Un altro anno trascorso, una
memoria che si allontana nel tempo, un mondo che non è più preparato per
ricordare, e che è destinato prima o poi a rivivere, secondo il celebre
aforisma di George Santayana.
Dopo settant’anni ha ancora senso
la Giornata della Memoria? Lo ha eccome. I 6 milioni di Ebrei morti prima e
durante la seconda guerra mondiale sono un dato certo, tramandato nei secoli
dei secoli. Non c’è revisionismo storico che tenga, né giustificazionismo. La “belva
umana” si scatenò in Europa come poche altre volte nella storia. E mai più
avrebbe avuto a disposizione i mezzi tecnici della potenza industriale e
bellica del Terzo Reich. Nemmeno nella Russia del comunismo trionfante di
Stalin.
Ha senso parlare di memoria, ma
solo se a partire dai punti fermi di eventi storici ormai “codificati” come l’Olocausto
lo si fa anche per tutte le tragedie – grandi e meno grandi, secondo una scala di
importanza che tiene conto soltanto del numero delle vittime – che si sono
successe prima e dopo gli anni di Hitler. E se vengono accantonate una volta
per tutte ipocrisie di parte altrettanto storiche, che a questo punto risultano
non meno dolorosamente offensive delle azioni efferate dei boia dell’epoca.
Così, è giusto affiancare agli Ebrei
in questa giornata gli Armeni, il cui genocidio rappresentò uno degli ultimi
atti dell’Impero Ottomano e uno dei primi della repubblica di Ataturk che
ereditò le sue vestigia. Con buona pace di Erdogan, che è sempre più tentato di
risolvere la tradizionale dicotomia tra Turchia Europea e Turchia Asiatica
strizzando l’occhio all’Islam più radicale, fanatico.
E’ giusto ricordare anche quegli Ebrei
che non furono uccisi da Hitler ma bensì da Stalin. Quelli nessuno li ha mai
contati. Sappiamo solo che nella Grande Guerra Patriottica, come i russi
chiamano la guerra del 1939-45, morirono 22 milioni di loro connazionali per
mano della Wehrmacht. Unico dato certo: le malefatte del Nazismo si conoscono
tutte ormai, quelle del Comunismo si possono soltanto ipotizzare. Quanti russi,
di qualunque etnia, ceto e confessione religiosa, morirono per mano del Grande
Padre comunista prima durante e dopo il conflitto mondiale non lo sapremo mai.
E’ giusto ricordare gli Istriani
e gli altri italiani che furono sterminati da Tito e dai comunisti jugoslavi e autoctoni
nel 1945. Anche qui, non sapremo mai quanti, dove e come. Se ne sta andando a
poco a poco la generazione che purtroppo conserva i ricordi dolorosi di quegli
eccidi commessi dagli “eserciti del popoli”, per averli vissuti sulla propria
pelle. Poi le foibe verranno richiuse per sempre, con il cemento più armato di
tutti: l’oblio. C’è voluta una vita intera, trascorsa tra l’esilio e l’abbandono
delle proprie case e delle proprie cose e poi i campi profughi attorno ai quali
nessuna forza politica italiana stendeva – al contrario di adesso – i tappeti
rossi dell’accoglienza per finire integrati di malavoglia come figliastri da
parte di uno Stato che aveva rimosso perfino le proprie ragioni d’essere,
figuriamoci la memoria; c’è voluta una vita intera, dicevamo, perché figli,
nipoti ed amici delle vittime delle foibe si vedessero riconoscere una giornata
della memoria a parte, quasi fossero rubricate di serie B. Si chiama Giornata del Ricordo, cade il 10 febbraio, ed a questo mondo ormai distratto da nuove
tragedie e soprattutto da nuove sciocchezze di tale data frega ancor meno che
di quella odierna.
E’ giusto ricordare Tibetani, Vietnamiti,
Cambogiani e tutti gli altri gruppi etnici decimati da guerre lontane causate
dall’eterno scontro tra la superpotenza di Golia e la sopravvivenza di Davide,
oppure dalla logica della Guerra Fredda o dalle ultime propaggini della follia
comunista. Di queste tragedie lontane, solo il Vietnam ha "bucato lo schermo",
perché cadde in un’epoca in cui si contestava tutto e tutti. Ci sembrava di
saperne tutto, in realtà non ne sapevamo e sappiamo nulla. Per non parlare di
cosa fecero dopo la sconfitta americana i liberatori, vietcong vietnamiti e
khmer rossi cambogiani.
E’ giusto ricordare tutti i
sudamericani che negli anni settanta ed ottanta caddero vittime di un’altra
follia, l’applicazione destrorsa fino alle estreme conseguenze della Dottrina
di Monroe, l’America agli Americani. Per evitare l’infiltrazione comunista nel Nuovo
Mondo, dopo la vittoria di Fidel castro a Cuba ci fu un’epoca in cui gli Stati
Uniti appoggiarono i regimi dittatoriali più feroci. Loro sì, le Giunte
militari, se ne avessero avuto i mezzi avrebbero fatto impallidire il Terzo Reich,
di cui non a caso avevano accolto i reduci dopo il 1945.
E’ giusto ricordare Ebrei, Palestinesi
e tutti coloro che sono morti a causa dell’illusione di aver dato un nuovo
assetto al Medio Oriente dopo la seconda guerra mondiale. Quella Terra era
Santa per troppe religioni, tutte mal disposte alla convivenza reciproca. La
più bella canzone di John Lennon avrebbe invitato ad immaginare per il futuro un
mondo senza più religioni. Nell’attesa, il conto dei morti i Palestina e
dintorni si è interrotto da tempo. Guerre arabo-israeliane, guerre del Golfo, Intifade,
Iran-Iraq, Al-Qaeda e Isis. Tutto perché in settant’anni non abbiamo saputo o
voluto sviluppare i combustibili alternativi alla benzina.
E’ giusto ricordare gli Africani
morti al loro paese – per guerre ed epidemie varie – o tentando di venirne via.
Attirati dal mito del nord ricco del
mondo, e dalla propaganda e/o dalla connivenza di una sinistra europea alla
fine dei conti non meno assassina dei commercianti di diamanti e di materie
prime o degli apprendisti stregoni che si sono lasciati scappare di laboratorio
i virus che dagli anni settanta decimano le tribu del Continente Nero e gravano sulle
nostre coscienze di post-colonialisti.
Shlomo, il protagonista di Train de vie |
E’ giusto ricordare tutti, e
scusate se ho dimenticato chissà quanti milioni di persone. Oggi è la giornata
di tutti quei morti. Altrimenti si fa come quelle nostre istituzioni che
ripetono stancamente un rituale annuale che non ha più senso della messa in
latino finanziando i treni della memoria per Auschwitz, più in ossequio alle
lobbies ebraiche presenti nelle amministrazioni e nella società civile che ad
un reale sentimento, ad un reale bisogno di compassione e informazione. "Se
comprendere è impossibile, conoscere è necessario", scrisse Primo Levi. Alle
nuove generazioni non forniamo da tempo né comprensione né conoscenza. Solo
treni e gite organizzate verso posti dove fa freddo e tanto tempo fa successe
qualcosa. Un qualcosa che si è poi ripetuto a scadenze fisse, regolari e
frequenti. Un qualcosa di cui abbiamo notizie tutti i giorni, anche se perse
tra le miriadi di altre con cui ci bombardano inutilmente i telegiornali.
La nostra memoria, nella giornata
odierna come in tutte le altre, è quella di un malato di Alzheimer. Abbiamo
confuso la realtà vera con quello che avremmo voluto che fosse, come nello
splendido film di Moni Ovadia Train de vie, dove il protagonista racconta una
rocambolesca fuga attraverso l’Europa nazista e solo alla fine ci rendiamo
conto che si tratta solo del suo ultimo sogno di recluso in un campo di
concentramento.
Abbiamo confuso la realtà. E non
siamo nemmeno pronti a riviverla.
Nessun commento:
Posta un commento