D’ora in avanti, quando usciranno
i calendari della serie A ad agosto la prima cosa che i tifosi della Lazio
faranno sarà quella di andare a vedere quando si gioca Fiorentina – Lazio. La
gita più bella, rilassante e divertente che il supporter laziale possa fare,
almeno in Italia, è e resta quella a Firenze. Se i numeri dicono qualcosa,
cinque vittorie in sei anni dei biancocelesti al Franchi parlano un linguaggio
chiarissimo.
Se fossimo imprenditori del
settore del calzaturificio, e per cinque volte su sei uscisse dalla nostra
linea di produzione la stessa tomaia con lo stesso difetto, probabilmente
qualche domanda ce la faremmo. E qualche decisione la prenderemmo, sempre se
vogliamo restare concorrenziali.
Quando segna Keita al 45’ del
primo tempo dopo che la sua squadra ha mancato almeno altre tre ghiotte
occasioni per passare in vantaggio, la sensazione è di rivedere per la quinta
volta lo stesso film. E finché lo rivediamo noi che siamo “tifosi” (cioè
afflitti da una ben nota patologia, quella viola) o a seconda delle
interpretazioni “clienti” (cioè gente che ormai ha comprato, e non può più
esercitare il diritto di recesso) pazienza. Ma quei due signori presenti ieri
in Tribuna Autorità che fino a prova contraria ci mettono fior di soldi per
rivedere lo stesso film tutti gli anni forse a questo punto potrebbero fare
anche valutazioni diverse.
La Lazio che ha preso l’abitudine
di queste passeggiate fiorentine, si badi bene, non è certo quella di
Chinaglia, Re Cecconi, Wilson e compagnia bella. E nemmeno quella di Salas,
Mihajlovic, Mancini & C. E’ una discreta squadra, che l’anno scorso
riusciva ad essere qualcosa di più e che quest’anno fino alla diciottesima
giornata aveva destato più che altro perplessità. Ma alla diciannovesima si
gioca appunto Fiorentina – Lazio, e allora ecco che l’aquila torna a volare.
Come sempre.
Passano gli anni, passano gli
allenatori sulla panchina viola. Mihajlovic, Delio Rossi, Montella, ora Sousa.
Filosofie diverse, stesso pastrocchio. La Fiorentina macina gioco orizzontale,
nella circostanza anche particolarmente farraginoso. La Lazio aspetta, e poi
colpisce. Gli uomini per andare via in velocità in questi anni ce li ha avuti
sempre. Lotito evidentemente i suoi problemi di tetto – ingaggi li ha saputi
risolvere. Prendendo a base Candreva, o Felipe Anderson, o Keita, o Klose o
Cana affondano nella ipotetica difesa viola come e quando vogliono.
Quest’anno, l’ago della bilancia
sembrava pendere decisamente dalla parte toscana. La Lazio non ha più fame, si
lamentavano a Roma. La Fiorentina vola nella zona scudetto, gongolavano a Firenze.
Non ci doveva essere partita. Ma il buon Pioli in settimana presentando la
partita dei suoi si era detto di essere sicuro di venire a vincere in casa
degli osannati gigliati. E il perché lo sapeva lui, che da bravo allenatore
studia gli avversari. La Fiorentina del 3-5-2 è una vittima sacrificale
prediletta per quelle squadre che si presentano come una testuggine compatta
pronta a colpire con la velocità letale del cobra. Come la Roma un paio di mesi
fa, come la Lazio adesso.
Come contro la Roma, due terzi
del tempo trascorrono con lo sterile possesso palla viola. Peggio che contro la
Roma, il primo tiro nello specchio della porta della Lazio scoccato dalla
Fiorentina accade al 75’. Autore quel Giuseppe Rossi che non avrebbe dovuto più
nemmeno esserci, se le sirene di mercato avessero cantato la melodia giusta.
Da parte viola, il bravo
allenatore Paulo Sousa, al contrario del suo collega biancoceleste, oggi
sbaglia lo sbagliabile. Lascia fuori Ilicic con l’intenzione di risparmiarlo
per Milano. La mossa, contestuale al mancato utilizzo per squalifica di
Bernardeschi, si rivela ovviamente funesta. Nella morsa del centrocampo
laziale, tosto, compatto, veloce e tecnico, quello viola va sott’acqua. Sulle
fasce si notano un Alonso costretto più a difendere che a spingere ed un Blaszczykowski che brilla soprattutto per la sua assenza,
tanto da costringere il mister a toglierlo per coprire almeno la buca creatasi
a destra.
Il solo Borja Valero appare insufficiente
a portare azioni offensive verso la porta difesa da Berisha. Le velleità viola si
arrestano regolarmente sulla tre quarti della Lazio, che una volta ripreso il
pallone fa paura con le sue ripartenze, soprattutto dalla mezz’ora del primo
tempo in poi. Mati Fernandez è impalpabile, malgrado il fresco rinnovo del
contratto. Badelj e Vecino sono costretti più all’interdizione che alla
riproposizione. La squadra non ha soluzioni offensive, ed è un male non da
poco, visto che gioca in casa una partita decisiva per le proprie ambizioni
ormai dichiarate.
In difesa, Roncaglia non tiene
Keita, Astori e Gonzalo non riescono a tappare tutti i buchi. Nell’ultimo
quarto d’ora del primo tempo la Lazio potrebbe passare almeno tre volte. In
particolare si mette in luce una vecchia (si fa per dire) conoscenza nostrana,
quel Milinkovic Savic che è stato in estate coprotagonista (insieme agli uomini
mercato viola) di una delle più clamorose farse della storia del calcio
italiano. Il ragazzo non sarà un granché in quanto a statura morale (ma chi lo
è nel calcio di oggi?), ma a calcio sa giocare. Lo dimostra sfiorando il gol
del vantaggio poco prima di quello di Keita. E lo conferma segnando un
irrisorio 2-0 dopo una ripresa interamente trascorsa dai suoi a reggere il confusionario
arrembaggio di una Fiorentina che non vuole rinunciare ai suoi sogni.
Il gesto con cui poi il
Milinkovic indica alla panchina viola lo stemma sulla sua maglia biancoceleste
è in effetti di cattivo gusto, un vero e proprio schiaffo in faccia all’A.C.F.
che gli aveva pagato il biglietto aereo dal Belgio all’Italia, prima del
proseguimento per Formello. Ma è difficile non ammettere che in qualche modo
non sia meritato. In ogni caso, a quel punto la Fiorentina si è affondata da
sola. Soltanto quel Rossi dato ormai per ex giocatore ha cercato di tenerla in
vita, mentre Kalinic intristisce in campo completamente isolato e Babacar fa lo
stesso in panchina.
Paulo Sousa, non contento di aver
sbagliato formazione iniziale, fa lo stesso con i cambi. Alonso finisce a
giocare a destra. O si tratta di stato confusionale, o di polemica verso la
società. Come dire, la famosa omelette. E il bello è che Alonso a destra ed il
subentrante Pasqual a sinistra non sono nemmeno dei peggio nella ripresa. Anche
se tocca a Roncaglia segnare un inutile gol della bandiera, vanificato poco
dopo da Felipe Anderson subentrato a Keita.
Finisce con la sensazione che la
Fiorentina abbia finalmente incontrato il proprio limite, dopo mesi trascorsi
ad andare a 100 all’ora, per dirla con Gianni Morandi. D’altra parte, se a
torto o a ragione si ritiene di avere soltanto 12-13 giocatori all’altezza e il
resto sono doppioni da scambiare, essere stati in testa per quattro mesi
rappresenta un mezzo miracolo. Con 38 punti in altre stagioni si era largamente
campioni d’inverno.
Finisce anche con la sensazione
che “nel manico” ci sia qualcosa che non va. Quando Vincenzo Montella invitò il
pubblico di Firenze ad accettare il fatto che “siamo questi” (dopo una
semifinale di Europa League) mezza città quasi insorse. Adesso che Paulo Sousa
gioca senza riserve perché non ritiene di averne all’altezza (e soprattutto non
ha schemi alternativi all’altezza, questo va detto) le reazioni sono molto più
tendenti alla comprensione. Anche questa è Firenze.
Per quanto riguarda quei due
signori in Tribuna Autorità che ci mettono i soldi, difficile stabilire se sia
giusto criticarli o applaudirli comunque. L’equilibrio è sempre d’obbligo,
nella vita e nello sport. Siamo pur sempre a ridosso della vetta pur dopo l’ennesima
prestazione disarmante in fotocopia contro la “nemesi” Lazio. Ma una cosa va
detta: non è quel gruppo di tifosi che accenna ad una peraltro garbata
contestazione a rendersi responsabile di una caduta di stile, ma piuttosto il
patron che la stigmatizza ai microfoni della televisione. Perché conferma tra
l’altro che la famiglia di Casette d’Ete ha grossi problemi di comunicazione
con l’esterno, se addirittura si nasconde dietro ad un episodio così marginale
per non dover parlare delle proprie responsabilità.
Il cliente, caro Andrea Della
Valle, ha sempre ragione. Vediamo di ricordarsene anche quando non fa comodo.
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