“Non possiamo non dirci
liberali”. Con questa frase, retorica come nel suo stile, Giorgio Napolitano ha
riassunto la sua vita in apertura della lunga intervista concessa ad Eugenio
Scalfari pochi giorni dopo la sua rielezione a Presidente della Repubblica e
pochi giorni prima di compiere 88 anni. Doveva essere la prima intervista
privata concessa dal vecchio Presidente al termine del suo mandato e,
presumibilmente, della sua lunga e controversa carriera politica, un bilancio
della propria vita, del XX secolo che ha attraversato, del XXI° il cui sviluppo
futuro sta fortemente condizionando. E’ stata invece, clamorosamente, la prima
intervista pubblica concessa dal nuovo Presidente, nelle stanze del
Quirinale dove si è appena reinsediato poco dopo aver prestato giuramento ad
una Repubblica e ad un Popolo Italiano più sbigottiti che mai.
C’era un sacco di gente quella
sera in cui è stato rieletto Presidente a manifestare inferocita in Piazza
Montecitorio. Ce n’era peraltro molta di più a Budapest a manifestare nelle
strade il 4 novembre 1956 quando i carri armati sovietici arrivarono a stroncare
i sogni di libertà del popolo ungherese. La storia di Giorgio Napolitano, politicamente
non ancora conclusa, si è snodata finora tra queste manifestazioni, egualmente
frustrate anche se in modo decisamente diverso. Nei giorni successivi alla
repressione della rivolta ungherese fu proprio il giovane deputato napoletano,
in rapida ascesa grazie al favore personale nientemeno che dell’allora leader
comunista Palmiro Togliatti, a rendersi autore di una delle prese di posizione più
spietate contro gli insorti, elogiando quell’intervento sovietico che aveva
“non solo contribuito a impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella
controrivoluzione, ma alla pace nel mondo”.
Cominciò così la carriera
politica dell’uomo che sarebbe diventato il primo Presidente della Repubblica
eletto due volte, oltre che il primo Presidente della Repubblica proveniente
dal mondo comunista. Il P.C.I. dopo i fatti di Budapest visse al suo interno la
sua prima grande crisi, con una frattura tra quanti vedevano negli ungheresi
dei "teppisti controrivoluzionari” e quanti cominciavano a chiedersi
invece se valesse la pena sognare quel paradiso dei lavoratori che aveva
mandato in Ungheria più uomini e carri armati (200.000 e 4.000 rispettivamente)
di quanti ne avesse mandati Hitler in Unione Sovietica nel giugno del 1941. La
frattura fu in qualche modo ricomposta negli anni successivi, per manifestarsi
di nuovo dopo la morte di Togliatti allorché nel 1968 fu la volta della
Cecoslovacchia di ribellarsi all’U.R.S.S. e fare la stessa fine dei compagni
ungheresi di 12 anni prima.
In tutti quegli anni Napolitano
aveva prosperato, salendo fino al rango di vicesegretario del partito insieme a
Luigi Longo (figura carismatica di ex-partigiano). A suo dire, in questi anni
era maturata la crisi interiore che da fedele alla linea l’avrebbe portato a
convertirsi al riformismo di Giorgio Amendola (figlio del liberale Giovanni,
martire a causa dei fascisti), che con i tempi storici e i metodi bizantini
tipici del centralismo comunista stava elaborando la presa di coscienza che il
capitalismo non fosse un sistema da abbattere, ma piuttosto da riformare stando
al suo interno e cercando di migliorare progressivamente le condizioni di vita
delle classi lavoratrici. Era una svolta che nei paesi anglosassoni e nella
Repubblica Federale Tedesca era avvenuta fin dagli anni 40 e 50 con il passaggio
alla Socialdemocrazia ed il rifiuto dell’Internazionale Comunista. Nel P.C.I. ancora
a fine anni 60 se ne discuteva aspramente e in maniera inconcludente. La parte
riformista in ogni caso non era certo quella prevalente.
con Nicolae Ceausescu |
Quando anche Praga fu occupata dai
russi, la spaccatura all’interno del mondo comunista italiano esplose
insanabile. Il gruppo che faceva capo alla rivista Il Manifesto, Luigi Pintor,
Rossana Rossanda, Aldo Natoli, Luciana Castellina, Lucio Magri, Valentino
Parlato e altri si posero in aperto dissidio con la Segreteria del partito, nel
frattempo finita nelle mani di Enrico Berlinguer che aveva rimontato e superato
proprio Napolitano. I dissidenti furono espulsi e dettero vita alla sinistra extraparlamentare
italiana, Berlinguer criticò l’U.R.S.S. senza metterne in discussione
l’alleanza, Napolitano dette vita a una vera e propria corrente alla destra di
un partito che fino a quel momento si era vantato di non prevedere correnti. Fu
chiamata, con una nota di disprezzo da parte dei suoi avversari interni, la corrente
dei “Miglioristi”, di coloro cioè che non volevano più la rivoluzione dal
capitalismo ma si accontentavano di un suo miglioramento.
con Enrico Berlinguer |
Per tutti gli anni 70 e 80,
Giorgio Napolitano sembrò essere diventato un esponente minoritario e in
disgrazia di un partito che stentava ad adeguarsi a tempi che stavano
prepotentemente cambiando. La sua attività principale consistette in un giro di
conferenze in Gran Bretagna, Germania (dove erano gli anni della ostpolitik,
l’apertura all’Est sovietico, di Willy Brandt) e perfino negli Stati Uniti (fu
il primo esponente comunista ad avere il visto nel 1978) perlopiù incentrate
sul tema dell’evoluzione della sinistra europea verso l’Eurocomunismo e delle prospettive
della socialdemocrazia nel Vecchio Continente.
Ebbe di fatto anche un ruolo
sostanziale di mediatore-ambasciatore tra campi ancora formalmente
contrapposti, il P.C.I. (a cui Berlinguer aveva fatto digerire l’ombrello
atomico della NATO e lo strappo da Mosca dopo l’invasione dell’Afghanistan ma
che stentava a trarne le conseguenze politiche), il P.S.I. che sotto la guida
di Bettino Craxi aveva preso la leadership del campo riformista e rimesso in un
angolo i comunisti dopo gli anni del compromesso storico ed il delitto
Moro, la NATO che viveva gli anni della recrudescenza della Guerra fredda con
Reagan e la Thatcher. Fece scalpore la dichiarazione dell’ex segretario di
stato americano Henry Kissinger nel 1986, secondo cui Giorgio Napolitano era il
suo comunista preferito.
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