Alle undici di mattina dell’11
novembre 1918, su un vagone ferroviario fermo sul binario della linea che
attraversava la foresta demaniale di Compiegne presso la località Rethondes, l’Inutile
Strage ebbe finalmente termine.
Non esistono foto che ritraggono
lo storico evento, giornalisti e fotografi non furono ammessi. L’unica foto che
ritrae l’accaduto ed i convenuti fu presa al momento in cui le delegazioni
firmatarie dell’Armistice scesero da
quel vagone, consegnando alla storia quello che la Francia definì – un po’
troppo frettolosamente – le jour de
glorie, prendendo ispirazione dal proprio inno nazionale e dal sentimento di
giubilo per la fine di un’attesa che durava – per ogni cittadino francese degno
di tal nome – da ben 48 anni.
La Prima Guerra Mondiale era già
terminata sul fronte orientale il 3 marzo 1918, a Brest Litovsk,
località della Bielorussia dove la delegazione bolscevica che si era
impadronita del potere in Russia rovesciando lo Zar acconsentì a tutte le
durissime richieste dell’Alto Comando tedesco. Lev Trotskji cedette territorio
fino a tutte le repubbliche baltiche ed alla Polonia, permettendo ad un
occidente che si era dimostrato fin da subito ostile di sistemare le basi delle
sue truppe a ridosso di San Pietroburgo.
Sul fronte italo-austriaco,
invece, la guerra si era conclusa con l’attracco dell’Incrociatore Audace al
molo di Trieste, il 3 novembre 1918. il giorno dopo, il governo dell’Imperatore
Carlo I d’Asburgo, l’ultimo erede del prozio Franz Joseph - morto due anni
prima appunto quasi senza eredi dopo l’assassinio di Francesco Ferdinando che
aveva dato il via alla Grande Guerra -, aveva chiesto ed ottenuto l’armistizio
al generale italiano Armando Diaz. Il generale fu quasi sorpreso, anche se l’Austria
– Ungheria ormai si stava dissolvendo per le sconfitte militari e le rivolte
interne, e la richiesta lo colse – dice la leggenda – mentre davanti alla
cartina del fronte cercava di capire dove
c…. fosse questa Vittorio Veneto dove le sue truppe avevano ottenuto quella
che risultò essere la vittoria decisiva, la rivincita di Caporetto.
L’Impero Ottomano, che aveva
sostituito proprio l’Italia nella Triplice Alleanza con gli Imperi centrali, si
era arreso il 29 ottobre e aveva il suo da fare a sopravvivere alle spinte
insurrezionali repubblicane dei Giovani Turchi dell’eroe di guerra Mustafa Kemal,
il vincitore del carnaio di Gallipoli, colui che un giorno sarebbe stato
chiamato Ataturk.
La guerra finì di colpo, dopo
essere sembrata interminabile. Quattro anni e mezzo di dramma nel fango di
trincee inamovibili, da una parte e dall’altra, ravvivati soltanto dalle
offensive disperate scatenate a ovest e a sud dagli Imperi Centrali dopo il crollo
della Russia zarista nel novembre del 1917 e dall’arrivo del contingente
americano sul continente europeo nell’ultimo anno di guerra, si conclusero con
la dissoluzione dell’Austria Ungheria e con la rivolta repubblicana a Berlino,
che impose all’ultimo Oberkommand rimasto
belligerante la richiesta agli Alleati di cessazione delle ostilità.
I generali tedeschi, che avevano
esautorato i politici del loro paese negli anni della guerra, li spedirono
sprezzantemente a ricevere le condizioni armistiziali sul vagone ferroviario a
Compiegne. Quando la delegazione tedesca arrivò a destinazione, il Kaiser
Wilhelm II era già fuggito in Olanda per sottrarsi alla rivolta repubblicana. L’Imperatore
d’Austria lo seguì in esilio tre mesi dopo, quando le potenze vincitrici e
vinte si stavano già riunendo a Versailles per la discussione e la firma del
Trattato di Pace.
A Compiegne, la Francia inviò i
suoi eroi, il Maresciallo Foch ed il generale Weygand. Era il soggetto
belligerante che sentiva di più quel momento: Sedan e Napoleone III erano
vendicati, Lorena e Alsazia riconquistate, 48 anni di mortificazione dell’orgoglio
nazionale e della grandeur per mano
prussiana erano finalmente cancellati.
La Germania, da una settimana
rimasta l’unica avversaria degli Alleati, le si presentò di fronte con una
delegazione di mezze figure, per di più civili. Il segretario di stato
Erzberger si vide porre davanti condizioni durissime, compreso l’annullamento
del trattato di Brest Litovsk che avrebbe fatto della Polonia e di altri paesi finalmente
nazioni libere e indipendenti.
Erzberger contava talmente poco
che dovette chiedere all’unica vera autorità rimasta sopra di lui, il Capo di
Stato Maggiore tedesco Maresciallo Paul von Hindenburg, il permesso di
accettarle. La Germania sconvolta dall’insurrezione repubblicana che entro un
paio di mesi sarebbe stata legittimata a Weimar non poté dirgli che di
accettare.
La vittoria alleata era totale,
ma la sua portata fu sopravvalutata. L’esercito tedesco si era arreso senza che
un solo metro del suo suolo patrio fosse stato conquistato dai nemici. Era
stato costretto alla resa, ma non sconfitto. Per ritirare e smobilitare le
divisioni tedesche ancora sul campo, circa 190 su tutto il fronte occidentale
dal Belgio al confine svizzero, ci vollero circa due mesi, fino al gennaio
1919.
La Francia, tra Compiegne e
Versailles, impose per spirito di revanche
delle condizioni di resa che miravano a piegare la Germania per sempre,
impedendole di riprendere le armi in futuro. Proprio la durezza di tali
condizioni, sancite dal Trattato di Pace, mise la Germania economicamente in
ginocchio e la ridusse moralmente alla disperazione, favorendo la successiva
ascesa del Nazismo e la ripresa delle ostilità – in modo se possibile assai più
drammatico – vent’anni dopo. La Francia avrebbe finito per ritrovarsi, il 21
giugno 1940, di nuovo a Compiegne, di nuovo su quel vagone ferroviario, a
sottoscrivere un secondo armistizio ma stavolta da potenza sconfitta, invasa,
piegata. Con il Fuhrer in persona a
rappresentare la Germania trionfante, e la Francia medesima stavolta
rappresentata da un ex eroe di guerra divenuto mezza figura impresentabile ed
esecrata, il Maresciallo Philippe Petain.
Anche l’Italia avrebbe
sopravvalutato la sua vittoria, lamentandone la mutilazione da parte degli Alleati
a Versailles. Dimenticandosi che la fine delle ostilità era stata favorita anche
dall’insurrezione delle altre nazionalità (a cominciare da quelle della vicina
e neonata Jugoslavia) che si erano scrollate di dosso al pari di lei il
giogo imperiale austro – ungarico. Il mito della vittoria mutilata avrebbe giocato un ruolo non indifferente nell’ascesa
al potere delle camicie nere di Benito
Mussolini, così come le sanzioni di Versailles avrebbero giocato un ruolo
analogo nell’ascesa delle camicie brune
di Adolf Hitler in Germania.
Ma quella mattina, a Rethondes
preso Compiegne, su quel vagone dove non poté salire nessun testimone che non
facesse parte di una delle delegazioni dei paesi che si erano scannati fino al
giorno prima, si respirava soltanto il sollievo per la fine di una strage come
l’umanità non aveva ancora mai visto, fino a quel momento. Senza immaginare che si stava preparando la
successiva, assai più ingente e drammatica.
L’11 novembre rimase in Gran
Bretagna nel calendario come Remembrance Day, negli USA come Veteran Day, in
Francia le Jour de Glorie. Viene celebrato con due minuti di silenzio alle ore
11 dell'11 novembre ("the eleventh hour of the eleventh day of the
eleventh month").
Furono gli inglesi, che a differenza dei francesi non avevano rivincite da celebrare e a differenza degli americani non avevano un loro continente in cui tornare ad isolarsi, a cogliere e testimoniare il senso più profondo di orrore antimilitarista lasciato dalla Prima
Guerra Mondiale, suggerendo a tutte le altre nazioni l’emblema di quella
ricorrenza per gli anni a venire: la corona di papaveri rossi (uno dei pochi fiori
in grado di nascere anche sopra un devastato campo di battaglia) con cui aveva tributato
le esequie a ciascuno dei suoi caduti e che da allora addobba suggestivamente i
cimiteri di guerra in tutto il mondo.
Nel 1935, il governo di Ramsay
McDonalds sottopose ai sudditi di Sua Maestà George V i Peace Ballots, un referendum con cui veniva chiesto al popolo
inglese se a fronte del riarmo tedesco era disposto ad affrontare una nuova guerra.
La risposta fu a schiacciante maggioranza NO, e il primo a prenderne atto fu
proprio Adolf Hitler. Quattro anni dopo, un nuovo quesito – stavolta nei fatti,
non su schede referendarie – si pose sempre davanti ai sudditi di Sua Maestà,
diventato nel frattempo George VI: morire
per Danzica?
La risposta è nota.
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