martedì 26 aprile 2016

25 aprile e dintorni



Ieri settantunesimo anniversario della Liberazione. Da cosa, non ci dovrebbe essere nemmeno bisogno di dirlo. Almeno fino ad una certa data, ad una certa generazione, lo sapevano tutti ed articoli come il mio erano superflui, se non inutili. La scuola, la famiglia, la società avevano già fatto il loro dovere prima dei giornali.
Non è più così, purtroppo. I vecchi combattenti della libertà, i partigiani (come venivano chiamati, perché avevano scelto una parte, quella della libertà) seguono la legge di natura ricongiungendosi in cielo ai loro compagni meno fortunati, morti settantuno anni fa nei giorni della Guerra Civile. Scuola, famiglia e società hanno smesso da tempo di fare il loro dovere. I nostri vecchi non ci sono più per raccontare di quei giorni. Noi, che stiamo diventando vecchi a nostra volta, non siamo capaci di interessare più a nessuno dei più giovani per tramandare quello che abbiamo sentito raccontare. Articoli come i miei restano superflui, se non inutili. Ma per motivi del tutto diversi.
Quello che ho da dire ormai interessa pochi amici della mia generazione. Ed è a loro che mi rivolgo, Dio li conservi – ci conservi – in salute il più a lungo possibile.
Sono convinto da sempre che avesse ragione Winston Churchill, quando disse che “la democrazia è la peggior forma di governo possibile, ma è quanto di meglio il genere umano abbia saputo inventare finora in materia”. Una democrazia liberal, specifico io, anche se al giorno d’oggi sembra ormai diventato un oggetto di modernariato. Vintage, come i dischi di vinile e le radio a transistor. Vecchi, irrimediabilmente vecchi quelli come me che tentano ancora di descriverne pregi e difetti.
Churchill aveva ragione. Aveva visto i sistemi a confronto nel momento più drammatico di quel confronto. L’ora più grande – come disse - per il suo popolo rimasto da solo a resistere al Terzo Reich. L’ora più buia per il mondo che rischiò di precipitare in un nuovo Medioevo, con l’unica incertezza su chi sarebbe stato il Fuhrer di quel mondo, Hitler o Stalin.
Settantun anni dopo, mi permetto di dire ai miei amici e a chi altro vuole stare a sentire, non abbiamo ancora trovato un sistema migliore di quella che resta una pessima forma di governo. Almeno per come è attuata dalle nostre parti. E’ difficile, mi rendo conto, spiegare ad un giovane che cosa c’è di democratico in un sistema che impone da cinque anni a questa parte governi non eletti da nessuno, con la scusa che lo prevede la Costituzione. Governi che fanno scelte importanti, epocali, sulla nostra testa e al di là delle nostre possibilità di controllo.
E’ difficile spiegare a giovani e meno giovani perché tra un Renzi e un Mussolini per ora c’è ancora una qualche differenza. Così come è ingiusto - storicamente, politicamente e in senso lato civilmente – affermare che tutto ciò che fece Mussolini era a prescindere di minor valore rispetto a quanto fatto prima o dopo di lui. Di minor valore e ingiusto.
Su questo punto, a prescindere dalla stima e dal rispetto che porto ad alcuni amici che non la pensano come me sul 25 aprile e sui suoi annessi e connessi, devo comunque riconoscere loro un fondo di verità. Il Fascismo delle origini, quello che cercò in parte di dare attuazione al programma rivoluzionario di San Sepolcro, era un sistema che soppresse le libertà politiche  e civili nel proprio paese, ma che tuttavia gli dette una spinta verso la modernità decisamente poderosa. Istruzione, Sanità, Previdenza Sociale, furono conquiste sociali favorite dal Regime. Volute fortemente dallo stesso Mussolini, che non dimenticava di essere figlio di contadini morti di fame e di miseria.
Allo stesso modo, è opinione comune degli storici più obbiettivi che il periodo di governo di Mussolini fu quello che coincise con il miglior tentativo – se non l’unico – di affrancare l’Italia dalla sua storica e congenita dipendenza dalle Grandi Potenze del tempo. Durante il Ventennio, il nostro paese – per circostanze storiche particolari ma anche per l’azione del Duce del Fascismo – godette di una effettiva sovranità e indipendenza (unita a libertà d’azione internazionale) come non aveva avuto mai prima e men che meno avrebbe avuto più in seguito.
Il Regime fece cose egregie almeno fino al 1936, guadagnandosi stima e rispetto interni ed internazionali. I nodi vennero al pettine negli anni successivi, con l’alleanza con Hitler, le Leggi Razziali e la china rovinosa che portò l’Italia all’intervento nella Seconda Guerra mondiale (e per di più dalla parte sbagliata), alla sconfitta disastrosa, alla perdita di status internazionali. Alla sottoscrizione di un trattato di pace che sanciva il suo ruolo di “periferia di un nuovo impero”: Il Patto Atlantico diretto dagli U.S.A.
Questo destino era forse scritto nell’ordine delle cose. Stati Uniti ed Unione Sovietica erano destinati comunque a diventare le Grandi Potenze che si sarebbero spartite la guida del mondo per i decenni successivi. L’improvvida decisione del governo italiano di affiancare quello nazista nella Guerra Mondiale accelerò e rese inevitabile quel destino. Se Mussolini avesse ragionato come Francisco Franco, il Caudillo che era emerso vittorioso dalla guerra civile spagnola, sarebbe forse morto nel suo letto, e l’Italia avrebbe salvato qualcosa in più del suo ruolo e delle sue prerogative internazionali d’anteguerra.
E qui ritorna in gioco l’aforisma di Churchill. Per la natura del suo sistema di governo, nessuno poté sindacare la scelta di Mussolini almeno fino al 1943, nessuno poté imporgli una decisione diversa da quella che portò all’Asse Roma-Berlino. Deporre il Duce fu un atto di guerra civile, non di normale dialettica politica. Il Fascismo, come ogni dittatura, aveva in sé i germi che ne minavano salute ed esistenza futura. Così come quella del paese che governava.
Per questo si celebra il 25 aprile. Non solo per la fine dell’ultima e più sanguinosa delle guerre civili italiane (almeno fino agli Anni di Piombo), ma per la presa di coscienza che un sistema di poteri in equilibrio – per quanto screditato come il nostro – è sempre meglio, o meno peggio, di uno in cui tutto il potere è nelle mani di uno solo. Perché poi, a prescindere da ogni altra considerazione, quell’uno invecchia, ammattisce, diventa megalomane o mal consigliato. E la società che sta sotto di lui non ha più anticorpi o comunque risorse per contrastarlo, prima della rovina generale.
Per questo, cari amici, resto un liberal (magari d’altri tempi) anche se ogni giorno ho voglia di infamare questi democratici che hanno ridotto e stanno riducendo il nostro paese a una via di mezzo tra una discarica a cielo aperto ed un suk esotico di meticciato cialtrone. Per questo, penso che per quanto come spessore umano e capacità personali Renzi non leghi le scarpe ad un Mussolini, il suo governo è ancora meglio di quello del Duce. Perché alla fine di questo articolo nessun figuro dal cappello floscio verrà a prendermi con la macchina nera per portarmi chissà dove. Magari a far la fine di quelli di Radio Cora.
Dice: ma anche Ilaria Alpi, Giulio Regeni e chissà quanti altri hanno fatto la fine di Radio Cora, dopo quel 25 aprile. Vero. Ma lo possiamo ancora dire ad alta voce, oltre che pensare. Con Mussolini no. Rese possibili tante cose, ai contadini italiani morti di fame. Ma quella no. E alla fine tutti la sentirono come la più importante.
Un abbraccio a tutti i miei amici, comunque la pensino. Un abbraccio a tutti i ragazzi, perché il mondo in cui vivranno sia migliore del nostro, che a sua volta è stato migliore di quello dei nostri babbi e nonni.

Sic transit gloria Florentiae




«Noi lo scudetto lo vinciamo tutti i giorni. Ci basta alzare gli occhi sui nostri monumenti». Firenze ormai è una città ripiegata su se stessa. Inutile tentare di spiegare ai suoi cittadini – quelli che sono qui da sempre e quelli che sono arrivati nel tempo in virtù di una politica dell’accoglienza dagli obbiettivi e dalle strategie non sempre chiari e funzionali -  che il tempo della gloria e dell’orgoglio è tramontato. Che a camminare con lo sguardo sollevato verso i monumenti che facevano il prestigio di questa città, oggi si rischia soltanto di mettere il piede su qualche escremento, di quelli che i suoi incivili abitanti fanno lasciare sui marciapiedi ai propri animali e che il Comune si ricorda di pulire soltanto in qualche ricorrenza particolare.

A sentire qualcuno, a camminare per Firenze sembra di poter incontrare ancora da un angolo all’altro, da un momento all’altro, Lorenzo il Magnifico che discute con i suoi funzionari se commissionare qualche capolavoro a Michelangiolo Buonarroti o ad Agnolo Poliziano. Dante Alighieri che si reca in Battistero assieme a Guido Cavalcanti discutendo del dolce stil novo. Pietro Leopoldo il Granduca che illustra a Pompeo Neri la sua intenzione di riformare il codice penale secondo la dottrina di Cesare Beccaria. Giuseppe Prezzolini che si siede alle Giubbe Rosse con l’amico Giovanni Papini, e intrattiene i presenti con una dissertazione sulle tendenze culturali d’avanguardia del Novecento.
Quella Firenze non c’è più. Era sopravvissuta all’Alluvione, ma soprattutto al primo impatto di una nuova classe dirigente che mescolava spudoratamente il buonismo velleitario e stolidamente accogliente di un La Pira alla mancanza di scrupoli dei comitati d’affari che sorgevano in città già fin dagli ultimi anni della Prima Repubblica, all’ombra di partiti e logge. Determinati, in ossequio a tutto ciò, da un lato ad aprire le mura della città non a chi portava sangue fresco e idee ancora più fresche, ma a coloro che avrebbero finito per imbrattarla irrimediabilmente, trasformandola in un suk esotico, un letamaio a cielo aperto. Dall’altro a ridurla ad un cantiere permanente, che aggiunge casino al casino, che movimenta soldi che girano ormai solo per le stesse tasche, che non porta da nessuna parte perché le Grandi Opere hanno come fine soltanto – una volta realizzate – l’avvio di altre Grandi Opere. Le strade restano sventrate, i ponteggi diventano opere permanenti (verrebbe da dire condonabili), il traffico è quello di Roma però su una pianta venti volte inferiore. Le bestemmie sono le solite, ma qui almeno siamo nel solco della tradizione, nessuno ci faceva caso già ai tempi di Dante, figuriamoci adesso.
Ecco. I fiorentini cosiddetti che parlano adesso di fiorentinità sembrano tanto la volpe di Esopo che parlava dell’uva. Non hanno idea di cos’era questa città, né soprattutto di cosa avrebbe potuto e dovuto diventare. Però hanno la bocca piena. Di parole. Sempre.
La festa juventina in Piazza San Carlo a Torino
A Piazza San Carlo a Torino festeggiano l’ennesimo trionfo. Della perdita della Capitale i torinesi si consolarono ben presto, e per tutto il Novecento fino a questi anni Duemila non hanno fatto altro che riproporre nel calcio una egemonia economica, politica e culturale che era nella storia, nei fatti. E nessuno che si dia la pena di indagarne i motivi reali. A Firenze, come nel resto d’Italia, nessuno ci ha capito nulla. Altrimenti di Juventus nella nostra penisola ce ne sarebbero almeno sette o otto. Invece è una sola, e da un anno all’altro mette in un angolo tutti, di questi tempi, costringendo la metà non bianconera degli italiani a fare gli stessi discorsi. Che lasciano il tempo che trovano, in attesa dell’anno prossimo, alla fine del quale il copione – c’è da scommettere – si ripeterà parola per parola.
A San Carlo festeggiano. In Piazza della Repubblica a Firenze, là dove sorgeva una volta (e sorge ancora, ma ormai ridotto ad un cimelio d’altri tempi, uno dei tanti monumenti superstiti di una grande storia passata) a due passi dalle Giubbe Rosse il glorioso Chiosco degli Sportivi, si commenta. Quello sappiamo fare, da sempre. Ma una volta almeno lo si faceva con quello stile, quella classe un po’ becera ma innocua e tutto sommato divertente con cui la gente di riva d’Arno si infamava furiosamente salvo poi darsi la buonasera come nulla fosse e augurarsi buon appetito, perché era l’ora di cena, dalle finestre si cominciava a sentire profumo di minestrina ed era l’ora di rientrare, la moglie stava mettendo in tavola.
"Tutti zitti!" dice Alvaro Morata dopo il gol decisivo al Franchi
Quella gente si accapigliava per stabilire se Montuori era meglio di Julinho, poi se Antognoni era meglio di De Sisti. Se era stato più  grande Beppe Chiappella o Daniel Alberto Passarella. Gente che parlava di storia, di grande storia al pari di quando parlava dell’Alighieri, del Lorenzo de’ Medici, del Prezzolini. Gente che avrebbe preso un ciabattino marchigiano (con tutto il rispetto per la regione Marche e per i ciabattini veri), venuto a insegnare il bon ton ed il fair play alla città che un giorno aveva inventato il calcio, per le trombe del sedere – come si soleva dire da queste parti – e l’avrebbe riaccompagnato ai confini del Granducato, alla Consuma, affinché portasse altrove la propria alterigia e la propria insipienza, senza mai più farsi rivedere.
I fiorentini non sono mai stati simpatici al resto del mondo. Anzi, forse, con la loro prosopopea derivante da mill’anni di primato artistico e culturale, sono riusciti a rendersi odiosi all’universo. Ma almeno, finché potevano permettersi di discutere chi fra Michelangelo e Brunelleschi (tutti “ragazzi di questo paese”) fosse il più grande, chi avesse maggiormente “illustrato” la patria da Giotto ad Antognoni, una qualche motivazione per il loro guardare il mondo dall’alto del piedistallo potevano averla.
Adesso, già usare il termine “fiorentini” pare forzato. Forse sono estinti, come gli Etruschi, come la famiglia Medici (che poi erano originari del Mugello). Questi succedanei che parlano e scrivono adesso quando intonano le loro odi allo scudetto dell’arte, magari infarcendole di errori grammaticali e di neologismi tratti da quella lingua franco-barbarica che sta sostituendo l’italiano in queste lande dove infuria il meticciato più sfrenato, non si sa se fanno più tenerezza o rabbia.
Indro Montanelli allo Stadio Comunale di Firenze
Disse una volta Indro Montanelli, che era di Fucecchio ma che aveva fatto propria la fiorentinità, quella vera, quella né spocchiosa né odiosa né eccessiva, fin da ragazzo: «Nessun toscano può definirsi tale se non ha a cuore Firenze e la Fiorentina». Chissà che avrebbe scritto ieri mattina a vedere quel labaro viola una volta di più nella polvere su quel campo ridotto a location dell’ennesima festa (meritata) altrui. Chissà se l’avrebbe consolato alzare gli occhi sul Campanile di Giotto o sulla Cupola del Brunelleschi. Magari a rischio di pestare qualcosa, o di finire addosso ad una transenna. O di vederli imbrattati dalle aggiunte stilistiche di qualche portatore di cultura.

mercoledì 20 aprile 2016

RERUM NOVARUM (trad. Solita vecchia storia)



Arriva fresca fresca l’ultima sciocchezza Dall’alto dell’Apostolico Seggio. Secondo il vescovo di Roma, i migranti sono un dono. Chissà perché tutti i paesi d’Europa (meno ovviamente l’Italia) si stanno affrettando non solo a guardare in bocca a Caval Donato, ma addirittura a sbattergli la porta della stalla in faccia. Noi no, tutti domenica a Piazza San Pietro a chiedere perdono tutti insieme non si sa a quale Dio e per quale grave peccato. L’importante è andare a tempo con lo spartito dell’Uomo con lo Zuccotto Bianco.
Unico, nel coro assordante dei piaggiatori italiani bipartisan (anzi, tripartisan) oppure nel silenzio fragoroso di chi non ha il coraggio dei propri pensieri prima ancora che delle proprie azioni (a proposito, ma il dogma dell’infallibilità papale è stato abrogato? no, perché qualcuno per esempio è ancora convinto che il voto sia un dovere, anziché un diritto, e cose del genere…..della serie, a scuola ci tiravamo le merendine….), si fa avanti con voce stentorea come il Fantozzi della Corrazzata Potemkin Matteo Salvini, leader purtroppo non ascoltato come quello che parla da Piazza San Pietro ma insomma, che si sta facendo anch’egli un discreto seguito, in questa Italia che vivaddio si sta rompendo finalmente i coglioni del buonismo e della religione di Stato.
Dice il Matteo di opposizione (l’altro, quello di governo, per una volta incredibilmente tace): un dono lo sono di certo, ma per le cooperative che ci mangiano sopra. Apriti cielo, squarciati Velo del Tempio. Gli italiani - di sinistra, centro o destra, non importa – sono un popolo di baciapile, laidamente e stolidamente ossequiosi verso il potere per mero interesse personale. Figurarsi quando uno si permette di criticare colui che pretende di essere nientemeno che Dio in terra.
Il buon Salvini, che sa di camminare sulla lama di un rasoio avendo da chiedere il consenso elettorale dei baciapile, ci va giù soft con comprensibile prudenza. Io non ho da chiedere il consenso né lo stipendio di nessuno, e posso permettermi di dire che i discorsi del papa sono sciocchezze.
E di rincarare la dose. Accettare lezioni morali da uno che ha preso il nome del Poverello di Assisi (colui che si spogliò di tutto, ma proprio di tutto, abbandonando la ricca casa paterna nudo come mamma l’aveva fatto) ma che è e resta a capo della più grande holding finanziaria e immobiliare del mondo mi sembra come stare a sentire i discorsi della Boldrini, che forse qualche africano indigente l’ha visto a qualche apericena nei compound delle Nazioni Unite, a servire a tavola.
La Chiesa Cattolica possiede mezza Roma, per limitarci alla sede. Le chiese di Roma, grandi e piccole, la sera a una cert’ora chiudono bottega. E la marea di “barboni” che non hanno più altri effetti personali che cartoni e giornali con cui proteggersi dal freddo possono considerarsi ancora fortunati che venga consentito loro almeno di allinearsi ai muri esterni di esse per dormire. Non mi pare che il sig. Bergoglio abbia dato disposizioni (effettive, intendo) affinché tale caritatevole status quo venga mutato. Di ciò che giace custodito nei forzieri delle banche vaticane non ne parliamo, ci sarebbe di che dare sollievo e ricetto all’intero sistema solare. Di questo Bergoglio non chiede perdono a nessun Dio. Non sia mai che gli arrivi qualche caffè indigesto.
Il sig. Bergoglio si reca a Lesbo, a portare le scuse del mondo cristiano a circa 4.000 profughi colà internati, stretti tra la paura del ritorno indietro (Turchia, non proprio il massimo dell’ospitalità, o peggio ancora il Medio Oriente di origine) e quella dell’ignoto insita in un problematico andare avanti. Se ne esce con una pirotecnica decisione di riportarsi a Roma 12 persone. E gli altri 3.988? Rimangono ad aspettare le prossime lotterie, come nel film L’Isola? A rammaricarsi – come si fa dalle nostre parti – per non avere conoscenze nell’ufficio competente?
12 persone, prendine almeno uno di religione cristiana, sant'Iddio, così, tanto per dare la sensazione di multiculturalità! Tanto per far capire che conosci un po’ la storia del Medio Oriente, un posto dove i cristiani vengono perseguitati da prima dell’Anno Mille! Per perseguitare i cristiani, le varie confessioni islamiche stipulano tregue come quelle olimpiche che ogni quattro anni interrompevano le guerre civili dell’Antica Grecia. Si mettono d’accordo tutti, un po’ come ai tempi della caccia al negro in Alabama.
Ne vuoi prendere almeno uno di cristiani? O sei andato lì a baciare le pile (anche te, visto che sei a capo di una religione di baciapile) all’Islam?
Forse sto dicendo troppo. Mi prende un dubbio: ma la Santa Inquisizione è stata abolita? O il referendum non ha raggiunto il quorum? Meglio fare come Salvini, finirla qui. Tanto la gente (spero) si sta incazzando per conto proprio. Anche con l’Uomo Infallibile, quello che nemmeno i compagni hanno il coraggio di criticare.
Un’ultima cosa, questa la devo dire. Se San Francesco avesse avuto degli eredi, dei discendenti, ci sarebbero gli estremi per una causa di disconoscimento.
La pace sia con voi.

martedì 19 aprile 2016

CONTROCORRENTE - PER ORIANA

Vedo citata da più parti Oriana Fallaci a proposito della "fiorentinità" e soprattutto in ambito calcistico - antagonistico. Mi dispiace, ma è una citazione a sproposito, e più che un omaggio si risolve in un oltraggio alla nostra più grande giornalista di sempre. Che mai si sarebbe sognata di smentire la propria italianità, e meno che mai avrebbe accettato di veder strumentalizzate le proprie dichiarazioni a fini di "campanile sportivo".
"Fiorentino parlo, fiorentino penso, fiorentino sento. Fiorentina è la mia cultura e la mia educazione. All'estero quando mi chiedono a quale paese appartengo rispondo Firenze, non Italia. Non è la stessa cosa".
Queste frasi significano tutt'altra cosa rispetto a quella che si vuole far apparire. Significano un valore aggiunto, non un valore antagonista. Oriana era italianissima, e si arrabbiava molto quando qualcuno lo metteva in discussione.
Cari amici, se si cita una persona, tanto più una persona come lei ed una persona che non c'é più, facciamolo a proposito. E non la mischiamo con il calcio, e con una battaglia anti-italiana che avrebbe fatto inorridire lei per prima.
Fiorentinità è un'altra cosa. Ce l'ha insegnato proprio lei.



CONTROCORRENTE - REFERENDUM

Un consiglio amichevole a tutti, a prescindere da come la si pensa: l'accettazione più o meno serena (e senza maledizioni, infamate e commenti apocalittici) del risultato di una votazione e comunque del modo di pensare degli altri (che comprende anche l'astensionismo tra le possibili categorie di manifestazione) è un requisito essenziale - anzi, direi IL requisito essenziale - per il funzionamento di un sistema democratico.
Quello che sto leggendo mi piace ancora meno della sbruffoneria di un Matteo Renzi, che come tutti i saltimbanchi è destinato a sparire o prima o dopo senza lasciare grosse tracce. Al contrario, l'intolleranza che si sta diffondendo come un virus nel nostro corpo sociale può essere più letale della meningite, di Ebola o di quant'altro contro cui vi siete corsi a vaccinare negli ultimi inverni.

lunedì 18 aprile 2016

Il quorum colpisce ancora



Diventerà un tormentone, una di quelle parole strane capaci di segnare un’epoca, come la tracimazione della buonanima Remo Gaspari o la par condicio dell’altrettanto buonanima Oscar Luigi Scalfaro. Questi saranno gli anni del quorum, soprattutto se l’usanza di andare a votare verrà mantenuta dalle prossime riforme costituzionali.
Il referendum più assurdo della storia d’Italia, quello dal quesito più malposto, incomprensibile e strumentalizzato da quando l’istituto fu introdotto nella nostra Costituzione (e dire che non sono mancati i precedenti significativi in tal senso in passato) si è concluso come era prevedibile. Lo sbarramento del 50%+1 si è rivelato fatale per l’esito della consultazione, in un paese dove la gente non va più a votare nemmeno quando le cose sono chiare e la posta in gioco altissima, come può esserlo per le tornate elettorali politiche ed amministrative.
Alla chiusura delle urne (quest’anno si votava in giornata unica) la soglia dei votanti risulta aver di poco superato il 32%. Il quorum, questa sinistra Spada di Damocle posta da una Costituzione forse ormai un tantino invecchiata sulla volontà popolare, è ben lontano dall’essere raggiunto. Per la cronaca, una cronaca triste per chi aveva caricato questa consultazione dei significati giusti e anche di quelli strumentali, di quel 32% un 86% scarso si era espresso per il SI, cioè – vale la pena ricordarlo – per il mancato rinnovo delle concessioni alla loro scadenza.
A giudicare dai commenti, stamattina c’è un solo vincitore, anche se come suo costume è un vincitore auto referenziato. Matteo Renzi sbeffeggia i referendari e inneggia ai posti di lavoro salvati. Neanche una parola sul merito della questione, sia quello tecnico che quello politico.
Negli ultimi giorni prima del voto infatti la consultazione si era caricata di significati anti-renziani, che avevano finito per surclassare i già non chiarissimi significati tecnici, in termini di politica ambientale ed energetica. Alla fine, è stata questione di andare a votare perché – come ha suggerito un noto comico, personaggio appartenente cioè ad una categoria che ultimamente sta prendendo in mano le redini di questo paese – Renzi aveva detto di stare a casa. E quindi il voto per il SI equivaleva in sostanza ad una mozione di sfiducia.
Ambientalisti e fautori di una maggiore autonomia di approvvigionamento energetico del paese dovranno quindi rimandare l’ennesimo scontro nella lunga singolar tenzone che li vede opposti gli uni agli altri dai tempi del referendum sul nucleare. A questo giro non vince e non perde nessuno, né chi vuole il mare più pulito né chi preferisce la benzina meno cara. Del resto, in ballo c’era il 3% del fabbisogno energetico italiano e poche miglia di una costa lambita da acque che comunque negli ultimi vent’anni si sono arricchite di sostanze poco pregiate come l’uranio impoverito nonché di rifiuti tossici e nocivi d’ogni genere, a prescindere dalle famigerate trivelle.
Il problema di questo paese era e resta piuttosto la mancata azione di controllo da parte del governo nazionale nei confronti di coloro che gestiscono le risorse energetiche e le materie ambientali. La palla torna dunque a Renzi, che con la consueta nonchalance è comunque pronto a sparacchiarla via come un terzinaccio d’altri tempi.
Dove non soltanto il premier ma un po’ tutta la classe politica avrà forse qualche difficoltà in più a presentarsi al paese – anche ad un paese che sta scivolando nell’indifferenza elettorale come l’Italia di questo scorcio di ventunesimo secolo – è sulla questione politica generale. Non è tanto la mancata affluenza alle urne che deve far riflettere, in fondo il fenomeno rientra nel trend occidentale e non lo scopriamo oggi.
Malgrado gli accorati appelli ad una coscienza civica nobile ma d’altri tempi, che richiama alla Repubblica nata dalla Resistenza ed all’esercizio di un diritto di voto che ai nostri nonni è costato sangue, ciò che è successo ieri è un fenomeno perfettamente legittimo e comprensibile, anche se finisce per delineare un risultato auspicato dalla parte – possiamo dire – meno nobile della nostra classe politica. L’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che si allinea alla posizione del governo da lui creato – e da nessuno votato -  nel sostenere l’opportunità di stare a casa, diciamolo pure, non è un bel vedere né un bel sentire.
Come Renzi, il senatore a vita si spertica nell’esaltazione del diritto di astensione. Finché lo fa un Montesquieu, nulla da eccepire. Quando invece la lectio magistralis proviene da un individuo che più schierato e di parte non si può (malgrado l’altissimo incarico a suo tempo rivestito), allora stona assai.
La questione è tuttavia un’altra. E’ la commistione di vecchie e nuove regole che l’attuale classe politica vorrebbe usare per imbrigliare la volontà popolare. La Costituzione si riforma solo in quelle parti che fanno comodo a chi comanda, e si lascia intatta in quelle parti che ormai limitano assurdamente il diritto del popolo di pronunciarsi sulle questioni ritenute importanti.
La necessità di un quorum per ritenere valida la consultazione referendaria, al pari del giudizio di ammissibilità del quesito da parte della Corte Costituzionale, sono precauzioni che il Costituente prese all’epoca in cui la fragile democrazia italiana correva il rischio di pericolose derive. Adesso, diciamocelo, non hanno più senso. Il popolo italiano ha tanti difetti, ma non necessita di continuare a vivere sotto la tutela di un entità superiore. Tanto più coincidente con una magistratura che percepisce come sempre più collusa con il potere politico.
Al referendum, come alle elezioni, si va per votare chi vince e chi perde, senza correttivi. La maggioranza qualificata è un residuo del passato, un’ancora di salvataggio sempre più odiosa per un potere politico che ne ha già fin troppe. Questa parte della Costituzione avrebbe maggior bisogno di essere rivista da quello stesso potere politico, piuttosto che quella concernente il numero dei senatori e la loro provenienza.
Ma nessun sovrano rinuncia volontariamente al potere, se non ha in lontananza (lo diciamo metaforicamente) l’ombra della ghigliottina. In Italia purtroppo non è il popolo ad essere sovrano, ma una classe politica che non ha nessuna intenzione di abdicare fintanto che il circolo vizioso costituito dalle nostre attuali istituzioni glielo consente.
Ci aspettano tempi sempre più duri, e non perché le trivelle continueranno a perforare l’Adriatico ed il Tirreno. A Montecitorio e Palazzo Madama si stanno facendo ben altri danni, ad essere trivellati sempre di più sono i nostri diritti. Ed il prossimo referendum, quello di ottobre, sarà già un’ultima spiaggia.

martedì 12 aprile 2016

CONTROCORRENTE: Toghe eroiche

E così abbiamo un nuovo eroe popolare. Il 1992 e seguenti non ci hanno insegnato nulla, siamo di nuovo ad aspettare che come ai tempi di Mani Pulite siano i magistrati a dare il via alla rivoluzione popolare (da vivere in questo caso comodamente seduti a casa sul divano con in grembo il PC o il tablet per "lottare" duramente su Facebook o su Twitter).
Piercamillo Davigo è il nuovo presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati. E si è subito fatto sentire, con frasi tra l'altro abbastanza pesanti che danno ragione a chi ha detto che "in questo paese parlano più i magistrati dei politici".
Scusate se non mi unisco al plauso popolare. Una volta sono stato un fan di Mani Pulite. Salvo poi rendermi conto che non funzionava. Nel principio e nella pratica. Le rivoluzioni le fanno i popoli, non le corti di assise. E su una delle tante cose dette da Silvio Berlusconi negli ultimi vent'anni possiamo essere tutti d'accordo: i magistrati italiani sono politicizzati.
Il signor Davigo bisognerebbe che spiegasse tanto per cominciare come mai D.C. e P.S.I. furono costrette a "cantare" prima, e sparire poi. Mentre il P.C.I. poté emergere indenne e intonso dalla marea di Mani Pulite, anzi "più forte che pria", pronto a diventare la "gioiosa macchina da guerra" di Achille Occhetto. E non mi si venga a parlare del "coraggio" di Primo Greganti, un faccendiere alla Lavitola e Ricucci al quale le manette non sono state fatte seriamente tintinnare nemmeno per mezza giornata, altrimenti avrebbe raccontato perfino dov'era sepolto il corpo dell'ultimo Zar e della famiglia reale Romanov.
Vogliamo parlare di Magistratura Democratica, sig. Davigo? Io ci andrei piano con i giudizi di merito sulla classe politica, che peraltro se li merita appieno, ma non espressi da una categoria altrettanto screditata ormai come quella dei magistrati.
Faccia una bella cosa, quello che fanno tutti in questo paese: presieda. E vivaddio lasci perdere i discorsi, che qui i magistrati parlano anche troppo, e le mani pulite a questo punto non ce l'ha più nessuno.

venerdì 8 aprile 2016

Teppa Rossa

E’ un gran guazzabuglio medioevale”, avrebbe detto ancora Mago Merlino se invece di entrare nella cucina del castello di Semola fosse entrato uno di questi giorni nel nostro Parlamento. Piatti sporchi, e soprattutto panni sporchi da lavare in quantità. E un groviglio di situazioni ed interessi da mettere a dura prova il più potente dei maghi. Più che interessi in conflitto, interessi in clamorosa composizione. Più che una classe politica, un comitato d’affari.
Dunque, circa un mese fa una mattina ci svegliamo e qualcuno ci ricorda che tra un mese e mezzo circa c’è da andare a votare per un referendum abrogativo, l’ennesimo della nostra storia repubblicana, il primo chiesto non da un comitato o da un movimento di cittadini ma bensì da nove Consigli Regionali contro il Governo nazionale, ovverosia contro una norma inserita da questo nella legge di stabilità 2014.
E’ la norma che dichiara strategica l’attività di prospezione, ricerca e coltivazione degli idrocarburi liquidi e gassosi sul territorio nazionale. L’approvvigionamento energetico, dice il Governo, è questione di interesse nazionale e pertanto la avoca a sé, escludendo dalle scelte relative e connesse gli Enti Locali, Regioni comprese.
L’iniziativa referendaria, assunta proprio dalle Regioni in virtù del potere loro attribuito dalla Costituzione e che esclude la necessità della raccolta di firme, originariamente nasce presso alcune associazioni ambientaliste. Il referendum del 17 aprile 2016 viene quasi subito denominato pertanto NO TRIV. Si tratta di stabilire se le trivelle del petrolio operanti nel mare territoriale al largo delle nostre coste possono essere prorogate in concessione “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale” (in una parola, anzi due, per sempre) – come stabilisce la norma sopra citata – oppure limitatamente alla scadenza quarantennale posta dalla normativa precedente, emendata appunto nel 2014.
Come sempre quando si tratta di questioni di principio in materia ambientale, si scatena il pandemonio. La questione in Italia è delicata, più che altrove. Dai tempi del referendum sul nucleare. Ci lamentiamo delle bollette energetiche sempre più salate, ma di impianti di approvvigionamento sul nostro territorio non ne vogliamo. Siamo circondati da centrali nucleari, da trivelle petrolifere di altri paesi, ma di nostre non ne vogliamo. Vogliamo andare al mare ed in montagna in ambiente “pulito”, come se aria ed acqua avessero dei confini invalicabili. Siamo pronti alla sollevazione popolare per un black out elettrico (come quello del 2004, favorito dal fatto che dipendiamo dalla Svizzera per almeno ¼ del nostro fabbisogno) o per uno sciopero dei benzinai, ma guai ad aprire nuovi impianti. Siamo anche contrari alle pale eoliche perché “deturpano il paesaggio” (e i tralicci dell’ENEL allora? I nostri nonni vivevano al buio, e il paesaggio non lo vedevano nemmeno).
Grande è la confusione sotto il cielo”, diceva il Grande Timoniere Mao Tze Tung, aggiungendo: “la situazione è dunque eccellente”. Dal suo punto di vista di sovvertitore del nostro capitalismo. Dal nostro invece, che in questo capitalismo ci dobbiamo bene o male tirare a campare, la confusione genera soltanto confusione. Dai tempi di Enrico Mattei cerchiamo una via autonoma all’approvvigionamento energetico, e sbattiamo contro la dura realtà delle Sette Sorelle. Dai tempi di Chicco Testa cerchiamo una via alternativa al buon senso, quando si tratta di ambiente ed energia.
Insomma, l’italiano medio si stava preparando a fare quello che ha sempre fatto in questi casi, tranne in una sola circostanza: seguire il consiglio di chi lo invitava ad andare a fare scampagnate anziché andare a votare. Cominciò Bettino Craxi, e gli andò bene fino al 91, quando già le prime avvisaglie di quella che sarebbe diventata Mani Pulite spinsero gli elettori a non disertare il referendum sulla preferenza unica di Mario Segni.
25 anni dopo Matteo Renzi tenta la stessa strategia, con una variante. Non c’è il mare ad attendere gli italiani renitenti al voto, perché la consultazione è stata volutamente anticipata. A giugno ci sono le amministrative in mezza Italia, accorpare il referendum avrebbe voluto dire fargli raggiungere probabilmente il “quorum”, e questo Renzi proprio non lo vuole.
Arroganza del potere? Non proprio. Non solo, almeno. C’è in ballo qualcosa di più. Mentre fautori della politica energetica e quelli dell’ambiente si scornano a colpi di post sempre più confusionari (facendo il gioco di un governo che tutti indistintamente dicono di voler avversare), una bella sera arriva un flash di agenzia più esplosivo delle bombe dell’ISIS.
Federica Guidi e Gianluca Gemelli
La Procura di Potenza ha da tempo avviato una indagine a proposito di un grande giacimento di combustibili fossili che si trova in Basilicata. Si chiama Tempa Rossa, è attivo dal 1989 nella Valle del Sauro e pare essere al centro di un altro guazzabuglio. Una parte delle indagini riguarda il regime autorizzatorio dei lavori dell’impianto (non è mai troppo tardi, ma sono i tempi della giustizia italiana), l’altra una presunta gestione illecita dei rifiuti, vale a dire lo sversamento dei residui della lavorazione del petrolio nelle falde acquifere locali.
Nell’ambito di queste indagini, la Procura ha disposto intercettazioni telefoniche erga omnes. Uno dei soggetti intercettati è Gianluca Gemelli, imprenditore coinvolto in entrambi i filoni dell’inchiesta e – guarda un po’ – compagno di vita di Federica Guidi, Ministro dello Sviluppo Economico. In una delle conversazioni, la ministra riferisce al compagno imprenditore dell’approvazione proprio di quell’emendamento alla legge di stabilità 2014. L’emendamento che porta gli italiani a votare tra due domeniche. Quello che se non abrogato consentirà la proroga sine die delle concessioni petrolifere sul territorio nazionale.
Tra cui Tempa Rossa. Il problema non sono le trivelle in mare aperto, che concorrono al 3% del fabbisogno energetico nazionale (da non disprezzare, comunque, per un paese rimasto fermo in questo campo alle scoperte di Mattei), ma il grande giacimento petrolifero gestito in Lucania per metà dalla francese Total e per metà dall’anglo-olandese Shell. Questo è il nodo nascosto sotto il polverone alzato da un mese a questa parte da chi sostiene il governo e da chi dice di volerlo combattere.
La ministra Guidi si dimette la sera stessa. La sua collega Maria Elena Boschi, malgrado sia indicata dalle stesse intercettazioni come assolutamente “d’accordo” sull’operazione, no. Tantomeno il presidente del consiglio Renzi, che anzi rivendica orgoglioso: “l’emendamento Tempa Rossa l’ho voluto io”.
Insomma, se si va al mare il 17 prossimo venturo (confidando nell’estate anticipata) a chi si fa un piacere? A uno dei governi più chiacchierati dell’intera storia repubblicana, un governo dove gli interessi non sembrano essere più in conflitto come in passato, ma addirittura in commistione come gli ingredienti di un piatto prelibato nelle mani di uno chef di grido? O alla Settima Sorella francese, la stessa che ha ispirato la Primavera Araba ai danni della nostra ENI? La stessa che ha disseminato il nostro territorio di pompe di benzina gestite con criteri di assoluta anti-economicità ma tutt’ora vive e vegete (in apparenza)? La stessa che ha perso la concessione nel Golfo del Messico dopo il disastro ambientale del 2010 e che ha bisogno di contare su nuove importanti concessioni possibilmente di durata storica?
I rapporti tra la politica italiana e il mondo del petrolio sono sempre stati complessi e imperscrutabili. Siamo ancora a cercare di capire che cosa non funzionò sull’aereo di Enrico Mattei, o cosa successe a Pier Paolo Pasolini mentre stava appunto cercando di capirci qualcosa, poco prima di quella notte ad Ostia. Siamo ancora sconcertati da quanto emerse qualche anno fa dagli archivi dei servizi segreti americani, circa la maxi tangente che fu versata al Re d’Italia Vittorio Emanuele III ed al Duce del Fascismo Cavalier Benito Mussolini affinché non sfruttassero il petrolio della Libia (italiana dal 1912) causando di conseguenza un crollo del prezzo del greggio (erano queste, pare, le famose rivelazioni promesse da Giacomo Matteotti quando fu prelevato dagli squadristi di Dumini sul Lungotevere Arnaldo da Brescia il 10 giugno 1924).
Dire di no alle Sette Sorelle è sempre stato complicato per i nostri leader politici. Ma a quanto pare dal 2011 in poi nessuno ha più azzardato neanche un mezzo NI. E dal 2014 in poi pezzi interi di territorio italiano sono andati in svendita come nemmeno le aziende pubbliche privatizzate da Prodi & C.
Ecco perché, ci permettiamo di dire, tra il figlio di Totò Riina e la figlia di Pier Luigi Boschi, ultimi due ospiti della chiacchierata trasmissione di Bruno Vespa Porta a Porta, ci inquieta tutto sommato più la seconda. Questo non è più un mondo di conflitti di interesse. Un gran guazzabuglio medioevale, avrebbe detto Mago Merlino. Lasciamo perdere cosa avrebbe detto Montesquieu.
L’unica cosa certa è che chi va al mare, il nostro consueto mare “fuori porta” rifugio di tante consultazioni referendarie ed elettorali poco sentite, rischia di ritrovarsi nelle acque territoriali di qualche altro paese.
E la bolletta dell’ENEL. La nostra fortuna italica – ormai agli sgoccioli – è cieca. Ma l’Enel, ed Equitalia, ci vedono benissimo.

giovedì 7 aprile 2016

CONTROCORRENTE: Il grande gioco



Il terzo Controcorrente di oggi è dedicato al caso Regeni. Non sapremo mai che cosa è successo esattamente a quel povero ragazzo. Non sapremo mai perché era lì, per conto di chi, a fare che cosa. Chi l’ha preso, chi l’ha ucciso, perché, perché in quel modo. Non sapremo mai la verità.
Il mondo delle polizie e dei servizi segreti è un mondo impenetrabile, che solo pochi riuscitissimi film e libri sono riusciti a farci intravedere. Altrettanto impenetrabile è il mondo dei governi che stanno dietro a quei servizi ed a quelle polizie. Pensare che tutto ciò possa rispondere in qualche modo all’opinione pubblica, a qualsiasi opinione pubblica, è illusorio.
Arrivano gli emissari del governo egiziano, per rendere conto a quello italiano – dice – delle circostanze connesse agli ultimi giorni di vita di Giulio Regeni. Soltanto una stampa di sprovveduti o di ciarlatani, che rende conto a sua volta ad una opinione pubblica di storditi da troppi social network, può pensare e pubblicare che le cose andranno così. Che i poliziotti e le spie egiziane vengano per consegnare prove e riscontri ai magistrati italiani.
In realtà, senza aver letto John le Carré, Graham Greene, Rudyard Kipling o James Grady, ci vuole poco a capire che se i maggiorenti del Cairo sono venuti fino a Roma, lo hanno fatto per ben altri motivi che non per rendere giustizia alla famiglia Regeni. Stavo per aggiungere “al popolo italiano”, ma poi ci ho pensato bene: il popolo italiano non sa più nemmeno perché è al mondo e dove, figurarsi se la vicenda dello studente italiano capitato sicuramente in un gioco più grande di lui è in grado di risvegliarlo da un torpore che ha radici lontane.
Gli egiziani sono a Roma per parlare con gli italiani di cose che si dicono solo nelle stanze dei bottoni, a prova di microspie e di qualsiasi altro crack. Me li immagino, i funzionari italiani dire a quelli nordafricani: la prossima volta che fate queste cose, fatele per bene, non lasciate in giro i cocci, che poi a spazzarli tocca a noi ed è un problema, con la famiglia che chiede spiegazioni e la stampa che rompe i coglioni. O fa finta di farlo, perché poi ce li vogliamo vedere questi arruffapopolo a spingersi fino nei bassifondi del Cairo, a rischiare di fare la stessa fine di Regeni.
Sono 50 anni che l’Italia è crocevia di trame nere di ogni tipo. 50 a stare stretti, a non considerare almeno i 100 precedenti. I funzionari di stato, che li comandi il Rottamatore o qualche Facciaferoce del passato, sono allenati da gran tempo a far sparire i cocci sotto i tappeti. Bisogna solo mettersi d’accordo con gli omologhi, in questo caso egiziani.
Seguiranno tre mesi o forse più ma anche forse meno di accorati servizi improntati al “passo avanti” o “passo indietro nelle indagini sulla misteriosa e tragica scomparsa del giovane italiano in Egitto”. Poi sarà successo qualcos’altro, e Regeni finirà come ultimo ritratto di un corridoio vasariano che va da Majorana ad Ilaria Alpi passando per Enrico Mattei e Pier Paolo Pasolini. Con Latorre e Girone a pregare che un giorno questo paese dove l’unica cosa che funziona sono i servizi segreti si ricordi anche di loro.
Ti sia lieve la terra, Giulio Regeni. Nessuno può più farti male, comunque vada. E l’unico che può renderti giustizia a questo punto sei tu stesso.

CONTROCORRENTE: Raggi? Ma de che? Bertochi??????



A quest’ora dovrebbe essere chiaro a tutti, anche ai non romani, qual è stata la colpa principale di Ignazio Marino. Quella che l’ha portato a cadere in disgrazia e a perdere il suo scranno al Campidoglio. Non aveva governato la città più difficile del mondo, la nostra capitale, peggio dei predecessori Alemanno e Veltroni. Ma aveva detto qualche no di troppo, ed alla persona sbagliata.
Adesso si rivota. Volenti o nolenti, è il primo test elettorale per un governo che nessuno finora ha votato. Un test probante, cruciale. Quella persona che si legò al dito il no di Marino è sempre al solito posto, più che mai determinato ad affrontare l’ordalia elettorale soltanto quando avrà cambiato, per non dire stravolto a suo favore le istituzioni di questo Paese.
Bene o male, per Matteo Renzi queste amministrative sono una prova del fuoco. Si voterà in alcuni tra i più grandi capoluoghi di provincia e di regione, ed in almeno quattro metropoli: Bologna, Cagliari, Milano, Napoli, Roma, Torino e Trieste. Il test principale, con tutto il rispetto per realtà complesse come il capoluogo lombardo, quello piemontese e quello campano, è proprio la capitale.
Matteo Renzi sa di avere il consenso in calo (sono pronti altri 80 euro a pioggia, stavolta direzione pensionati). Ma sa anche che il campo dei suoi avversari, sempre più vasto, è anche sempre più frammentato. Cresce il malcontento nella base PD, ma se a rappresentarlo si fanno avanti il querulo Cuperlo, l’odioso più che mai D’Alema ed un Bersani che sembra uscito da Quelli della Notte di Renzo Arbore (a volergli bene), il segretario a capo del governo di sinistra a guida Confindustria può dormire sonni tranquilli. Marino è out, l’infido Rossi tesse le sue trame in una Toscana sempre più ripiegata su se stessa (la meningite a ben vedere è l’ultimo dei suoi problemi). Sul ponte dei democratici sventola da tempo bandiera bianca.
L’opposizione di sinistra, quel Movimento Cinque Stelle che non riesce per sua disgrazia a liberarsi dei due capelloni che l’hanno fondato e che si stanno impegnando per strozzarlo nella culla, ha rinunciato alla carta sicura dell’enfant du pays Alessandro Di Battista, il quale messe da parte alcune intemperanze giovanili si sta affermando come una delle migliori teste pensanti del suo movimento/partito. In più è romano de Roma, saprebbe dove mettere le mani e probabilmente avrebbe a questo punto anche il carisma ed un minimo d’esperienza per farlo.
E chi ti va a prendere invece il Beppe Grillo, adducendo cause ostative regolamentari che francamente capisce solo lui, essendo più incomprensibili di tante sue battute da cabaret? La Vispa Teresa. Virginia Raggi fa tanta tenerezza, sembra una di queste ragazzette neolaureate che vengono a presentare curricula vitae negli enti pubblici o privati. E ti sottolineano: questa esperienza farebbe tanto bene alla mia formazione, ma tanto, tanto bene. E te non puoi dire loro quello che pensi, perché già soltanto la tua espressione facciale è politicamente scorretta, meglio tenere la bocca chiusa.
Conoscendo i romani, questa se la magnano alla prima settimana. Verrebbe voglia di chiedere un colloquio con i genitori. Buttate un occhio su vostra figlia, ma che la mandate fuori da sola, in queste condizioni? Per l’amor di Dio….
Poi c’è la destra. O quello che ne rimane. Hai una Giorgia Meloni per le mani, dopo Giovanna d’Arco alla guida dei Francesi o Boadicea alla guida dei Galli Britanni è la scelta migliore che si sia presentata al popolo. Romana de Roma anche lei, sopravvissuta all’universo della destra capitolina (variegatissimo e non sempre raccomandabile, pieno di omaccioni, provare per credere), saprebbe dove mettere le mani, e disgraziato chi se le ritrova sul viso. Avrebbe anche il sostegno di Salvini e della Lega Nord.
Macché, Berlusconi non è convinto, questi giovani leoni e leonesse gli danno ombra. Al limite, se vuoi stare sull’usato garantito tira allora fuori uno Storace, a Roma di questi tempi ci sta che faccia il pieno.
No. Bertolaso. L’uomo che è passato indenne attraverso quindici anni di Protezione Civile. L’uomo che non ha prevenuto nulla, ed ha ricostruito anche meno. Peggio che a Roma, c’è solo da presentarlo all’Aquila. Come ripresentare Pisapia a Milano, o De Magistris a Napoli. Il Nulla elevato a proposta politica. Nella città più irriverente del mondo. Gran talent scout nello sport e nello spettacolo, il Cavaliere. Di politica invece ci ha sempre capito poco, almeno quando si è trattato di scegliersi i collaboratori. Dopo Gianfranco Fini, un disastro. Troppo botox, ormai, forse.
Rivincerà, anzi forse vincerà per la prima volta (per ora zero titoli, come il suo alter ego calcistico Diego Della Valle) Matteo Renzi. Che non poteva sperare in un campo avversario così disastrato e mal guidato. Alessandro Magno si pappò la Grecia in un sol boccone, perché le città stato non seppero opporgli un fronte comune. Vai a farglielo capire, a Cuperlo, Casaleggio e al Berlusca.

CONTROCORRENTE: Giù le mani da Bruno Vespa



A quest’ora la trasmissione di Bruno Vespa con ospite il figlio del Capo dei Capi c’è già stata. Non l’ho vista, non mi interessa, non è questo il punto. Il punto è che le critiche preconcette – magari anche benintenzionate – scatenatesi prima della messa in onda proprio no, non le condivido.
Il mestiere di giornalista prevede di intervistare non soltanto i buoni, ma anche – e forse soprattutto – i cattivi. Bruno Vespa fa il suo mestiere, Dopo, si può giudicare come l’ha fatto. Prima, non può essere criticato ma solo lasciato lavorare. Se lavora male, o la butta di fuori, ci sarà tempo dopo per far valere qualsiasi sanzione o clausola contrattuale.
Il fatto è che si è perso ormai il senso di parole come libertà, democrazia, giù giù fino a deontologia professionale. Proprio quando tutti se ne riempiono la bocca.  Si è persa – in materia di libertà di stampa, di espressione, di giornalismo in senso lato – la nozione di quel principio fondamentale secondo cui meglio un giornale (ed una voce) in più che una in meno.
Bruno Vespa a molti non piace. Come tempo fa non piaceva Emilio Fede. La questione non è se piacciono a me (ne parliamo un’altra volta, e magari avrò da fare a pezzi tanti presunti miti di cosiddetta sinistra), ma il loro diritto a scrivere ed andare in onda perché a qualcun altro piacciono. Qualcun altro è rappresentato da loro. Qualcun altro ha diritto a leggere la loro opinione o i loro reportages.
Questa è libertà di stampa. Voltaire diceva, non condivido il tuo punto di vista ma mi batterò sempre perché tu possa esprimerlo. Ma chi legge più Voltaire al giorno d'oggi? La trasmissione Porta a Porta non è la mia preferita, ma la RAI che minaccia di chiuderla è vergognosa, non essa. E’ mafiosa né più e né meno di quel Riina di cui ci si scandalizza tanto come tema del giorno. Non voglio arrivare a definire mafiosa anche la sig.ra Rosy Bindi, come fa stamattina Vittorio Sgarbi. Ma poco intelligente sì, senz’altro (e senza rifarmi alla celebre battuta di Silvio Berlusconi).
La sera prima è andata in onda come ospite di Vespa Maria Elena Boschi. La considero attualmente un personaggio assai più scandaloso di Salvo Riina. E perfino – udite udite! – di suo padre Totò. Almeno loro si sa chi sono, non ne fanno mistero. L’altra si spaccia per un ministro della Repubblica anziché per una signorina che sta seguendo interessi privati in atti d’ufficio. U curtu firmava le sue malefatte. Maria Ele no. Lei ci prende addirittura in giro lamentando di essere vittima di poteri forti. Lei figlia di un amministratore di banca che andava a chiedere consiglio a Flavio Carboni, com’è noto un fuoruscito martire della libertà al pari di Sandro Pertini e Leo Valiani.
Questa è la gente che passa dal salotto di Bruno Vespa. Come ci passa, se ne può discutere. Ma guai se smettesse di passarci. Con buona pace di professionisti e dilettanti dell’Antimafia. Non passa giorno senza che il pensiero vada a quei due della foto più commovente della nostra storia repubblicana, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E ogni giorno con la stessa stretta al cuore.
Lasciamo in pace i giornalisti. Altrimenti dell’eredità di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non ci abbiamo capito nulla.


domenica 3 aprile 2016

La "razza Piave" non c'é più

Quando debuttò con la maglia della squadra della sua città natale – era il 1953 -, la Triestina giocava nella serie A italiana ma Trieste non era ancora stata restituita all’Italia dall’amministrazione alleata che la governava dalla fine della guerra. Sarebbe ritornata a sventolare il tricolore l’anno seguente, mentre il giovane Cesare Maldini, dopo appena un anno di militanza si metteva al braccio la fascia di capitano della squadra dell’alabarda.
Erano gli anni d’oro di Nereo Rocco, che aveva portato la squadra giuliana ad un prestigioso secondo posto nel 1948, brevettando un sistema di gioco destinato a fare scuola e ad avere gran fortuna in Italia, propiziando successi prestigiosi della Nazionale e dei club: il catenaccio. Ai suoi difensori, il paron era solito predicare, “o palla o gamba, meglio se palla”.
Cesare Maldini, con quella faccia un po’ così da Walter Chiari prestato al calcio, era quello dei suoi giocatori che aveva assimilato maggiormente il verbo. Un duro di classe, che aveva seguito il suo mentore al grande Milan di Rizzoli ed alle cui fortune aveva contribuito in misura determinante. I rossoneri dominavano in Italia ed in Europa, costretti rispettivamente solo dalla Fiorentina nel 1956 e dal Real Madrid nel 1958 alla sconfitta. Una sconfitta quest’ultima di cui si sarebbero rifatti a Wembley nel 1963, con il capitan Cesare Maldini saldamente in comando della sua difesa. Davanti, all’epopea del Gre-No-Li era succeduta quella di Gianni Rivera. Dietro, comandava ancora lui, affiancato nel frattempo da altri campioni del calibro di Trapattoni e Radice.
Santiago Bernabeu, Madrid, 1982
Aveva avuto tanto dal calcio giocato Cesare, e tanto ancora doveva avere una volta sedutosi in panchina. Da vice di un altro razza Piave, il quasi conterraneo Enzo Bearzot (per lui e non solo per lui “el vecio furlan”), aveva alzato la Coppa del Mondo al Santiago Bernabeu di Madrid nell’82. Dieci anni dopo in Svezia aveva vinto il primo trofeo continentale da commissario tecnico dell’Under 21.Il primo trionfo di un trittico prestigioso e fino ad ora ineguagliato che l’avrebbe portato a bissare il successo in Francia nel 1994 e poi in Spagna nel 1996.
Le sue squadre giocavano come Rocco aveva insegnato a giocare a lui. Palla o gamba, poi palla lunga e pedalare. Quando ormai il mondo del calcio tentato dall’onda lunga della rivoluzione olandese e dalle sirene sacchiane storceva la bocca di fronte al catenaccio di scuola italiana, lui proseguiva – vincendo – per la sua strada. E quando nel 1996 la precoce eliminazione dall’europeo inglese convinse la Federazione che le sirene sacchiane avevano cantato abbastanza, toccò a lui rispondere alla chiamata e prendere la Nazionale maggiore alla vigilia di un match decisivo in funzione della qualificazione ai Mondiali francesi del 98.
Padri e figli ancora piccoli
23 anni dopo Ferruccio Valcareggi, Cesare Maldini riportò gli azzurri a sbancare Wembley, ma stavolta in un incontro ufficiale che valse la qualificazione e la consacrazione per un tecnico che fino a quel momento aveva vinto tanto, ma fuori della luce dei riflettori. Cesare portò la Nazionale in Francia a testa alta, dopo uno spareggio drammatico in Russia risolto dal bomber Christian Vieri ed in mezzo alle critiche ed allo scetticismo dei puristi del calcio.
La sua Nazionale giocò un mondiale poco spettacolare ma comunque efficace. Se il triestino Valcareggi aveva dovuto risolvere la grana del dualismo tra Mazzola e Rivera, al triestino Maldini toccò quella tra Baggio e Del Piero. Con Pinturicchio che aveva preso il posto di Raffaello nella galleria juventina, e che scalpitava per fare altrettanto in quella azzurra, approfittando di un Baggio che non si era mai veramente ripreso dal rigore sbagliato a Pasadena almeno fino a quello trasformato nelle eliminatorie francesi contro il Cile, quando già la maglia di titolare era passata sulle spalle del più giovane e sponsorizzato collega.
Diatribe e polemiche a parte, gli azzurri di Maldini andarono ad un soffio dal fargli ripetere a Saint Denis il colpaccio che il capostipite della razza Piave Vittorio Pozzo aveva messo a segno nel 1938 a Marsiglia, eliminando i padroni di casa francesi dal loro mondiale. Roberto Baggio, messo dentro nei minuti finali, sfiorò di un millimetro la traversa con un tiro al volo spettacolare che se fosse entrato avrebbe valso all’Italia il golden gol (secondo la regola in vigore in quel momento e che era destinata ad essere fatale alla Nazionale azzurra in almeno un altro paio di circostanze successive). Ai rigori, toccò purtroppo a Gigi di Biagio il sergente ripetere l’errore fatale del Codino quattro anni prima, consegnando ai francesi il passaggio alla finale ed al titolo mondiale.
Padri e figli
Per i tifosi di Baggino, si trattò di un meritato contrappasso per un tecnico che aveva ignorato e negletto l’immenso talento del ragazzo di Caldogno. Per i puristi, per di più esterofili, si trattò di un opportuno “lasciare strada” a chi giocava meglio, nella fattispecie la Francia di Zinedine Zidane, con la quale peraltro avremmo aperto un conto destinato a saldarsi otto anni dopo a Berlino.
Per Cesare Maldini restò la soddisfazione di aver fatto il suo dovere e di aver portato l’Italia dove poteva arrivare e quasi quasi anche oltre. Là dove si erano fermati i predecessori Vicini e Sacchi, maledetti anche loro dalla lotteria dei rigori che aveva frustrato le speranze italiane in un decennio in cui ancora l’Italia dominava il calcio internazionale, a livello di nazionale e di club.
Alla soddisfazione per il suo lavoro di tecnico, si era aggiunta nel frattempo quella di padre, orgoglioso di aver visto il figlio Paolo ripercorrere le proprie orme a partire dalle giovanili del Milan e addirittura superarle. Come lui era stato la colonna portante del Milan plurivittorioso di Rizzoli, Paolo lo era diventato di quello di Berlusconi che arrivò con lui ad essere addirittura il club più titolato del mondo.
In nazionale, Paolo era entrato con Vicini nel 1988 all’Europeo di Germania e ne era uscito con Trapattoni allo sfortunato mondiale coreano del 2002 Per due anni era stato allenato da suo padre Cesare, tra l’europeo inglese ed il mondiale francese. A Seul padre e figlio si erano ritrovati di nuovo, uno allenatore del Paraguay sconfitto negli ottavi dalla Germania poi finalista, l’altro centrale della difesa battuta al golden gol da Ahn e soprattutto dall’arbitro Byron Moreno.
Wembley 1963
La famiglia Maldini aveva chiuso lì, padre e figlio avevano salutato il calcio mondiale al ritorno dall’Estremo Oriente. Cesare, ormai settantenne, si era dedicato a commentare le partite altrui. Nel 2012, alla veneranda età di ottant’anni (era del ‘32), si era ritrovato a fare il commentatore nientemeno che ad Al Jazeera assieme ad Alessandro Altobelli. Era stata la sua ultima apparizione calcistica in assoluto.
Se n’è andato stanotte, pare serenamente. La sua più grande soddisfazione, come aveva raccontato al Piccolo di Trieste tempo fa, la prima Coppa dei Campioni italiana alzata da capitano nel 63 a Wembley (“lì abbiamo fatto la storia”). Un solo rimpianto, invece. Come ammise tempo fa, a giocare quel famoso scopone con il Presidente Pertini e Bearzot avrebbe dovuto esserci anche lui. Non sapremo mai chi gli “rubò” il posto. Di sicuro sappiamo che se ne va l’ultimo epigono di una razza, quella Piave, che fece grande l’Italia, e non solo sui campi di calcio.

Oggi il Milan giocherà con il lutto al braccio. Sarebbe bene che tutto il calcio italiano, a qualsiasi livello, seguisse il suo esempio. Ne avrebbe ben d’onde.