Il 2 giugno 1946 il popolo
italiano avente diritto al voto (donne comprese, per la prima volta nella
storia d’Italia) stabilì che la forma di governo della Nazione non sarebbe
stata più una monarchia, ma bensì una repubblica, ed elesse una Assemblea con l’incarico
di elaborare una nuova Costituzione che sostituisse il glorioso, ma logoro e
non più adatto ai tempi Statuto Albertino. Conseguentemente, Umberto II di
Savoia il Re di
Maggio si caricò sulle spalle le
colpe di tutta la sua reale famiglia e si imbarcò per un esilio da cui non sarebbe
più tornato (l’avrebbero fatto i suoi eredi molti anni dopo), a Oporto, in Portogallo.
Umberto II di Savoia |
Il suo posto al Quirinale
fu preso, come capo dello Stato provvisorio e di fatto primo Presidente della
Repubblica Italiana, da un avvocato napoletano che aveva già avuto esperienza
politica e ricoperto cariche istituzionali nell’Italia prefascista. Enrico De Nicola
era un predestinato, un primo in molte cose, e lo fu
anche nel cursus
honorum politico. Dal 1920 era stato
Presidente della Camera dei Deputati nell’ultima legislatura prima dell’incarico
di governo a Mussolini. Come molti liberali, inizialmente De Nicola aveva visto
nel futuro Duce un freno provvidenziale alla marea rossa,
un male necessario, ma minore rispetto ai tempi che correvano. Come molti
liberali, tra cui il suo conterraneo ed amico Benedetto Croce, dovette
ricredersi più o meno all’epoca del Delitto Matteotti, e ritirarsi in un Aventino
lungo più di vent’anni.
Decaduto nel 1924 per non
aver prestato giuramento ad uno Stato che ormai prescriveva di indossare la
camicia nera, arrivò con la reputazione intatta al dopoguerra, e parve ai
costituenti la persona ideale per rappresentare un paese emerso da un disastro
e profondamente spaccato nelle sue varie anime: i monarchici che contestavano brogli
nel referendum, le sinistre che subivano la pericolosa deriva sovietica e che però
avrebbero accettato un liberale di prestigio (il primo candidato era stato lo stesso
Croce), le destre e la neonata DC che volevano la maggior continuità possibile
con lo stato sabaudo (il candidato era stato Vittorio Emanuele Orlando, il
presidente del consiglio della vittoria nella prima guerra mondiale).
De Nicola fu la soluzione
di compromesso, che consentì alla Repubblica di uscire dalla delicata fase post partum (in quegli anni peraltro si calcolava che quattro
neonati su dieci non superassero le prime settimane di vita), e che malgrado
avesse neanche tanto segretamente sperato di essere riconfermato nelle elezioni
presidenziali successive al 1° gennaio 1948 (data di entrata in vigore della
Costituzione), finì per abbandonare il Quirinale con stile migliore di diversi
suoi successori. Primo senatore a vita della repubblica, divenne dapprima
Presidente del Senato
e poi nel 1955 primo
Presidente della neonata Corte Costituzionale. Un cursus honorum difficilmente superabile, anche nei tempi a venire.
Enrico De Nicola |
La Costituzione del 1948
stabiliva (e stabilisce tutt’ora) che il Presidente della Repubblica è eletto
dal Parlamento in seduta comune presieduto dal Presidente della Camera dei
Deputati e con l’aggiunta dei delegati dei Consigli Regionali, tre per ogni
regione meno la Val d’Aosta che ne esprime solo uno. L’art. 83 della
Costituzione fu voluto espressamente così dai Padri Costituenti, preoccupati di
evitare che nell’Italia post-fascista si ricostituisse un Esecutivo forte. La
Repubblica doveva essere parlamentare, non presidenziale. Il Presidente e il
governo dovevano essere eletti dal Parlamento, non da una investitura popolare
diretta (come nelle principali democrazie occidentali), perché non succedesse
in futuro che una folla volubile cadesse di nuovo preda di demiurghi contro i quali
la fragile democrazia italiana non sarebbe stata forse più forte del regno
sabaudo.
Il problema era che la
legge costituzionale che regola l’elezione del Presidente, nell’intento di
farne una figura condivisa da tutte le forze politiche e super partes, richiede per questa elezione una maggioranza di due
terzi per le prime tre votazioni, e comunque una maggioranza assoluta dalla
quarta in poi. E siccome in Italia la maggioranza assoluta non l’ha mai avuta nessun
partito (anche beneficiando dei cosiddetti premi di maggioranza), il Presidente
della Repubblica è sempre stato frutto di compromessi faticosissimi.
Il
successore di De Nicola fu il giornalista economista Luigi Einaudi, ordinario
di Scienza delle Finanze all’Università di Torino. La DC che nel 1948 subiva la
fortissima e indiscussa leadership di De Gasperi ed il
candidato prescelto che per i suoi trascorsi filo-socialisti turatiani era ben
visto dal Fronte Popolare socialcomunista consentirono l’elezione di Einaudi al
quarto scrutinio. Era comparso il fenomeno dei franchi tiratori, che avrebbe
funestato le elezioni successive, ma si trattò ancora di un fenomeno
circoscritto.
Luigi Einaudi |
Luigi Einaudi era un
economista liberal, non certo un keynesiano. Lo Stato doveva rimanere
fuori dell’economia, della sua collaborazione con la rivista Critica Sociale di Filippo Turati era rimasto poco o nulla all’epoca
della sua maturità politica e della sua presidenza. Il suo liberismo esaltava l’iniziativa
privata, e andava a pennello per un paese che doveva affrontare il problema
della Ricostruzione. La sua frase storica, “I guai cominciano quando si spende
una lira in più di quello che si guadagna”, dettò anche un modello di comportamento
per Governo e Pubblica Amministrazione che non sarebbe stato destinato ad avere
seguito negli anni a venire.
Nel 1955, non c’era più De
Gasperi al timone della Democrazia Cristiana, ma bensì l’enfant prodige dell’epoca, Amintore Fanfani, esponente della corrente
di sinistra. E dalla sinistra DC andò a pescare il candidato presidente. Giovanni
Gronchi era uno che veniva da lontano. Toscano di Pontedera, era stato
esponente di spicco del partito Popolare di Don Sturzo, uno dei triumviri che
resse il partito dopo che il prete scomodo fu costretto alle dimissioni dal Vaticano.
Partecipò all’Aventino e fu dichiarato decaduto da parlamentare dalle leggi fascistissime.
Giovanni Gronchi |
Nel 1942 fu tra i partecipanti agli incontri segreti
da cui prese il via la Democrazia Cristiana, di cui fu esponente all’Assemblea
Costituente. Fu Presidente della Camera dei Deputati, e alla metà degli anni
cinquanta era un esponente di spicco di quella corrente DC che guardava con
antipatia agli alleati americani e con simpatia al PSI, che si cercava di
separare dai compagni comunisti in un’ottica già proiettata verso il
centrosinistra.
Gronchi fu eletto al quarto
scrutinio, e fu il presidente dell’Italia che si avviava verso il boom economico. Giovanni al Quirinale, e Giovanni (XXIII)
in Vaticano assicurarono all’Italia un periodo in cui speranza e fiducia
sembravano aprire orizzonti assai rosei. L’idillio era tuttavia destinato a
finire presto. Il Presidente Gronchi venne ben presto chiacchierato per sue
presunte partecipazioni ad affari economici da cui la sua alta carica avrebbe
dovuto tenersi fuori, e per un atteggiamento complessivo a volte fin troppo
disinvolto.
Ma soprattutto, il centrosinistra si dimostrò un affare molto più complicato
del previsto da condurre in porto, non solo per le resistenze americane, ma
anche per quelle interne. Nel 1960 incaricò del governo uno dei suoi DC di
sinistra, Fernando Tambroni, che nella situazione conflittuale che viveva il
partito in quel momento non trovò di meglio che andare a cercare i voti
necessari per la maggioranza a destra, in quel M.S.I. che aveva raccolto l’eredità
fascista di Salò. Gli scontri violenti che ne seguirono in tutta Italia furono
la pietra tombale sulle ambizioni di rielezione di Gronchi, che nel 1962
raccolse i voti soltanto di pochi franchi tiratori.
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