Sono stati due anni pieni di
anniversari. Il 14 e il 15 di ogni secolo dell’era moderna in genere o sono
quelli che concludono un lungo periodo di guerre, o sono quelli che gli danno
il via. Nel Novecento il 1914 prese di sorpresa l’Europa della Belle Epoque,
del Positivismo, del più lungo periodo di pace mai vissuto dal Vecchio Continente
dopo che l’Impero di Bismarck aveva travolto a Sedan quello di Napoleone III. A
Sarajevo bastarono alcuni spari diretti contro l’erede al trono degli Asburgo d’Austria-Ungheria
perché un mondo che si riteneva ormai civile e prospero senza possibilità di
ritorno all’indietro precipitasse nel volger di pochi giorni in un nuovo abisso
di barbarie.
Kaiser Wilhelm II |
Gli Stati entrarono nella Grande
Guerra o con riluttanza o con la convinzione che si trattasse ancora di una di
quelle guerre ottocentesche che si risolvevano in qualche battaglia campale e
quasi mai coinvolgendo le popolazioni civili oltre agli eserciti. Un tragico
errore portò ad una inutile strage, come l’avrebbe definita qualche anno e
molti milioni di morti più tardi il Papa Benedetto XV. La stessa tecnologia che
aveva reso incomparabilmente più agevole la vita degli europei a partire dalla
seconda metà del secolo precedente si scoprì che rendeva molto più facile e
molto più atroce (in scala e metodo) anche la morte.
Alla fine del primo anno di
guerra, Ypres era già diventata sinonimo di orrore. La guerra di trincea aveva
dissolto ogni illusione di blitzkrieg antica o moderna. I semi di atrocità
ancora peggiori stavano entrando in circolo nel sangue degli europei e degli
abitanti dei loro dominions coloniali. E tuttavia ancora un briciolo di umanità
quasi favolistica consentì ai “nemici” delle trincee anglo-francesi e prussiane
di festeggiare il primo Natale di guerra in modo insolito. La più clamorosa
tregua bellica nella storia dell’uomo, dai tempi in cui ad Olimpia si comprese
che era forse più redditizio affrontarsi in uno stadio sportivo che sui campi
di battaglia.
Il 1915 fu l’anno dell’Italia,
sempre buona ultima ad allinearsi alle tendenze positive o negative che le
arrivano da oltre confine. Un secolo prima, il Congresso di Vienna aveva ribadito
che la penisola era poco più che una espressione geografica. Un secolo dopo, la
giovane nazione italiana dimostrò che la sua fame di guerra andava ben al di là
della necessità di riunire alla patria le zone irredente dal lungo e sanguinoso
Risorgimento, da Trento all’Istria.
Con l’Italia in campo, la Grande
Guerra diventò totalmente europea. E il più aveva ancora da venire. Anche il
16, il 17 e il 18 sono e saranno anni di anniversari significativi. Il mondo in
quei tre anni cambiò per sempre. Lo aveva già fatto. Lo avrebbe fatto ancora. E
la gente che lo abita avrebbe continuato imperterrita a guardarsi bene dall’imparare
qualcosa dal passato, remoto o recente.
Ciò che fa della storia quel
ciclo di corsi e ricorsi di cui parlava Giovan Battista Vico e da cui nessuno vuole
mai apprendere è proprio il dilemma a cui si trova ogni generazione umana:
imparare dagli errori di genitori e nonni, o commetterne di propri?
Adolf Hitler |
Cento anni dall’inizio della
Prima, settanta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. 44 e 45 furono anni ancor
più terribili. Il mondo sembrò sull’orlo d una fine orrenda, piuttosto che di
un nuovo cambiamento. Gli stati totalitari nati dal crollo degli Imperi e dalle
questioni lasciate irrisolte da quegli Imperi e da chi li aveva abbattuti non
si accontentavano di conquiste economiche e territoriali. Volevano forgiare l’uomo
nuovo, o vederne in caso contrario la fine. L’unico limite era quello posto dalla
follia dei dittatori andati al potere con il consenso di masse meno civilizzate di quanto l’apparenza facesse supporre.
Nei trent’anni tra l’inizio e la
fine delle due guerre mondiali, l’uomo sembrò tuttavia acquisire un anticorpo
nel proprio DNA. Un vaccino che impose alla Guerra Fredda scoppiata nel 1947 di
mantenersi entro limiti che sembravano retaggio del passato. Le crisi tra le
due superpotenze non arrivarono mai - o quasi - allo sparo di un solo colpo.
Perché, come disse efficacemente Einstein, sarebbe stato l’ultimo colpo sparato
dall’uomo. Ed Einstein lo sapeva bene, perché era stato uno di coloro che aveva
messo in mano all’uomo la sua arma finale, definitivamente distruttiva: quella atomica.
La bomba atomica c’è ancora,
settant’anni dopo. Eppure il 14 e il 15 del ventunesimo secolo vedono soffiare
di nuovo venti di guerra impetuosi. Vedono il terreno di nuovo fertile per
totalitarismi e fondamentalismi. L’equilibrio del terrore quindi non era dato
dalla disponibilità di armi devastanti, ma piuttosto dalla consapevolezza –
acquisita sulla propria pelle – di cosa può fare l’uomo armato contro l’altro
uomo, sia quell’arma un missile o una semplice clava. Quelle generazioni
avevano già dato, non volevano dare più. Le nuove, come la mia, erano nate nel
benessere. In una nuova Belle Epoque ancora più illusoria della
precedente. Impregnata della fallace
sensazione che certi errori e certi orrori non li avremmo visti accadere più.
Urbano II bandisce la Prima Crociata a Clermont Ferrand |
L’anno che si è appena concluso
era il 920° da quello in cui fu bandita la Prima Crociata. E ancora si parla di
crociate, da una parte e dall’altra. E il giorno dell’Ottava si avvicina. L’anno
che si è appena concluso è stato inoltre quello del 90° anniversario del primo regime rubricato
come “fascista” che si affermò ufficialmente sul continente europeo. Un primato che
tocca all’Italia, ognuno giudichi se vale la pena celebrarlo o meno. Il
Continente era stanco di democrazia, un sistema peraltro pessimo ma senza
alternative, secondo la celebre definizione di Winston Churchill.
L’anno che si è appena concluso
era portatore di un altro anniversario importante. Il 15 giugno 1215 a
Runnymede lungo il Tamigi nella Contea di Surrey i baroni inglesi imposero al
Re Giovanni Senza Terra (il fratello di Riccardo Cuor di leone reso celebre
dalle avventure di Robin Hood) la firma di un documento come tanti che se ne
firmavano nel Medioevo. A volte erano poco più di statuti che concedevano
grandi o piccole libertà a grandi o piccoli borghi del regno. A volte erano
qualcosa di più.
Magna Charta Libertarum |
Si chiamava Magna Charta il
documento la cui firma fu strappata dai Lords al meschino fratello del Cuor di
Leone. Ad essa si fa risalire nientemeno che la nascita della democrazia
parlamentare. Il fondamento di tutte le nostre libertà. Il principio del “niente
tasse senza rappresentanza” fa da sempre la differenza tra noi e i paesi che
vivono sotto regimi illiberali. Solo che noi non ce lo ricordiamo più. E’ stato
infatti uno degli anniversari passati sotto il silenzio più assordante possibile.
In Italia poi, forse all’attuale governo e ai poteri che lo sostengono
interessa più la ricorrenza della Camera dei Fasci e delle Corporazioni. Per la
quale ci sarebbe da aspettare qualche altro anno. Meglio muoversi in anticipo,
avranno pensato gli squadristi renziani.
Il nuovo Asse Roma-Berlino |
Sono arrivato ad una fase della
vita in cui si comincia ad apprezzare la meditazione ed il silenzio, magari
favoriti e accompagnati dal vento che soffia sulle cime disabitate (o quasi) di
molte nostre montagne. I discorsi e le celebrazioni non fanno più per me. Scrivere
poi pensando di lasciarsi dietro qualcosa che insegni qualcos’altro a qualcuno
è diventato sintomo di una presunzione sempre meno sensata. Che ogni
generazione faccia i propri errori e vi rimedi, se sopravvive abbastanza per
farlo. Se scrivo ancora, lo faccio soltanto per me, per i miei ricordi, per le
mie emozioni.
Soffiano venti di guerra
impetuosi. E allora meglio ritirarsi quassù ad ascoltare il vento che soffia su
queste cime dove settant’anni fa tuonava il cannone e scorreva il sangue.
Meglio fermarsi a riflettere sul significato di queste croci e queste lapidi
bianche, che riportano date di nascita e di morte non più distanti di diciott’anni
l’una dall’altra, nomi di ragazzi tedeschi immolati alla più infame delle
cause. Soldati di un esercito maledetto fino alla fine del tempo.
Deutscher Soldatenfriedhof von
Futa Pass. Soltanto qui ce ne sono sepolti oltre trentamila. E’ il più grande
cimitero di guerra germanico in Italia, rimasto a testimoniare quei due anni di
immane follia in cui questi ragazzi seminarono orrore e morte come già avevano
fatto nel resto d’Europa. Non è un caso che qui ce ne siano sepolti così tanti.
Questo era il fulcro della Linea Gotica. A sfondare questo fronte gli alleati
ci misero oltre otto mesi. SS e Wehrmacht stabilirono qui la loro ultima
disperata resistenza prima della rotta finale. L’ordine di Hitler era quello di
morire piuttosto che arrendersi. Tutti, fino all’ultimo uomo. E così fu fatto. Ein Volk, ein Reich, ein Fuhrer.
Deutscher Soldatenfriedhof von Futa Pass |
Il colpo d’occhio è quello di
tutti i cimiteri di guerra. Eppure non riesco a provare la stessa commozione
che mi danno i cimiteri americani. Quello di Falciani alle porte di Firenze,
quello del Giogo – qui vicino – dove sono sepolte le vittime di questi qui, dei
ragazzi nazisti. Quelli della Normandia. Quelle croci bianche dopo tanto tempo
mi stringono il cuore allo stesso modo. So bene che sono nato in un mondo
accogliente e confortante soltanto grazie ai ragazzi sepolti sotto a quelle
croci.
Questi, mi dispiace, ma non sono
la stessa cosa. Erano imbottiti di metanfetamina e dell’ideologia più aberrante
dell’intera storia dell’umanità. O forse di quella che riassumeva e
sintetizzava tutte le aberrazioni della storia umana. Furono capaci di
qualunque cosa, i Karl, i Gustav, gli Johannes, i Fritz che adesso giacciono
sotto queste croci. E grazie ai quali questo lembo di terra è diventato territorio
della Repubblica Federale di Germania. Non della Repubblica Italiana. Alla
fine, la Germania qualche conquista territoriale l’ha ottenuta con la Seconda
Guerra Mondiale. E non è i suoi figli attuali la gestiscano con molta maggiore
simpatia rispetto ai suoi antenati di settant’anni fa, almeno a giudicare da
come ti accolgono quando arrivi in visita.
Questo è quello che penso. Avere
simpatia per i tedeschi è concettualmente impossibile, disse una volta mio padre.
Che se li ricordava con l’elmetto nazista in testa. E io bambino – come lo era
stato lui a tempo in cui quei ricordi si erano stampati indelebilmente nella
sua mente – ascoltavo quei racconti destinati a segnare indelebilmente anche
me.
Non ho simpatia per queste croci,
questi nomi, queste date. Per quella bandiera tedesca che sventola sul mausoleo
qui nel centro della mia terra. Non ho simpatia né commozione per questi
trentamila. Non l’avrò mai. Fosse vissuto uno solo di loro, né io né i miei
cari adesso saremmo qui. Non ho simpatia per quelli che vengono qui a radere l’erba
e a mantenere strutture e fioriere. Li ho visti all’opera anch’io, e non solo
qui. Sono pronti a rimettersi l’elmetto in testa e a fare di questo continente
di nuovo un luogo di sofferenza. Forse lo stanno già facendo.
Non ho simpatia per ragazzi che
avevano si e no diciott’anni quando la loro vita fu stroncata. E’ brutto, lo
so, ma è così. Però posso avere almeno rispetto. La morte alla fine lo merita
sempre. La morte ed il pensiero che prima o poi altri ragazzi come questi
saranno mandati a morire altrettanto stupidamente.
E ci saranno altri anniversari. E
altrettanta gente che li ignorerà.
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