Ventiquattr’ore
dopo la chiusura dell’Election Day, la terra sta ancora
percossa e attonita al nunzio. La scelta del popolo americano di Donald
John Trump come quarantacinquesimo Presidente dell’Unione è un
qualcosa di cui le nostre élites culturali - e le nostre masse che
vanno dietro di loro di conserva, a ciò sospinte da un analfabetismo di ritorno
sempre più dilagante – non riescono proprio a capacitarsi.
Nasce come battuta sul web, ma
ben presto acquisisce i connotati di un discorso similserio, su cui si getta a
capofitto la sinistra nostrana per darsi pace e soprattutto farsi ragione
dell’ennesima sconfitta incassata da un suo paladino. Hillary Rodham
Clinton non ha perso per sbagli suoi o del partito che rappresentava
nella corsa alla Casa Bianca. Ha perso perché è il popolo
che è sbagliato.
E qualcuno dei nipotini di Berlinguer
già va a riscoprire quei filosofi francesi del Settecento che come Joseph
De Maistre si opponevano all’Illuminismo teorizzando
l’assolutismo regio e aborrendo il suffragio universale.
Ha sempre detto Berlusconi,
uno a cui in questi giorni fischiano le orecchie per essere paragonato e
accomunato – ovviamente nell’esecrazione - al neopresidente americano, che la
sinistra italiana è assolutamente incapace di vincere libere elezioni, ma in
compenso è stata capacissima di egemonizzare l’establishment culturale
nostrano (anche se per certi suoi epigoni parlare di cultura significa
usare una parola grossa). Al punto da infiltrare qualsiasi mezzo di
informazione con velinari di partito che avrebbero la pretesa di chiamarsi
giornalisti, se non addirittura opinion leaders.
Lilli "la rossa" |
A costoro, da diverso tempo a questa
parte, è affidata una poderosa campagna di disinformazione nei confronti di una
massa che non aspetta altro che di credere a novelle all’apparenza ben
confezionate, e tutt’al più esprimerci sopra dubbi o sfoghi più o meno
sgrammaticati su qualche social network.
Così, nel 2011 l’Europa ci chiedeva
di disfarci di un governo liberamente eletto a vantaggio di uno di burocrati e
tecnocrati che non aveva altra legittimazione che la volontà di un anziano
sovrano, presentatosi ad un parlamento imbelle con l’atteggiamento di un Luigi
XIV, lo Stato sono io.
Nel 2014, non contenta, l’Europa ci
chiedeva di metterci sulla testa un enfant prodige, che enfant
lo era di sicuro (per trovare un presidente del consiglio altrettanto giovane
bisognava risalire – guarda caso – a Benito Mussolini), ma prodige
si è dimostrato soltanto nel raccontare favole, quelle favole appunto che poi
una comunità di mass media ormai quasi completamente asservita ha
senza ritegno propinato al popolo.
Nel 2016, annus che si spera
definitivamente e meritatamente horribilis per questa sinistra e per
la sua fabbrica del consenso, è scattata l’offensiva nei confronti di quei soggetti
politici – soprattutto all’estero – che hanno dato segno di volersi ribellare
allo status quo: un’Europa sempre più lebensraum tedesco,
un’America avvitata su se stessa dall’Obamacare e dal
perseguimento di politiche sempre più avventuristiche ed antieconomiche sullo
scacchiere mondiale.
Ecco quindi la certezza della sconfitta
della Brexit, poi dopo l’assoluta certezza della vittoria
della Clinton, con un Clintoncare già pronto a perpetuare l’Obamacare
e tutti felici e contenti con il limone in bocca ed il rametto di prezzemolo
non diciamo dove, pronti a farci mangiare dai rispettivi migranti che di
povero, a vederli bene, hanno solo la padronanza della nostra lingua con cui ci
gratificano di stronzi razzisti. Due sonore batoste, alla fine, poiché
il vento è cambiato e perfino il cantastorie Renzi ha
percepito che è l’ora di cantarle a questa Europa, se non è troppo tardi.
Altrimenti restiamo una volta di più con l’Asse Roma – Berlino,
di cui siamo il fianco debole tra l’altro, come sempre.
De Benedetti, che avrebbe tanto voluto essere Berlusconi |
Ma per una Kultura sinistrorsa,
abituata da decenni alle veline del partito e ai tatticismi del centralismo
democratico applicati ultimamente all’incultura delle nuove leve, una
giravolta così brusca è difficile, se non impossibile. Non tutti hanno
l’improntitudine del lider maximo. Non tutti sono pronti a
riposizionarsi su nuove roccaforti ideologiche o di interesse, e soprattutto in
nuove testate non più di segno tendente al rosso.
E così, a fare zapping tra i
canali, capita di sentire discorsi in libertà, senza freno a mano. La decana
dell’informazione italiana schierata Lilli Gruber intervista
per esempio De Benedetti, il decano dei capitalisti italiani
incapaci e falliti, che conciona senza contraddittorio sull’America (un paese
dove ormai non gli darebbero neanche il permesso di soggiorno turistico) e
soprattutto sull’Italia (paese che conosce ormai ancor meno, per sua stessa
ammissione). Volano parole grosse, discorsi che per comuni mortali comporterebbero
sicuramente querele e accuse di vilipendio, ma che loro – membri di diritto
dell’establishment informativo culturale, tessere numero uno e due
di quel partito democratico senza di cui sarebbero a lavorare
sul serio o a rispondere di se stessi e del proprio operato da tempo – possono
tranquillamente permettersi.
Donald Trump quindi è un imbroglioncello,
apprendiamo, come il nostro Berlusconi. E via così. A capire le ragioni
profonde del popolo americano, che poi sarebbero anche le nostre, i sedicenti
giornalisti e opinionisti hanno rinunciato da tempo.
Vanno ad intervistare Giorgio
Napolitano, ex presidente della repubblica mai abbastanza ringraziato
per il coup de theatre, chiamiamolo così, con cui chiarì al mondo
intero che cos’è la democrazia nel suo paese, e lui non si perita a definire
per parte sua la vittoria di Trump come «l’evento più sconvolgente da
quando esiste il suffragio universale». Adesso è tutto più chiaro, a
cominciare dal perché lui stesso si sia fatto a suo tempo parte diligente nell’abolirlo
di fatto, qui in Italia.
Un mondo a parte, che potremmo liquidare
con la frase significativa e sprezzante di Guido Crosetto:
«Giornalisti che non hanno capito nulla del paese dove vivono e lavorano,
adesso sono diventati improvvisamente esperti di Stati Uniti d’America».
Già, gli Stati Uniti. Non ci abbiamo mai
capito veramente granché, nonostante la pretesa amicizia storica
ribadita dall’ineffabile Renzi. Non abbiamo mai compreso l’essenza della
democrazia americana, così lontana dalla nostra versione miserabile. Non
abbiamo mai compreso perché laggiù quel popolo che ci piace pensare e definire
ad alta voce rozzo e così poco intelligente ha portato a casa
da due secoli il miglior sistema di controllo dei propri governanti che la
razza umana abbia mai elaborato.
Mandiamo laggiù un Vittorio
Zucconi a svernare per decenni, e ci torna indietro più comunista
di prima. Fin qui, poco male, l’antiamericanismo che si
rinfocola dalle nostre parti ad ogni minima occasione viene da lontano, e
travalica gli Zucconi stessi. Nasce dal fascismo e con il 25
aprile viene travasato pari pari nel comunismo senza
soluzione di continuità. Per molta parte della nostra pubblica opinione, quel
25 aprile è stato ed è più o meno inconsciamente una sconfitta. E gli americani
sono oppressori, anziché coloro che ci hanno vivaddio regalato il
fatto di non dover festeggiare pochi giorni fa in camicia nera e orbace il
novantaquattresimo anniversario della Marcia su Roma.
Paradossalmente, quel popolo che la
sinistra italiana vorrebbe adesso esautorare (ma più che gli atti di
Napolitano, il Decreto Boschi e l’Italicum,
che altro vorrebbe fare?) nutre le sue idee più strampalate proprio nella base
elettorale del PD, che di quella sinistra pretende di essere
la legale rappresentanza. Quel popolo che dalle sette di ieri mattina si è
disposto ad aspettare – come da direttive più o meno esplicite dei suoi opinion
leaders e funzionari di partito – la terza guerra mondiale scatenata dal sessista,
omofobo, xenofobo Trump.
E allora, come si mette? De Maistre
proponeva di levare il voto a tutti. Che Maria Elena Boschi si
sia messa a studiarlo, in previsione delle prossime riforme se e qualora
sopravvivesse al SI o NO del 4 dicembre prossimo venturo?
Intanto Renzi manda avanti Alfano,
con le sue tastate di terreno nei confronti della classe politica e dei
cittadini, in previsione di correzioni di tiro che forse anche per lui è troppo
tardi per adottare. Ogni volta, infatti, il prode Alfano gli ritorna a casa con
il viso segnato da un ceffone a tutta mano.
Ma lui non demorde. Via tutte le foto con
Obama, adesso ritoccherà con Photoshop quelle di Salvini
con Trump, sostituendosi al segretario della Lega Nord.
Intanto la Boschi è fissa in TV a dettare i tempi televisivi a collaboratori
fidati come la Gruber. Da qui al 4 dicembre p.v. si spera che qualche santo
aiuti, o qualche altra calamità intervenga. E di trovare anche qualche
soldarello per le esauste casse dello Stato mettendo in conto all’Europa anche
il terremoto del Belice. Nel frattempo, i sondaggisti danno il
Si in lenta ma inesorabile rimonta.
Se tanto ci da tanto, il No ce
la dovrebbe fare. Anche malgrado il supporto di Massimo D’Alema.
E poi ci sembrano strani gli americani.
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