«Noi lo scudetto lo vinciamo
tutti i giorni. Ci basta alzare gli occhi sui nostri monumenti». Firenze ormai
è una città ripiegata su se stessa. Inutile tentare di spiegare ai suoi
cittadini – quelli che sono qui da sempre e quelli che sono arrivati nel tempo
in virtù di una politica dell’accoglienza dagli obbiettivi e dalle strategie non
sempre chiari e funzionali - che il
tempo della gloria e dell’orgoglio è tramontato. Che a camminare con lo sguardo
sollevato verso i monumenti che facevano il prestigio di questa città, oggi si
rischia soltanto di mettere il piede su qualche escremento, di quelli che i
suoi incivili abitanti fanno lasciare sui marciapiedi ai propri animali e che
il Comune si ricorda di pulire soltanto in qualche ricorrenza particolare.
A sentire qualcuno, a camminare
per Firenze sembra di poter incontrare ancora da un angolo all’altro, da un
momento all’altro, Lorenzo il Magnifico che discute con i suoi funzionari se
commissionare qualche capolavoro a Michelangiolo Buonarroti o ad Agnolo Poliziano.
Dante Alighieri che si reca in Battistero assieme a Guido Cavalcanti discutendo
del dolce stil novo. Pietro Leopoldo il Granduca che illustra a Pompeo Neri la
sua intenzione di riformare il codice penale secondo la dottrina di Cesare Beccaria.
Giuseppe Prezzolini che si siede alle Giubbe Rosse con l’amico Giovanni Papini,
e intrattiene i presenti con una dissertazione sulle tendenze culturali d’avanguardia
del Novecento.
Quella Firenze non c’è più. Era sopravvissuta
all’Alluvione, ma soprattutto al primo impatto di una nuova classe dirigente
che mescolava spudoratamente il buonismo velleitario e stolidamente accogliente
di un La Pira alla mancanza di scrupoli dei comitati d’affari che sorgevano in
città già fin dagli ultimi anni della Prima Repubblica, all’ombra di partiti e
logge. Determinati, in ossequio a tutto ciò, da un lato ad aprire le mura della
città non a chi portava sangue fresco e idee ancora più fresche, ma a coloro
che avrebbero finito per imbrattarla irrimediabilmente, trasformandola in un
suk esotico, un letamaio a cielo aperto. Dall’altro a ridurla ad un cantiere
permanente, che aggiunge casino al casino, che movimenta soldi che girano ormai
solo per le stesse tasche, che non porta da nessuna parte perché le Grandi Opere
hanno come fine soltanto – una volta realizzate – l’avvio di altre Grandi Opere.
Le strade restano sventrate, i ponteggi diventano opere permanenti (verrebbe da
dire condonabili), il traffico è quello di Roma però su una pianta venti volte
inferiore. Le bestemmie sono le solite, ma qui almeno siamo nel solco della
tradizione, nessuno ci faceva caso già ai tempi di Dante, figuriamoci adesso.
Ecco. I fiorentini cosiddetti che
parlano adesso di fiorentinità sembrano tanto la volpe di Esopo che parlava
dell’uva. Non hanno idea di cos’era questa città, né soprattutto di cosa
avrebbe potuto e dovuto diventare. Però hanno la bocca piena. Di parole. Sempre.
La festa juventina in Piazza San Carlo a Torino |
A Piazza San Carlo a Torino
festeggiano l’ennesimo trionfo. Della perdita della Capitale i torinesi si
consolarono ben presto, e per tutto il Novecento fino a questi anni Duemila non
hanno fatto altro che riproporre nel calcio una egemonia economica, politica e
culturale che era nella storia, nei fatti. E nessuno che si dia la pena di
indagarne i motivi reali. A Firenze, come nel resto d’Italia, nessuno ci ha
capito nulla. Altrimenti di Juventus nella nostra penisola ce ne sarebbero
almeno sette o otto. Invece è una sola, e da un anno all’altro mette in un
angolo tutti, di questi tempi, costringendo la metà non bianconera degli
italiani a fare gli stessi discorsi. Che lasciano il tempo che trovano, in
attesa dell’anno prossimo, alla fine del quale il copione – c’è da scommettere –
si ripeterà parola per parola.
A San Carlo festeggiano. In
Piazza della Repubblica a Firenze, là dove sorgeva una volta (e sorge ancora,
ma ormai ridotto ad un cimelio d’altri tempi, uno dei tanti monumenti
superstiti di una grande storia passata) a due passi dalle Giubbe Rosse il
glorioso Chiosco degli Sportivi, si commenta. Quello sappiamo fare, da sempre. Ma
una volta almeno lo si faceva con quello stile, quella classe un po’ becera ma
innocua e tutto sommato divertente con cui la gente di riva d’Arno si infamava
furiosamente salvo poi darsi la buonasera come nulla fosse e augurarsi buon
appetito, perché era l’ora di cena, dalle finestre si cominciava a sentire
profumo di minestrina ed era l’ora di rientrare, la moglie stava mettendo in
tavola.
"Tutti zitti!" dice Alvaro Morata dopo il gol decisivo al Franchi |
Quella gente si accapigliava per
stabilire se Montuori era meglio di Julinho, poi se Antognoni era meglio di De
Sisti. Se era stato più grande Beppe
Chiappella o Daniel Alberto Passarella. Gente che parlava di storia, di grande
storia al pari di quando parlava dell’Alighieri, del Lorenzo de’ Medici, del Prezzolini.
Gente che avrebbe preso un ciabattino marchigiano (con tutto il rispetto per la
regione Marche e per i ciabattini veri), venuto a insegnare il bon ton ed il
fair play alla città che un giorno aveva inventato il calcio, per le trombe del
sedere – come si soleva dire da queste parti – e l’avrebbe riaccompagnato ai
confini del Granducato, alla Consuma, affinché portasse altrove la propria
alterigia e la propria insipienza, senza mai più farsi rivedere.
I fiorentini non sono mai stati
simpatici al resto del mondo. Anzi, forse, con la loro prosopopea derivante da
mill’anni di primato artistico e culturale, sono riusciti a rendersi odiosi all’universo.
Ma almeno, finché potevano permettersi di discutere chi fra Michelangelo e
Brunelleschi (tutti “ragazzi di questo paese”) fosse il più grande, chi avesse
maggiormente “illustrato” la patria da Giotto ad Antognoni, una qualche
motivazione per il loro guardare il mondo dall’alto del piedistallo potevano
averla.
Adesso, già usare il termine “fiorentini”
pare forzato. Forse sono estinti, come gli Etruschi, come la famiglia Medici
(che poi erano originari del Mugello). Questi succedanei che parlano e scrivono
adesso quando intonano le loro odi allo scudetto dell’arte, magari infarcendole
di errori grammaticali e di neologismi tratti da quella lingua franco-barbarica
che sta sostituendo l’italiano in queste lande dove infuria il meticciato più
sfrenato, non si sa se fanno più tenerezza o rabbia.
Indro Montanelli allo Stadio Comunale di Firenze |
Disse una volta
Indro Montanelli, che era di Fucecchio ma che aveva fatto propria la
fiorentinità, quella vera, quella né spocchiosa né odiosa né eccessiva, fin da
ragazzo: «Nessun toscano può definirsi tale se non ha a cuore Firenze e la
Fiorentina». Chissà che avrebbe scritto
ieri mattina a vedere quel labaro viola una volta di più nella polvere su quel
campo ridotto a location dell’ennesima festa (meritata) altrui. Chissà se l’avrebbe
consolato alzare gli occhi sul Campanile di Giotto o sulla Cupola del Brunelleschi.
Magari a rischio di pestare qualcosa, o di finire addosso ad una transenna. O di
vederli imbrattati dalle aggiunte stilistiche di qualche portatore di cultura.
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