Quand’io l’ho conosciuto, o
inizio a ricordarlo, non era già vecchio. Anche se i suoi capelli precocemente
imbiancati potevano farlo sembrare. Non aveva avuto una vita facilissima, come
molti ragazzi del dopoguerra. Si era fatto da sé, Guido. Completamente. E se
aveva un difetto – o magari un pregio, per quello che può valere il mio
giudizio – era quello di pretendere dagli altri né più e né meno che quello che
aveva preteso da se stesso.
Dove lavoro io, era diventato una
istituzione, una leggenda. E incuteva rispetto, se non addirittura timore,
anche a molti che erano arrivati più in alto di lui almeno in apparenza.
Passare da bischeri con Guido Capperucci era questione di un attimo, tu fossi
usciere o presidente, se non eri sicuro di quello che dicevi quando parlavi con
lui.
Operaio, infermiere, poi
centralinista. Era diventato lui il "signore" del centralino della Regione
Toscana. Da autodidatta. E quando venivano gli ingegneri della Telecom a
proporre qualche soluzione tecnica, finiva che prima si levavano il cappello e
poi stavano in silenzio a sentire come avrebbe fatto lui. Che della sua centrale
telefonica conosceva vita, morte e miracoli. Ne conosceva “l’anima”, come si
trattasse di un altro figlio oltre a quelli che aveva. E dei quali parlava
sempre con orgoglio.
Non sopportava chi non valeva
niente. Per questo mi provai a dirgli che era andato in pensione al momento
giusto, perché ormai la Regione Toscana – da cima a fondo – è piena zeppa
soprattutto di persone, donne e uomini, che niente appunto valgono. E quella
volta, la prima e l’ultima, mi dette ragione senza discutere. Era il primo a
sapere che il suo tempo, il tempo del merito, era irreparabilmente finito.
Non sopportava i figli d’arte.
Io, che almeno teoricamente lo ero, dovetti lottare allo spasimo per
conquistarmi il suo rispetto e la sua stima. Malgrado mi conoscesse fin da
ragazzino. Malgrado avesse avuto amicizia ed affetto per mio padre. Ma il
lavoro era un’altra cosa. E quando un capo settore in vena di esperimenti mi
mise a lavorare a fianco a lui – io che ero il “laureato” e lui che era venuto
su dalla gavetta, io l’apprendista e lui l’uomo che malgrado avesse fatto (come
era solito dire) soltanto “la terza media al buio” aveva da insegnare più sul
lavoro, su qualunque lavoro, più di un manager formato alla Bocconi – mi fece
senza immaginarselo un regalo inestimabile.
Fu dura lavorare con Guido,
ancora più dura dimostrargli quello che valevo e tirargli fuori ogni giorno di
più qualcuno dei suoi “segreti” del mestiere. Posso dire soltanto due cose. La
prima è che ce l’ho fatta, e me ne accorsi quando cominciò a trattarmi non più
da ragazzo ma piuttosto da uomo. La seconda è che dopo mio padre è stata la
persona da cui ho imparato di più. Se oggi sono appunto diventato un uomo vero,
lo devo parecchio anche a lui.
Non l’ho mai ringraziato. Non me
l’avrebbe permesso. Non era il tipo d’uomo che si perde in nostalgie da ricchi,
e andava per la sua strada senza sforzo. Mi viene facile prendere a prestito le
parole della più bella canzone di Francesco Guccini. Perché Guido era come
Amerigo. La storia migliore del nostro ventesimo secolo.
Come mio padre, se l’é goduta
poco quella pensione che si era meritato come pochi altri. Quest’anno non l’avevo
sentito, avevo mancato la consuetudine della telefonata il primo dell’anno,
giorno del suo compleanno. Ho pensato la stessa sciocchezza di sempre: tanto ci
sarà tempo per recuperare.
Era già condannato e non lo
sapevo. Avrei voglia di piangere. Eppure sento che se lo facessi verrei meno a
uno degli insegnamenti più importanti che ho avuto da quest’uomo. Non si
piange. Mai. E se proprio si deve, lo si fa da soli. Quando non ci vede
nessuno. Quando il dolore può essere soltanto nostro. Poi si stringe i denti e
si prosegue. Finché non verrà il tempo, in faccia a tutto il mondo, per
rincontrarsi.
Addio amico Guido. Quel tempo
verrà prima o poi. Nel frattempo, che ti sia lieve quella terra da cui venivi e
di cui – come molti miei cari - eri rimasto profondamente orgoglioso.
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