Moriremo democristiani. Sergio
Mattarella è il dodicesimo Presidente della Repubblica Italiana. L’applauso
parte alle 12,58, allorché la presidentessa del Parlamento in seduta comune
Laura Boldrini legge per la cinquecentocinquesima volta il suo nome sulle
schede scrutinate a seguito della quarta votazione, la prima nella quale è
sufficiente la maggioranza assoluta e non più quella dei due terzi.
In realtà, i consensi ottenuti dal
professore palermitano ammontano alla fine dello scrutinio a ben 665, quasi il
numero necessario a farlo trionfare già alla prima votazione. Ma le prime tre
votazioni sono servite alla nostra classe politica per regolare tutti i conti
in sospeso al proprio interno, e per stabilire quelli che saranno in sospeso
nel prossimo futuro. Così funzionano le cose nella nostra democrazia “parlamentare”.
E’ una delle elezioni più veloci
della storia d’Italia. I giorni della Merla sono stati sufficienti a stabilire
chi sarà il capo dello stato dal 2015 al 2022, raccogliendo la difficile
eredità di Giorgio Napolitano. E anche a stabilire il fatto che la si può
chiamare come si vuole, la si può riformare quanto si vuole (o far finta di
farlo): la Repubblica, seconda o terza che la si voglia definire, in realtà è
sempre la prima.
La Balena Bianca risorge dalle
sue ceneri riportando un suo uomo al Quirinale 16 anni dopo Oscar Luigi
Scalfaro. Non è un caso che tra i pochi passanti intervistati dai media in
Piazza Montecitorio l’unica cosa di positivo che cittadini distratti trovano da
dire a elogio del neo-Capo dello stato è un aggettivo qualificativo tra i più
generici e tra i più abusati in questo paese: è una persona “onesta”. Stessa
cosa si disse di Scalfaro, stessa mancanza di altre qualità, umane e politiche,
da farsi venire alla mente, così su due piedi.
Sergio Mattarella è un politico
di lungo corso, la cui carriera cominciò forse il giorno in cui il fratello
Piersanti, allora presidente della Regione Sicilia, fu ucciso dalla mafia in un
agguato il giorno dell’Epifania del 1980. La famiglia Mattarella era allora
considerata a Palermo una sorta di famiglia Kennedy locale, un po’ come i
Matarrese a Bari. Il padre Bernardo era stato il capostipite della dinastia
politica, ministro nei governi De Gasperi. Era stato per la verità accostato
anche ad ambienti e personaggi meno raccomandabili, Gaspare Pisciotta – ex
braccio destro del bandito Salvatore Giuliano – aveva fatto il suo nome tra i
responsabili dell’eccidio di Portella delle Ginestre, la strage mafiosa di
braccianti avvenuta il 1° maggio 1947 nell’isola. Le responsabilità di
Mattarella senior non erano poi state peraltro confermate da nessuna indagine
successiva.
Per quanto le vicende della
Democrazia Cristiana in Sicilia necessitino da sempre del ricorso alla massima
cautela in sede di analisi storica, nessuno ha invece mai avuto dubbi che il
figlio maggiore Piersanti sia stato nient’altro che la prima vittima di quel
bagno di sangue immane che portò all’inizio degli anni 80 i Corleonesi ad
assumere la leadership della mafia siciliana e della guerra successiva allo
Stato.
Il 6 gennaio del 1980 il giovane
professor Sergio decise di seguire le orme del fratello Piersanti appena
crivellato di colpi dal killer delle cosche. E lo fece nell’unico partito
possibile, almeno dalle sue parti. Sergio Mattarella, ordinario di diritto
all’Università di Palermo, divenne ben presto un notabile dello Scudo Crociato.
E lasciò subito un segno di sé sulla Repubblica che un giorno sarebbe stato
chiamato a guidare. Nel 1990 fu tra i ministri del Governo Andreotti che si
dimisero per protesta contro la Legge Mammì, quella che in pratica consacrò
l’esistenza delle reti Mediaset a pieno titolo e a pari peso con la RAI.
Nel 1993 fu l’autore della
proposta di legge di riforma del sistema elettorale che prese il suo nome. Il
Mattarellum dette in apparenza attuazione al referendum consultivo con cui gli
elettori italiani avevano chiesto la sostituzione del sistema elettorale
proporzionale con quello maggioritario. Ma lo fece alla maniera democristiana,
lasciando una quota proporzionale del 25% che era volutamente una mano tesa
alla Balena Bianca ed agli altri partiti della prima repubblica che di lì a
poco avrebbero visto stilare il loro certificato di morte. Almeno in apparenza.
Nel ventennio in cui la vita
politica italiana è stata egemonizzata da quel Silvio Berlusconi il cui impero
economico Sergio Mattarella avrebbe voluto strozzare nella culla molto
volentieri, il professore onorevole si orientò verso un cursus honorum
giudiziario. Dapprima membro di vari comitati parlamentari, poi giudice
costituzionale, era uno di quei post-democristiani a cui i post-comunisti
avevano consegnato da tempo le chiavi del partito democratico. Inevitabile che
il suo nome ricorresse più o meno ad ogni elezione presidenziale degli ultimi
decenni, e che prima o poi risultasse essere quello giusto. L’attuale
segretario del PD, il Renzi triumphans di cui parlano le cronache degli ultimi
mesi e soprattutto degli ultimi giorni, è uno stesso esponente della sua specie
politica, a cui non è parso vero di giocare una carta (peraltro accuratamente
tenuta nascosta fino all’ultimo) così facile e così produttiva.
Matteo Renzi esce da Montecitorio
accreditato di una vittoria clamorosa, con corrispondente sbaraglio di tutti
gli altri attori, amici o nemici che siano. La scelta di ricompattare un
partito democratico che già in occasione delle precedenti elezioni presidenziali
aveva mostrato di cosa era capace (soprattutto contro se stesso) appare pagante
nell’immediato, anche se lo riconsegna in ostaggio di quella minoranza interna
e di quell’alleato – o presunto tale – esterno, il S.E.L. di Vendola, che
presto gli presenteranno il conto.
Silvio Berlusconi viene dato per
il maggiore sconfitto di questa tornata elettorale presidenziale. In realtà, il
leader di Forza Italia sconta in parte la sua condizione di capo politico in
libertà vigilata, almeno finché la sentenza Mediaset produrrà i suoi effetti.
Sconta inoltre l’assenza di scrupoli e la spregiudicatezza del suo giovane
epigono toscano, che se da un lato fa il paio soltanto con quella mostrata da
lui stesso ai tempi d’oro, dall’altro si spinge fino a tirare la corda del
cosiddetto Patto del Nazareno alla massima tensione possibile. Cosa succederà
quando – presto, ad occhio e croce – il presidente del consiglio Renzi avrà
bisogno per le sue riforme e le sue leggi e leggine dei voti di Forza Italia in
sostituzione di quelli che il suo partito tornerà a fargli mancare? A Silvio, o
a chi per lui, l’ardua sentenza.
Sono ben più rotte comunque le
ossa con cui escono Angelino Alfano e il Nuovo Centrodestra da queste giornate
della Merla. L’ex delfino di Berlusconi ha dimostrato una disponibilità al
compromesso degna di un Mastella d’annata. E una capacità di sottomissione ai
diktat di Renzi (o Mattarella o fuori dal governo) che ne hanno fatto
giustamente – secondo una definizione estremamente azzeccata proveniente dal
Transatlantico di Montecitorio – lo Schettino di questo Quirinale 2015.
Il resto dell’emiciclo resta
seduto mentre la Grosse Koalition applaude Sergio Mattarella Presidente della Repubblica.
Ma se la Lega esce dall’aula con la faccia pulita di Matteo Salvini che si è
chiamato fuori per tempo da questa sceneggiata in seduta comune e che potrà
presentarsi con buone chance davanti ad un paese/elettorato che vi ha assistito
distratto e sconcertato dai riti di una Casta ormai impresentabile, il
Movimento Cinque Stelle si consacra ormai come quella banda sbandata che da due
anni a questa parte non ne indovina più una, chiuso nel suo Aventino mediatico.
A Sergio Mattarella contrappone infatti un altro arnese da prima repubblica
come Ferdinando Imposimato, un altro che in questo paese ha contribuito tra l’altro
a mantenere diritto e giustizia sulla falsariga della messa in latino prima del
Concilio Vaticano II. Più fastidioso dell’atteggiamento dei grillini c’è solo
la voce monocorde di Laura Boldrini, che officia questo rito circondata esclusivamente
dalle sue ancelle.
Chissà se c’è uno soltanto dei
1.008 grandi elettori che si chiede stasera, mentre si affretta al paesello
natio (a spese dello Stato) ed al meritato riposo, se quel rito officiato nella
Basilica di Montecitorio abbia ancora un senso per la plebe immensa ammassata
nei villaggi e nelle piazze italiane, che si vede nominare da un senato ormai
discreditato al massimo questo ennesimo imperatore scovato nelle aule sorde e
grigie di un potere lontano, ingiustificabile, osceno ai più.
E mentre Sergio Mattarella, con
la sua aria un po’ sinistra e un po’ sorniona, che sembra dire “ho visto cose
che voi umani non potete immaginare”, si appresta a vivere i suoi ultimi due
giorni da privato cittadino prima del giuramento da prestare lunedi prossimo alla
Camera, neanche un giornalista che gli chieda – e si chieda – come mai non
abbia nemmeno da fare la fatica di recarsi al Quirinale dopo quel giuramento.
Perché ci vive già. Nella foresteria, come gli spetta in quanto giudice
costituzionale. O tempora o mores.
La settimana che si è aperta con
le elezioni in Grecia si chiude con quelle del Presidente in Italia. Domenica
il popolo ellenico è andato a votare, lunedi ha proclamato la vittoria di
Alexis Tsipras, che martedi ha giurato e si è insediato. E venerdi ha già
denunciato tutti gli accordi capestro con la Trojka europea e i vari Quisling
della Germania. Che differenza con il nostro Matteo Renzi, uno di quei Quisling
che nessuno ha votato, che nei giorni della Merla ha fatto eleggere presidente
un altro che come lui ha visto giorni migliori e che probabilmente vorrà
rivederli.
Moriremo DC.
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