Luglio 2011. Il superministro
dell’Economia Giulio Tremonti annuncia al paese che la locomotiva Italia non ha
mai tirato così forte e che l’economia del nostro paese è tra le più sane e
solide del mondo. Gli italiani possono andare in ferie tranquilli, la crisi è
un’invenzione di chi vuole minare l’azione di governo e con essa i buoni
effetti sulla ripresa italiana dopo le bolle speculative americane del periodo
2007-09.
Gli italiani in ferie ci vanno,
più o meno tranquilli come sempre, al massimo al ritorno - credono - troveranno
qualche balzello in più o qualche bolletta rincarata, come sempre. E’ difficile
peraltro non credere a un Tremonti apparso fino a quel momento un genio della finanza
mondiale, uno dei probabili prossimi Premi Nobel per l’Economia.
Al ritorno, gli italiani trovano
la crisi economica più spaventosa della loro intera storia. E un Presidente
della Repubblica che con volto grave e voce costernata annuncia che il paese si
trova sull’orlo di un baratro a cui confronto l’8 settembre era roba da
ragazzi. Che l’Europa – prima ancora che la nostra dignità nazionale e la
necessità di assicurare un futuro alle prossime generazioni – ci chiede scelte
dolorose, difficili e irrinunciabili.
E’ un uomo da sempre amante della
retorica Giorgio Napolitano. Avrebbe fatto la sua figura nell’epopea
risorgimentale o dannunziana, i suoi discorsi avrebbero rivaleggiato con quelli
di Camillo Benso Conte d Cavour, di Vittorio Emanuele II, di Francesco Crispi o
perfino del Vate, nei suoi momenti più alti ed ispirati. Ebbene, ci
vuole tutta la sua retorica migliore per far digerire ad un popolo italiano
frastornato, stordito da un precipitare di una situazione che neanche credeva
esistesse tutta una serie di cose che in altri tempi e soprattutto in altri
luoghi avrebbero forse scatenato reazioni di piazza o altre manifestazioni di
quelle che solitamente vengono associate al termine democrazia.
Margaret Thatcher è stata uno dei
più forti Premier della storia inglese, eppure fu abbattuta da una serie di
dimostrazioni popolari allorché la gente comune nel suo paese decise che la Poor
Tax andava contro il diritto comune e la stessa giustizia. Parigi ogni
pochi anni rivede le barricate nelle strade, allorché il governo francese si
azzarda a riproporre qualche provvedimento impopolare, come la contestatissima riforma
della scuola superiore che, insieme ad altre cose, nel 2005 costò la poltrona
al primo ministro Raffarin.
In Italia, nel mese e mezzo circa
che occorre alle Istituzioni per informare il popolo che da locomotiva siamo improvvisamente
diventati fanalino di coda dell’Europa, appena un gradino sopra delle Grecia in
bancarotta e costretti per sopravvivere ad adeguarsi a una serie di diktat di
ispirazione franco-tedesca, non succede niente di tutto ciò. Siamo abituati a
sopportare, e il Presidente Napolitano questo lo sa bene, dall’alto dei suoi
oltre sessant’anni di vita politica ha visto le rivolte di piazza a Budapest e
a Praga (e ha inneggiato a chi le soffocava), in Italia al massimo ha visto l’Autunno
Caldo e la Strategia della Tensione, roba da niente al confronto. Sa
che la svolta che ha in mente avrà successo, il popolo stringerà i denti e la
cinghia, e con ogni probabilità lui avrà il suo ritratto nella galleria dei veri
o presunti Padri della Patria, dal Risorgimento in poi.
Non si saprà mai da dove è
partita veramente la fantomatica telefonata di Angela Merkel che secondo la
leggenda lo mise al corrente che l’Europa non tollerava più la permanenza al
governo italiano di Herr Berlusconi. Non si sa quanto c’è di vero in
quella leggenda, e soprattutto da quale cilindro uscì la soluzione che il
Presidente pose davanti al paese perché l’Europa ce lo chiede. Sta di
fatto che l’8 novembre 2011 Napolitano accetta le dimissioni di un Berlusconi
che non ha più la fiducia del Parlamento, che il giorno precedente ha visto
andare in fumo in Borsa il 30% dei titoli della sua Mediaset e non si sa quanto
dei titoli dello stato di cui è Premier. E’ chiaro che qualcuno di molto
potente non lo vuole più, come è chiaro che qualcosa nell’assetto
politico-economico europeo sta precipitando. Quello che non è chiaro è ciò che
succede dopo. Tutti, dalla Grecia alla Spagna all’Irlanda tornano a votare,
scegliendo – a torto o a ragione – nuovi esecutivi più confacenti alle nuove
necessità. Noi no.
Come se in Italia fosse ancora in
vigore lo Statuto Albertino e la forma di governo monarchica, con una
operazione perfettamente in linea con quella che portò il Maresciallo Badoglio
a succedere al Cavalier Benito Mussolini, Giorgio Napolitano si inventa
senatore a vita lex-commissario U.E. Mario Monti (fino a quel momento un oscuro
travet della politica economica più legato alle grandi banche d’affari
internazionali che al paese che ha rappresentato) così come il suo predecessore
Ciampi si era inventato lui, e più o meno per gli stessi meriti. E due giorni
dopo gli conferisce l’incarico di Presidente del Consiglio.
E’ un governo tecnico, secondo
una tradizione italiana dei tempi di crisi che da Badoglio fino a Giuliano
Amato ce ne ha fatte vedere – e inghiottire – di tutti i colori. Ma di solito
si trattava di pochi mesi, giusto il tempo per arrivare alle elezioni
successive e per gestire l’ordinaria amministrazione. Qui invece no, c’è
qualcosa che non va, e da subito. Passi la dichiarazione iniziale di Monti, è
una bellissima giornata (per chi? Per lui forse, non per chi sta
perdendo in massa il lavoro o vede bruciarsi in poche settimane risparmi della
vita di più generazioni), passi il sostegno (genuino o obbligato) di tutte le
forze del Parlamento o quasi a lui e alla sua politica di “sudore, lacrime e
sangue”. Quello che non va davvero è l’intenzione dichiarata di questo governo
che ha avuto solo il voto di Giorgio Napolitano di porre mano a tutta una serie
di riforme strutturali ed istituzionali per le quali la Costituzione rimandava
a ben altre procedure, tra l’altro coinvolgenti necessariamente i cittadini.
Di tutto ciò, nella retorica di
colui che comincia ad essere chiamato re Giorgio I (il primo a farlo è il Times
di Londra, nientemeno) non ce n’è traccia. Solo richiami alla necessità di
sacrifici sempre maggiori, di destini comuni europei insindacabili, di riforme
istituzionali che un parlamento di esautorati non può e non potrà mai fare. E
tante strette di mano a quella Angela Merkel e a quel Nicolas Sarkozy che se la
sono ridacchiata in pubblico al nome di Berlusconi, senza rendersi conto che
era alla faccia di un paese intero che ridevano, o forse sapendolo benissimo,
come lo sa quel Monti che è fisso a casa loro, che elimina le prospettive di
futuro di milioni di persone (lui che ogni mese guadagna settantamila euro
circa), lui che al pianto di chi non ha più lavoro ostenta il pianto del
ministro del lavoro Elsa Fornero.
E alla fine un solo scatto
d’orgoglio, un’unica volta in cui il Presidente si ricorda di rappresentare gli
italiani, quando dopo le elezioni del 2013 si trova in Germania e il leader
della SPD Peer Steinbruck (che deve incontrarlo) non trova di meglio che
dichiarare che gli italiani hanno eletto due clown, Grillo e – di nuovo
– Berlusconi. Visita annullata, e ci sarebbe mancato altro che il contrario.
Le elezioni cadono nel periodo
conclusivo del suo mandato, con il semestre bianco che complica un’impasse
politica pressoché totale. Non si dimette in anticipo come Cossiga, non si
ricandida come qualcuno gli chiede, da destra e da sinistra. Sarebbe l’ora di
prendere il posto nella galleria dei ritratti. Ma evidentemente resistere a
certe pressioni e a certi richiami non si può. Re Giorgio è destinato a
succedere a se stesso.
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