non viene certo voglia di criticarla per quei difetti che ancora emergono, complicandole la vita.

La vita in viola continua ad essere bella. La palla è tornata a rimbalzare sull’erba verde dopo la lunga (e per una volta benigna) sosta. Mentre i giocatori vanno al meritato riposo, la società però continui a palleggiare. Presto arriverà un avversario ben più temibile della Befana. Si chiama stanchezza. L’abbiamo già intravista, essa corre accanto ai nostri ragazzi.