«Qualsiasi
cosa succeda, il sole domani sorgerà ancora». Soltanto alla fine di una
delle presidenze più deludenti dell’intera storia americana, Barack
Obama sembra trovare le parole giuste per celebrare il momento giusto.
Le ultime, in attesa di passare il testimone a colui a cui meno avrebbe
desiderato farlo, ma la cui vittoria – indiscussa e indiscutibile come
qualsiasi voto popolare in terra statunitense – va accettata come un verdetto
senza appello.
Il sole sorge stamattina sulla
quarantacinquesima presidenza degli Stati Uniti d’America, che
il popolo ha conferito a Donald John Trump, il candidato del
partito repubblicano. Buon garbo vorrebbe che si attendesse lo spoglio
dell’ultima scheda e la proclamazione del risultato ufficiale, ma non pare
proprio che possa ripetersi un caso come quello del 2000, con la vittoria –
contestatissima – di George W. Bush su Al Gore all’ultima scheda della Florida.
Stavolta la maggioranza è netta, talmente
netta che il popolo americano ha ritenuto di corredare la prima amministrazione
Trump del supporto benevolo di una maggioranza del Great Old Party sia
alla Camera dei Rappresentanti che al Senato.
Un verdetto netto, inequivocabile, come più non si poteva. Basta con i Democrats
e le loro politiche che per otto anni hanno sconvolto il mondo, non solo questo
paese. Magari l’America non tornerà più grande come una volta, ma che ci provi
Trump a rimetterla in carreggiata, come ha promesso.
E’ proprio la Florida comunque a sancire
la vittoria repubblicana, anche se la matematica certezza arriva dalla
Pennsylvania. Il 270° grande elettore viene assegnato alle sette di mattina
circa, dopo una notte che solo nelle fasi iniziali aveva confermato le
previsioni più caute che parlavano di un testa a testa tra la Clinton e Trump.
Mentre aveva smentito da subito i sondaggi più o meno pilotati che avevano
assegnato alla signora dei Democratici un vantaggio decisivo già in partenza.
A leggere la mappa del voto, si ha l’idea
della valanga repubblicana, così come si è delineata alle prime luci dell’alba.
Il Midwest è una marea rossa, dove il rosso è il colore
assegnato dai Networks a Donald Trump. A Hillary Clinton vanno le
coste, con il New England e la California
come pezzi pregiati. A Donald Trump vanno la Florida, il Texas,
gli Stati del Sud, tutto il grande mare dell’America che una
volta si chiamava rurale, provinciale. Un fronte popolare variegato,
accomunato probabilmente dalla stanchezza per i problemi che l’amministrazione
Obama ha aggravato più che risolvere, e che quella della Clinton prometteva di
ereditare.
Si ferma per la seconda volta a pochi
metri dal diventare realtà il sogno di Hillary Clinton di essere la prima donna
a sedersi sulla poltrona più accessoriata ma anche più scomoda del mondo. Anche
nel caso di una sua vittoria, l’America avrebbe voltato pagina in modo
significativo. Sarebbe stata una svolta ancora più epocale di quella che aveva
portato Barack Obama alla Casa Bianca otto anni fa, proprio a
scapito di Hillary.
Più che l’onore delle armi, è giusto e
opportuno tributare alla candidata sconfitta il rammarico per un mancato
evento, un esperimento che una parte dell’opinione pubblica sentiva ormai come
doveroso da intraprendere. La ex First Lady paga più che errori o
lacune propri quelli di colui che è stato il suo predecessore, nonché del suo
stesso partito, il cui programma elettorale ed il cui messaggio si sono
rivelati inadeguati ai tempi difficili che l’America, e con lei il mondo
intero, stanno vivendo.
Trionfa l’outsider, quel Donald
Trump che perfino stamattina qualcuno non rinuncia a stigmatizzare dal fronte
avversario come l’oggetto misterioso, il pazzoide finito
nella stanza dei bottoni, il guerrafondaio. Dimenticando non solo la
lezione di Ronald Reagan, ma anche quella del buon senso
spicciolo. Le agenzie di stampa intanto si leccano un po’ ovunque le ferite,
peraltro auto inferte.
Crollano le borse. Se Wall Street
lamenta l’infrangersi di un feeling con il clan dei Clinton e la
probabile fine dell’Era delle Bolle Speculative, le borse europee si
spaventano apprendendo dell’irresistibile ascesa di un soggetto politico che
avrà molta ma molta meno pazienza e comprensione del predecessore per una
Unione Europea e una sua politica bancaria - monetaria che cessa di essere una
spina nel fianco dell’America soltanto quando si dedica ad esserlo per se
stessa. E che comunque per i nostri tempi ed il nostro mondo ha rappresentato
soltanto, nei fatti, instabilità e crisi.
Al di sotto del livello degli Affari, c’è
comunque una opinione pubblica europea che deve prendere ancora le opportune
misure al nuovo corso statunitense. Che incassa l’ennesima lezione di
democrazia e di vitalità nazionale da parte degli americani, andati
tranquillamente a votare ignorando le predizioni apocalittiche scatenatesi un
po’ ovunque a proposito dei fatti di casa loro (ma anche di casa nostra) e
tornati back home, come sempre, con un risultato chiaro e netto, un
Presidente che si insedia tra due mesi ma che già da stasera farà sentire la
sua voce, con un paese che si ricompatta – smaltiti i veleni della campagna
elettorale più dura da tanto tempo a questa parte – per sostenerlo senza se e
senza ma.
Una bella lezione per quella Europa che
Donald Trump ha già fatto sapere di non considerare un entità politica, ma
piuttosto un’espressione poco più che geografica, preferendo disporsi a
trattative con i singoli stati e sulle singole questioni. Dopo la Brexit,
un altro duro colpo a quel Congresso di Vienna dei nostri tempi che appare
sempre di più essere stato il Trattato di Maastricht.
«Tuttavia, ora, alla fine, sono
felice di sapere che si tratterà di un Sole che sorge e non di uno che tramonta»
(George Washington)
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