Dunque, circa un mese fa una
mattina ci svegliamo e qualcuno ci ricorda che tra un mese e mezzo circa c’è da
andare a votare per un referendum abrogativo, l’ennesimo della nostra storia
repubblicana, il primo chiesto non da un comitato o da un movimento di
cittadini ma bensì da nove Consigli Regionali contro il Governo nazionale,
ovverosia contro una norma inserita da questo nella legge di stabilità 2014.
E’ la norma che dichiara
strategica l’attività di prospezione, ricerca e coltivazione degli idrocarburi
liquidi e gassosi sul territorio nazionale. L’approvvigionamento energetico,
dice il Governo, è questione di interesse nazionale e pertanto la avoca a sé,
escludendo dalle scelte relative e connesse gli Enti Locali, Regioni comprese.
L’iniziativa referendaria,
assunta proprio dalle Regioni in virtù del potere loro attribuito dalla
Costituzione e che esclude la necessità della raccolta di firme,
originariamente nasce presso alcune associazioni ambientaliste. Il referendum
del 17 aprile 2016 viene quasi subito denominato pertanto NO TRIV. Si tratta di
stabilire se le trivelle del petrolio operanti nel mare territoriale al largo
delle nostre coste possono essere prorogate in concessione “per la durata di
vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di
salvaguardia ambientale” (in una parola, anzi due, per sempre) – come stabilisce
la norma sopra citata – oppure limitatamente alla scadenza quarantennale posta
dalla normativa precedente, emendata appunto nel 2014.
Come sempre quando si tratta di
questioni di principio in materia ambientale, si scatena il pandemonio. La
questione in Italia è delicata, più che altrove. Dai tempi del referendum sul
nucleare. Ci lamentiamo delle bollette energetiche sempre più salate, ma di
impianti di approvvigionamento sul nostro territorio non ne vogliamo. Siamo
circondati da centrali nucleari, da trivelle petrolifere di altri paesi, ma di
nostre non ne vogliamo. Vogliamo andare al mare ed in montagna in ambiente “pulito”,
come se aria ed acqua avessero dei confini invalicabili. Siamo pronti alla
sollevazione popolare per un black out elettrico (come quello del 2004,
favorito dal fatto che dipendiamo dalla Svizzera per almeno ¼ del nostro
fabbisogno) o per uno sciopero dei benzinai, ma guai ad aprire nuovi impianti. Siamo
anche contrari alle pale eoliche perché “deturpano il paesaggio” (e i tralicci
dell’ENEL allora? I nostri nonni vivevano al buio, e il paesaggio non lo
vedevano nemmeno).
“Grande è la confusione sotto il
cielo”, diceva il Grande Timoniere Mao Tze Tung, aggiungendo: “la situazione è
dunque eccellente”. Dal suo punto di vista di sovvertitore del nostro
capitalismo. Dal nostro invece, che in questo capitalismo ci dobbiamo bene o
male tirare a campare, la confusione genera soltanto confusione. Dai tempi di
Enrico Mattei cerchiamo una via autonoma all’approvvigionamento energetico, e
sbattiamo contro la dura realtà delle Sette Sorelle. Dai tempi di Chicco Testa
cerchiamo una via alternativa al buon senso, quando si tratta di ambiente ed
energia.
Insomma, l’italiano medio si stava
preparando a fare quello che ha sempre fatto in questi casi, tranne in una sola
circostanza: seguire il consiglio di chi lo invitava ad andare a fare
scampagnate anziché andare a votare. Cominciò Bettino Craxi, e gli andò bene
fino al 91, quando già le prime avvisaglie di quella che sarebbe diventata Mani
Pulite spinsero gli elettori a non disertare il referendum sulla preferenza
unica di Mario Segni.
25 anni dopo Matteo Renzi tenta
la stessa strategia, con una variante. Non c’è il mare ad attendere gli
italiani renitenti al voto, perché la consultazione è stata volutamente
anticipata. A giugno ci sono le amministrative in mezza Italia, accorpare il
referendum avrebbe voluto dire fargli raggiungere probabilmente il “quorum”, e
questo Renzi proprio non lo vuole.
Arroganza del potere? Non
proprio. Non solo, almeno. C’è in ballo qualcosa di più. Mentre fautori della
politica energetica e quelli dell’ambiente si scornano a colpi di post sempre
più confusionari (facendo il gioco di un governo che tutti indistintamente
dicono di voler avversare), una bella sera arriva un flash di agenzia più
esplosivo delle bombe dell’ISIS.
Federica Guidi e Gianluca Gemelli |
La Procura di Potenza ha da tempo
avviato una indagine a proposito di un grande giacimento di combustibili
fossili che si trova in Basilicata. Si chiama Tempa Rossa, è attivo dal 1989
nella Valle del Sauro e pare essere al centro di un altro guazzabuglio. Una
parte delle indagini riguarda il regime autorizzatorio dei lavori dell’impianto
(non è mai troppo tardi, ma sono i tempi della giustizia italiana), l’altra una
presunta gestione illecita dei rifiuti, vale a dire lo sversamento dei residui della
lavorazione del petrolio nelle falde acquifere locali.
Nell’ambito di queste indagini,
la Procura ha disposto intercettazioni telefoniche erga omnes. Uno dei soggetti
intercettati è Gianluca Gemelli, imprenditore coinvolto in entrambi i filoni
dell’inchiesta e – guarda un po’ – compagno di vita di Federica Guidi, Ministro
dello Sviluppo Economico. In una delle conversazioni, la ministra riferisce al
compagno imprenditore dell’approvazione proprio di quell’emendamento alla legge
di stabilità 2014. L’emendamento che porta gli italiani a votare tra due
domeniche. Quello che se non abrogato consentirà la proroga sine die delle
concessioni petrolifere sul territorio nazionale.
Tra cui Tempa Rossa. Il problema
non sono le trivelle in mare aperto, che concorrono al 3% del fabbisogno
energetico nazionale (da non disprezzare, comunque, per un paese rimasto fermo
in questo campo alle scoperte di Mattei), ma il grande giacimento petrolifero
gestito in Lucania per metà dalla francese Total e per metà dall’anglo-olandese
Shell. Questo è il nodo nascosto sotto il polverone alzato da un mese a questa
parte da chi sostiene il governo e da chi dice di volerlo combattere.
La ministra Guidi si dimette la
sera stessa. La sua collega Maria Elena Boschi, malgrado sia indicata dalle
stesse intercettazioni come assolutamente “d’accordo” sull’operazione, no. Tantomeno
il presidente del consiglio Renzi, che anzi rivendica orgoglioso: “l’emendamento
Tempa Rossa l’ho voluto io”.
Insomma, se si va al mare il 17
prossimo venturo (confidando nell’estate anticipata) a chi si fa un piacere? A
uno dei governi più chiacchierati dell’intera storia repubblicana, un governo
dove gli interessi non sembrano essere più in conflitto come in passato, ma
addirittura in commistione come gli ingredienti di un piatto prelibato nelle
mani di uno chef di grido? O alla Settima Sorella francese, la stessa che ha
ispirato la Primavera Araba ai danni della nostra ENI? La stessa che ha
disseminato il nostro territorio di pompe di benzina gestite con criteri di
assoluta anti-economicità ma tutt’ora vive e vegete (in apparenza)? La stessa
che ha perso la concessione nel Golfo del Messico dopo il disastro ambientale
del 2010 e che ha bisogno di contare su nuove importanti concessioni
possibilmente di durata storica?
I rapporti tra la politica
italiana e il mondo del petrolio sono sempre stati complessi e imperscrutabili.
Siamo ancora a cercare di capire che cosa non funzionò sull’aereo di Enrico
Mattei, o cosa successe a Pier Paolo Pasolini mentre stava appunto cercando di
capirci qualcosa, poco prima di quella notte ad Ostia. Siamo ancora sconcertati
da quanto emerse qualche anno fa dagli archivi dei servizi segreti americani,
circa la maxi tangente che fu versata al Re d’Italia Vittorio Emanuele III ed
al Duce del Fascismo Cavalier Benito Mussolini affinché non sfruttassero il
petrolio della Libia (italiana dal 1912) causando di conseguenza un crollo del
prezzo del greggio (erano queste, pare, le famose rivelazioni promesse da
Giacomo Matteotti quando fu prelevato dagli squadristi di Dumini sul
Lungotevere Arnaldo da Brescia il 10 giugno 1924).
Dire di no alle Sette Sorelle è
sempre stato complicato per i nostri leader politici. Ma a quanto pare dal 2011 in poi nessuno ha più
azzardato neanche un mezzo NI. E dal 2014 in poi pezzi interi di territorio italiano
sono andati in svendita come nemmeno le aziende pubbliche privatizzate da Prodi
& C.
Ecco perché, ci permettiamo di
dire, tra il figlio di Totò Riina e la figlia di Pier Luigi Boschi, ultimi due
ospiti della chiacchierata trasmissione di Bruno Vespa Porta a Porta, ci
inquieta tutto sommato più la seconda. Questo non è più un mondo di conflitti
di interesse. Un gran guazzabuglio medioevale, avrebbe detto Mago Merlino. Lasciamo
perdere cosa avrebbe detto Montesquieu.
L’unica cosa certa è che chi va
al mare, il nostro consueto mare “fuori porta” rifugio di tante consultazioni
referendarie ed elettorali poco sentite, rischia di ritrovarsi nelle acque
territoriali di qualche altro paese.
E la bolletta dell’ENEL. La
nostra fortuna italica – ormai agli sgoccioli – è cieca. Ma l’Enel, ed
Equitalia, ci vedono benissimo.
Nessun commento:
Posta un commento