Ci sono delle maglie che sarebbe
meglio se fossero ritirate, dopo essere state indossate da fuoriclasse
assoluti, per non doverle vedere poi addosso ad altri inevitabilmente non
all’altezza. A Napoli, la società è stata a lungo in dubbio se fosse meglio ritirare
la maglia n.10, dopo averla messa sulle spalle di Diego Armando Maradona. Il
Santos decise di farlo senz’altro, dopo Pelé. A Firenze, ogni volta che c’è da
riassegnare il 10 ai tifosi piglia male. E’ un vecchio dibattito, che non avrà mai
fine. Fa parte del gioco.
Andare al Quirinale dopo Sandro
Pertini era un po’ come ereditare la maglia di Giancarlo Antognoni alla
Fiorentina. Chiunque sarebbe uscito penalizzato dal confronto. Quando il Presidente
più amato dagli italiani nel giugno del 1985 arrivò alla scadenza del suo mandato,
nessuno si illudeva di trovargli un successore all’altezza. Men che meno le
forze politiche dell’epoca, che anzi avevano sofferto parecchio, pur senza
poterlo ammettere, l’enorme carisma e la travolgente popolarità dell’ex partigiano
socialista, al cui confronto la politica tradizionale che esse rappresentavano
era sembrata ogni giorno di più incolore e mal digeribile.
E infatti, quasi per un
contrappasso di cui avvertivano la necessità, andarono a scegliere una figura
che secondo loro si poneva all’estremo opposto di Pertini. Incolore come loro,
nel solco di quelle presidenze notarili per le quali la Costituzione era stata
disegnata.
Francesco Cossiga era conterraneo
di Antonio Segni, ed aveva la stessa formazione giuridica. Le analogie non
sembravano finire lì. Era nato a Sassari anche lui, ma da famiglia
medio-borghese, imparentata con i Berlinguer. Era cugino di terzo grado di
Enrico, e per quanto capitati su fronti decisamente avversi, i due si
rispettarono sempre per tutta la vita. Quando il cugino divenne il segretario
del più grande Partito Comunista d’occidente, Cossiga entrò nel giro dei
democristiani che contavano, quelli a cui andavano gli incarichi di governo più
ambiti e prestigiosi.
con Aldo Moro |
Fu il più giovane sottosegretario
alla difesa di sempre, alle dipendenze del Ministro Andreotti nel terzo Governo
Moro, nel 1966. Da lì in poi fu una irresistibile ascesa. Uomo da sempre legato
all’Esercito, alla Marina (era capitano di fregata) e ai Servizi Segreti (solo
alla caduta del Muro di Berlino venne fuori il suo coinvolgimento nell’organizzazione
della struttura segreta in funzione anti-sovietica denominata Gladio, nonché
nella messa a tacere delle rivelazioni più scottanti circa il Piano Solo del
Generale De Lorenzo), le sue competenze ministeriali andarono sempre equamente
ripartite tra l’Interno e la Difesa.
Se la famiglia Cossiga aveva
potuto esibire a buon diritto una indiscutibile patente di antifascismo dopo la
fine della guerra, il suo rampollo Francesco fu spesso accusato di metodi
fascisti nell’esercizio delle sue funzioni. Negli anni settanta, il suo nome veniva
scritto sui muri d’Italia con la K e la doppia S runica, a richiamare le Shutzstaffeln
di Hitler. Non si faceva scrupolo di usare metodi repressivi nei confronti
delle ricorrenti manifestazioni studentesche che alla metà degli anni settanta infiammavano
le città italiane.
E’ rimasto famoso l’uso dei mezzi
meccanizzati dell’esercito contro gli universitari a Bologna, dopo l’omicidio
del militante di Lotta Continua Lorusso, o la disposizione successiva che
vietava per un lungo periodo manifestazioni pubbliche. Disposizione disattesa,
per la reazione al mai chiarito omicidio della militante radicale Giorgiana Masi
a Ponte Garibaldi a Roma, che dette il via ad un ritorno di fiamma negli
scontri con le forze dell’ordine.
Ma il destino del Cossiga
Ministro dell’Interno non fu segnato da questi eventi, bensì dall’esito del
sequestro Moro. Cossiga reagì fulmineamente ai fatti di Via Fani nominando ben
due comitati di crisi e scatenando una caccia all’uomo che purtroppo non dette
esito. Dopo Via Caetani, non appena il cadavere di Aldo Moro fu trovato nel
bagagliaio della R4 rossa, Cossiga dette le dimissioni, unico caso simile nella
storia della Repubblica. E dimostrò che nell’uomo il cui nome veniva scritto in
caratteri runici c’era molto di più che un aguzzino del popolo.
con Margaret Thatcher |
L’anno dopo fu nominato
Presidente del Consiglio, carica che mantenne per un anno, finché nuovi
scandali lo travolsero. Dopo l’estate del 1980 equamente e tragicamente divisa
tra la strage di Ustica e quella di Bologna, vennero le accuse (sollevate dal
PCI del cugino Berlinguer) di favoreggiamento per l’amico e collega Carlo Donat
Cattin, il cui figlio Marco era un terrorista militante che grazie ad una soffiata
riuscì a sottrarsi all’arresto e ad espatriare. Cossiga dovette dimettersi, e
anni dopo fece anche qualche parziale ammissione di responsabilità in quella
vicenda.
Dopo anni opportunamente passati
lontano dai riflettori per rifarsi una immagine, all’inizio della Legislatura
del 1983 fu nominato Presidente del Senato, funzione che svolse in modo
assolutamente notarile, come gli veniva richiesto e come era del resto in
alcune delle corde del professore di diritto che in fondo era. E quando nel
1985 al segretario DC Ciriaco de Mita servì trovare un successore a Pertini che
ne fosse più distante possibile, ecco venirgli l’idea di far eleggere questa
figura ormai incolore, talmente slavata da risultare oggettivamente super
partes e assolutamente innocua per un sistema dei partiti che sotto
l’apparente floridità (erano gli anni del CAF, Craxi, Andreotti e Forlani)
nascondeva già delle crepe consistenti.
L’elezione di Francesco Cossiga a
Presidente della Repubblica fu la più veloce della storia, al primo scrutinio e
a maggioranza dei due terzi, votato anche da quel PCI che una volta aveva
chiesto la sua messa in stato di accusa, e che sarebbe ritornato a farlo. I
primi cinque anni del suo settennato furono altrettanto incolori, inodori e
insapori dei suoi anni alla Presidenza del Senato. Il calcolo di De Mita
sembrava essersi rivelato giusto, e l’uomo che una volta aveva terrorizzato le piazze
studentesche e operaie d’Italia adesso sembrava diventato un emulo postumo di presidenti
notai come Einaudi, Saragat, Leone.
con Giulio Andreotti |
In realtà, poiché non si può fare
violenza alla propria storia e al proprio carattere, il temperamento dello
statista sardo covava come brace sotto la cenere. Aspettava solo l’occasione
giusta, che si presentò subito dopo la caduta del Muro di Berlino, e la fine
insieme alla Guerra Fredda di quello che per Cossiga era stato l’avversario di
una vita, il nemico da combattere con ogni mezzo, meglio se militare.
Se la Costituzione attribuiva al
Presidente della Repubblica il potere di esternazione, di inviare cioè
al Parlamento messaggi in cui manifestava il suo pensiero sulle questioni
politiche di attualità, Cossiga ne iniziò a fare un uso smodato, e ben presto
travalicò quella che era la lettera della carta costituzionale. I suoi discorsi
di denuncia del sistema dei partiti e dell’apparato dello Stato sottostante
alla politica e al mantenimento dell’ordine pubblico, non più giustificato
dalla fine della contrapposizione tra le Superpotenze e troppo costoso per la
collettività come l’inchiesta Mani Pulite avrebbe dimostrato di lì a poco,
divennero una forza d’urto decisiva per travolgere quel sistema e decretare la
fine della Prima Repubblica. L’Esternatore divenne il Picconatore,
e i suoi colpi di piccone calarono sempre più inesorabili sui palazzi della
politica, di fronte a un paese che cominciava a risvegliarsi e a rendersi conto
della corruzione e dell’inefficienza dei suoi rappresentanti.
Le sue polemiche scatenarono
reazioni sempre più virulente, andando a prendere di mira non soltanto
Parlamento e Governo, ma anche la magistratura (famosa l’invettiva sui giudici
ragazzini, a cui dette purtroppo risonanza l’omicidio mafioso del giudice
Rosario Livatino) ed il CSM che formalmente presiedeva. Cossiga si ritrovò
solo, con l’unica eccezione del Movimento Sociale Italiano, che orfano del
segretario storico Giorgio Almirante e sotto la fresca leadership del
giovane rampante Gianfranco Fini vide nel sostegno al Presidente l’occasione
finalmente per sdoganarsi ed entrare nell’arco costituzionale.
Dopo lo scalpore suscitato dalle
rivelazioni su Gladio (o Stay Behind, come era chiamata negli
ambienti della NATO) e uno scontro frontale con l’intero sistema politico in
cui non c’era più esclusione di colpi, alla fine del 1991 vari esponenti del
PCI, dei radicali e di altre forze politiche più o meno dell’area di sinistra
presentarono in Parlamento mozioni per la sua messa in stato di accusa, prendendo
a pretesto proprio la vicenda Gladio, ma in realtà avvertendo la
necessità di regolare i conti con il Picconatore a trecentosessanta gradi. Il 3
febbraio 1992 la commissione parlamentare giudicante dispose l’archiviazione
dei procedimenti, per manifesta infondatezza.
Per il Presidente della
Repubblica non ci fu tempo né bisogno di cantare vittoria. Due settimane dopo,
un giovane magistrato della procura di Milano, tale Antonio Di Pietro
sorprendeva il mariuolo Mario Chiesa con le mani in una tangente nel Pio
Albergo Trivulzio. Nessuno lo sapeva ancora, ma era cominciata Mani pulite, che
avrebbe travolto in un anno e mezzo la Prima Repubblica italiana e quasi tutti
i partiti che le avevano dato vita. E se la gente si dimostrò desiderosa di
vedere l’esito dell’inchiesta fino al punto di sconfinare nel tifo da stadio,
fu anche grazie alla preparazione dell’opinione pubblica operata dalle
picconate di Francesco Cossiga.
Il quale decise improvvisamente
di dimettersi il 28 aprile 1992, con due mesi di anticipo sulla scadenza del
mandato, ma in tempo utile per consentire che elezioni politiche ed elezione
del Presidente non si sovrapponessero. Alla fine il Picconatore era ritornato
al punto di partenza, un costituzionalista preoccupato del corretto
funzionamento delle istituzioni. Che dopo di lui, con buona pace di chi l’aveva
fatto eleggere perché facesse dimenticare il presidenzialismo di Pertini, non
sarebbero mai più state le stesse.
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