Debora Serracchiani che pontifica
contro assenteisti e fannulloni nella pubblica amministrazione è uno spot per
il governo Renzi. L’esecutivo forse che ha fatto registrare in assoluto la
maggiore distanza tra promesse fatte, aspettative create e realtà dei fatti
dell’intera storia repubblicana.
Da quando è stata eletta (con i
voti decisivi di cittadini jugoslavi di lontane origini italiane e forniti di
doppio passaporto), la vice-segretaria del Partito Democratico nonché, en
passant, governatrice della Regione Friuli – Venezia Giulia ha alimentato nelle
terre da lei teoricamente amministrate storielle e battute in egual misura ai
malumori. Una di queste la vede esclamare di fronte ad una immagine suggestiva
del capoluogo: “Bella città Trieste! Ci sono stata una volta!”. Chiedere a
qualsiasi triestino dove finisce la battuta e dove comincia la constatazione
amara, in una realtà sociale tra l’altro che proprio negli ultimi anni di
governo (si fa per dire) democratico ha visto il crollo a valanga di molti dei
connotati migliori che ne facevano una delle zone migliori d’Italia per qualità
della vita.
Di tutti i testimonial possibili
per questa campagna contro il nuovo “nemico interno”, il governo del
Rottamatore ha scelto insomma uno dei più improbabili. Le labbra sottili, mai
indice di buona disposizione verso il prossimo ed il mondo circostante, della
signora Serracchiani sibilano nel compiacente salotto di Lilli Gruber le parole
“licenziamento” e “sanzione”con una voluttà che si richiama ai più bassi
istinti di un popolo spinto di nuovo dal peggioramento delle proprie condizioni
socio-economiche e del proprio livello di consapevolezza politico-culturale a
cercare capri espiatori a buon mercato.
Ha un bel ribattere Maurizio Landini,
segretario della FIOM peraltro parte integrante del pur screditato sindacato
CGIL – storicamente difensore di cause perse, indifendibili, ma redditizie per
gli interessati – che gli strumenti per sanzionare assenteisti e fannulloni c’erano
già. E che la pubblica amministrazione ha fermi da almeno sette anni (ma nella
realtà dei fatti da diversi di più) i rinnovi dei contratti di lavoro. Quegli
atti cioè che dovrebbero contenere sia gli incentivi a chi fa il proprio dovere
ed anche qualcosa di più, sia le sanzioni a chi è negligente o addirittura –a vari
livelli – truffatore del pubblico interesse. Applicando tra l’altro istituti
che esistono almeno dal tempo dell’entrata in vigore del testo Unico degli
impiegati civili dello Stato del 1957, rafforzati dalla cosiddetta Riforma
Brunetta del 2001.
Nel salotto della Gruber tutti
parlano di lavoro. Tutti esclusa gente che abbia esperienza di cosa vuol dire
lavorare a stipendio bloccato ed eroso, divorato dal costo della vita in
costante impennata (anche e soprattutto per le scelte dello stesso governo di
che trattasi). E soprattutto cosa vuol dire lavorare sotto dirigenti messi lì
dalla politica e da altre consorterie più o meno innominabili. Da tutto comunque
meno che dal merito. Dirigenti che poi dovrebbero attivare quelle sanzioni con
competenza ed equità, magari evitando di abusarne ad ogni pié sospinto per
consolidare un proprio potere personale che non ha altro fondamento che l’appartenenza.
Di partito, di loggia o di quant’altro.
Ma l’Italia del 2016 è distratta,
e ha bisogno di trovare capri espiatori. E’ la cosiddetta riforma Madia, quella
che dovrebbe stroncare furbetti del cartellino nel tempo record di 48 ore. In
un paese in cui la giustizia ordinaria ha dei tempi medi paragonabili a quelli
occorsi a Mosé per riportare il Popolo Eletto nella Terra Promessa, la
giustizia amministrativa si vuole che abbia i tempi del giudice Jeffreys, il
magistrato mandato da re Giacomo II d’Inghilterra nel 1685 a stroncare la rivolta
dei settari protestanti contro la sua restaurazione cattolica strisciante. Tra
l’arresto e l’impiccagione passavano appunto non più di 48 ore. Dei processi
che venivano celebrati in quel lasso di tempo non è rimasta gran memoria nella
Common Law britannica. Chissà perché.
Il governo Renzi ha bisogno di
distrarre l’opinione pubblica. Nelle stesse ore l’Europa per bocca del presidente
della commissione Junker sbotta senza mezzi termini per il fatto di “non avere
un interlocutore in Italia”. Non è Sarri che dà del “frocio” a Mancini, la
questione è un po’ più complessa e difficilmente risolvibile con una ritrattazione.
Nelle stesse ore, al Senato si
vota il Ddl Boschi-Verdini, quello che riporterà equilibrio nella Forza del
partito democratico, avverando la profezia del suo segretario: “sarò l’ultimo
presidente del consiglio a chiedere la fiducia a quest’aula”. Mussolini non
avrebbe saputo dire di meglio. Di sicuro dopo la vittoria in questa battaglia
renziana per l’unicameralismo, Palazzo Madama assomiglierà a quell’aula sorda e
grigia che fu per quasi vent’anni la Camera dei Fasci e delle Corporazioni.
Il Boschi – Verdini passa per 180
voti contro 112. Adesso tocca alla Camera, poi al popolo sovrano, quello che
dal 2011 in
poi si evita accuratamente di interpellare, dopo una campagna elettorale che
durerà nove mesi e che verrà trasformata in un plebiscito pro o contro Renzi
per volontà dello stesso premier.
Del sistema di pesi e contrappesi
per la gestione dei poteri costituzionali voluto dai Padri Costituenti non
interessa a nessuno. A Terracini e De Nicola succedono appunto due figure
inquietanti come Maria Elena Boschi (redattrice) e Denis Verdini (portatore dei
voti decisivi), due che diresti che si intendono più di banche e di faccendieri
che di costituzionalismo.
Ma tant’è, il convento passa
questo. Ettore Scola, di cui si piange in questi giorni la scomparsa, fa dire
al protagonista Gianni Perego (interpretato da un monumentale Vittorio Gassman)
del più grande dei suoi capolavori, C’eravamo tanto amati, una rivisitazione
della storia popolare d’Italia dalla Resistenza ai primi anni settanta: “La
nostra generazione ha fatto schifo”.
Caro Ettore, non avevi ancora visto
quella successiva. Ti sia lieve la terra.
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