giovedì 21 gennaio 2016

La repubblica delle fate ignoranti



Debora Serracchiani che pontifica contro assenteisti e fannulloni nella pubblica amministrazione è uno spot per il governo Renzi. L’esecutivo forse che ha fatto registrare in assoluto la maggiore distanza tra promesse fatte, aspettative create e realtà dei fatti dell’intera storia repubblicana.
Da quando è stata eletta (con i voti decisivi di cittadini jugoslavi di lontane origini italiane e forniti di doppio passaporto), la vice-segretaria del Partito Democratico nonché, en passant, governatrice della Regione Friuli – Venezia Giulia ha alimentato nelle terre da lei teoricamente amministrate storielle e battute in egual misura ai malumori. Una di queste la vede esclamare di fronte ad una immagine suggestiva del capoluogo: “Bella città Trieste! Ci sono stata una volta!”. Chiedere a qualsiasi triestino dove finisce la battuta e dove comincia la constatazione amara, in una realtà sociale tra l’altro che proprio negli ultimi anni di governo (si fa per dire) democratico ha visto il crollo a valanga di molti dei connotati migliori che ne facevano una delle zone migliori d’Italia per qualità della vita.
Di tutti i testimonial possibili per questa campagna contro il nuovo “nemico interno”, il governo del Rottamatore ha scelto insomma uno dei più improbabili. Le labbra sottili, mai indice di buona disposizione verso il prossimo ed il mondo circostante, della signora Serracchiani sibilano nel compiacente salotto di Lilli Gruber le parole “licenziamento” e “sanzione”con una voluttà che si richiama ai più bassi istinti di un popolo spinto di nuovo dal peggioramento delle proprie condizioni socio-economiche e del proprio livello di consapevolezza politico-culturale a cercare capri espiatori a buon mercato.
Ha un bel ribattere Maurizio Landini, segretario della FIOM peraltro parte integrante del pur screditato sindacato CGIL – storicamente difensore di cause perse, indifendibili, ma redditizie per gli interessati – che gli strumenti per sanzionare assenteisti e fannulloni c’erano già. E che la pubblica amministrazione ha fermi da almeno sette anni (ma nella realtà dei fatti da diversi di più) i rinnovi dei contratti di lavoro. Quegli atti cioè che dovrebbero contenere sia gli incentivi a chi fa il proprio dovere ed anche qualcosa di più, sia le sanzioni a chi è negligente o addirittura –a vari livelli – truffatore del pubblico interesse. Applicando tra l’altro istituti che esistono almeno dal tempo dell’entrata in vigore del testo Unico degli impiegati civili dello Stato del 1957, rafforzati dalla cosiddetta Riforma Brunetta del 2001.
Nel salotto della Gruber tutti parlano di lavoro. Tutti esclusa gente che abbia esperienza di cosa vuol dire lavorare a stipendio bloccato ed eroso, divorato dal costo della vita in costante impennata (anche e soprattutto per le scelte dello stesso governo di che trattasi). E soprattutto cosa vuol dire lavorare sotto dirigenti messi lì dalla politica e da altre consorterie più o meno innominabili. Da tutto comunque meno che dal merito. Dirigenti che poi dovrebbero attivare quelle sanzioni con competenza ed equità, magari evitando di abusarne ad ogni pié sospinto per consolidare un proprio potere personale che non ha altro fondamento che l’appartenenza. Di partito, di loggia o di quant’altro.
Ma l’Italia del 2016 è distratta, e ha bisogno di trovare capri espiatori. E’ la cosiddetta riforma Madia, quella che dovrebbe stroncare furbetti del cartellino nel tempo record di 48 ore. In un paese in cui la giustizia ordinaria ha dei tempi medi paragonabili a quelli occorsi a Mosé per riportare il Popolo Eletto nella Terra Promessa, la giustizia amministrativa si vuole che abbia i tempi del giudice Jeffreys, il magistrato mandato da re Giacomo II d’Inghilterra nel 1685 a stroncare la rivolta dei settari protestanti contro la sua restaurazione cattolica strisciante. Tra l’arresto e l’impiccagione passavano appunto non più di 48 ore. Dei processi che venivano celebrati in quel lasso di tempo non è rimasta gran memoria nella Common Law britannica. Chissà perché.
Il governo Renzi ha bisogno di distrarre l’opinione pubblica. Nelle stesse ore l’Europa per bocca del presidente della commissione Junker sbotta senza mezzi termini per il fatto di “non avere un interlocutore in Italia”. Non è Sarri che dà del “frocio” a Mancini, la questione è un po’ più complessa e difficilmente risolvibile con una ritrattazione.
Nelle stesse ore, al Senato si vota il Ddl Boschi-Verdini, quello che riporterà equilibrio nella Forza del partito democratico, avverando la profezia del suo segretario: “sarò l’ultimo presidente del consiglio a chiedere la fiducia a quest’aula”. Mussolini non avrebbe saputo dire di meglio. Di sicuro dopo la vittoria in questa battaglia renziana per l’unicameralismo, Palazzo Madama assomiglierà a quell’aula sorda e grigia che fu per quasi vent’anni la Camera dei Fasci e delle Corporazioni.
Il Boschi – Verdini passa per 180 voti contro 112. Adesso tocca alla Camera, poi al popolo sovrano, quello che dal 2011 in poi si evita accuratamente di interpellare, dopo una campagna elettorale che durerà nove mesi e che verrà trasformata in un plebiscito pro o contro Renzi per volontà dello stesso premier.
Del sistema di pesi e contrappesi per la gestione dei poteri costituzionali voluto dai Padri Costituenti non interessa a nessuno. A Terracini e De Nicola succedono appunto due figure inquietanti come Maria Elena Boschi (redattrice) e Denis Verdini (portatore dei voti decisivi), due che diresti che si intendono più di banche e di faccendieri che di costituzionalismo.
Ma tant’è, il convento passa questo. Ettore Scola, di cui si piange in questi giorni la scomparsa, fa dire al protagonista Gianni Perego (interpretato da un monumentale Vittorio Gassman) del più grande dei suoi capolavori, C’eravamo tanto amati, una rivisitazione della storia popolare d’Italia dalla Resistenza ai primi anni settanta: “La nostra generazione ha fatto schifo”.
Caro Ettore, non avevi ancora visto quella successiva. Ti sia lieve la terra.

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