Nei momenti più difficili, la
politica italiana tira sempre fuori dal cilindro il coniglio bianco, il volto
presentabile per ripulire l’immagine compromessa di tutta la Casta. Era stato
così nel 1978, allorché un Parlamento scosso dall’omicidio di Aldo Moro da
parte delle Brigate Rosse e dagli scandali in successione che avevano finito
per coinvolgere anche il Quirinale nella persona del suo inquilino pro-tempore
Giovanni Leone aveva individuato nell’ex partigiano socialista Sandro Pertini
l’uomo capace di riconciliare il popolo con la politica e di evitare che la fragile
democrazia italiana fosse travolta dagli attacchi concentrici di terrorismo e corruzione.
Fu così anche nel 1992, quando la
bomba scoppiata a Capaci si portò via Giovanni Falcone, la moglie, i cinque
agenti di scorta e le residue illusioni di quanti, politici o cittadini,
speravano ancora di salvare la Prima Repubblica ormai in ginocchio dopo le picconate
del Presidente Cossiga e i primi risultati dell’azione del Pool Mani Pulite.
Quando Giovanni Brusca premette
il detonatore sulla collina sovrastante Capaci, il Parlamento era in seduta
comune, impegnato a trovare un successore a Francesco Cossiga che si era
dimesso con due mesi di anticipo per evitare la concomitanza tra elezioni
parlamentari ed elezioni presidenziali. L’attentato mafioso colse completamente
di sorpresa l'Assemblea, che credeva di poter ripetere grandi manovre e rituali
delle precedenti elezioni (con l’eccezione proprio dell’ultima, che aveva
portato proprio Cossiga al Quirinale e che era stata concordata in sede extraparlamentare)
con l’esito prevedibile - almeno secondo la logica in vigore fino a quel
momento - dell’ascesa al Colle di uno dei generali democristiani, se fossero
riusciti a superare la forte opposizione dell’altro protagonista del momento,
il segretario socialista Bettino Craxi.
Né Arnaldo Forlani né il
Presidente del Consiglio Giulio Andreotti ce la fecero, finché la bomba spazzò
via tutto e impose la scelta di qualcuno che fosse stato fino ad allora al di
fuori dei grandi giochi di potere, o che almeno la gente comune potesse
ritenere tale. Fu il radicale Marco Pannella a tirar fuori il nome di Oscar
Luigi Scalfaro, parlamentare democristiano di secondo piano, in quel momento
Presidente della Camera e universalmente ritenuto persona di specchiata onestà
al di sopra di ogni sospetto. Da De Mita a Craxi, i leader del Pentapartito (la
coalizione che aveva governato l’Italia fino a quel momento) accettarono, ed
anche la nuova Cosa che aveva preso il posto del Partito Comunista, il
Partito Democratico della Sinistra di Achille Occhetto, fu ben felice di
votarlo per sbarrare la strada al nemico storico Andreotti. Così nacque la Presidenza
Scalfaro, che doveva ricondurre il Paese all’unità nazionale come aveva fatto
Pertini. E che invece, per gli sviluppi successivi altrettanto drammatici, era
destinata a dividerlo ancora di più.
Oscar Luigi Scalfaro era un
piemontese di famiglia originaria della Calabria. Era di famiglia nobile, un
suo antenato era stato ufficiale dell’esercito di Gioacchino Murat, e da questi
aveva ottenuto la baronia, in quel di Lamezia Terme. Lui era nato a Novara, da
madre piemontese, e si definiva figlio dell’Unità d’Italia. Iscritto all’Azione
Cattolica fin da giovanissimo, si laureò in Giurisprudenza alla Cattolica di
Milano e intraprese la carriera di magistrato. Negli anni della guerra entrò in
contatto con l’antifascismo e la futura classe dirigente democristiana, che
allora operava al riparo della FUCI, la federazione universitaria cattolica.
Finite le ostilità, il magistrato Scalfaro fu reclutato dagli angloamericani
per far parte delle Corti di Assise straordinarie che dovevano giudicare gli ex
fascisti ed i criminali di guerra, in luogo dei processi sommari e dei linciaggi
che spesso e volentieri si erano verificati all’indomani della Liberazione.
Scalfaro si fece un nome in questa attività come Pubblico Ministero assai
severo, che in diverse circostanze non si fece scrupolo di chiedere la pena di
morte per gli imputati.
La sua attività in ambito
giudiziario ebbe comunque termine allorché si presentò come candidato
indipendente nelle liste DC all’Assemblea Costituente, alla quale fu eletto con
moltissimi voti di preferenza, il che attesta la sua popolarità in un momento
in cui la gente aveva gran voglia di giustizia, di vendetta, di cambiamento e
di normalizzazione insieme. Per quanto Scalfaro si ritenesse più adatto a
operare nell’ambito del Potere Giudiziario e si considerasse - come dichiarò in
seguito - transitato nel Legislativo solo per necessità, in realtà si dimostrò
un deputato altrettanto inflessibile di quanto lo era stato da magistrato. Alla
Costituente lavorò nel gruppo incaricato della eliminazione dal Codice Penale
di quella pena di morte che aveva chiesto di comminare più volte.
Nel 1948 fu in prima linea nella
Democrazia Cristiana impegnata ad arginare il Fronte Popolare social-comunista.
All’inizio degli anni ’50, accaddero i due episodi che avrebbero caratterizzato,
per non dire etichettato, la sua personalità politica per il tempo a venire. Nel
1950 in un noto ristorante romano il giovane onorevole Scalfaro ebbe un vivace alterco
con una altrettanto giovane signora colpevole a suo dire di ostentare un
abbigliamento sconveniente, in quanto mostrava le spalle nude. La cosa degenerò
a tal punto che Scalfaro chiese addirittura l’intervento delle forze
dell’ordine, mentre la signora finì per querelarlo per ingiurie. La stampa lo
bollò immediatamente come moralista e bigotto, ed il padre della signora lo
sfidò addirittura a duello per lavare l’onore della figlia. Ma i duelli, come i
titoli nobiliari, erano cose che appartenevano ad un passato spazzato via dalla
nuova Repubblica, e Scalfaro se la cavò con una cattiva rassegna stampa alla
quale prese parte addirittura Antonio De Curtis, in arte Totò, che gli dette
pubblicamente del villano e del codardo.
con Silvio Berlusconi |
Nel 1952, allorché in Parlamento
infuriava la battaglia pro o contro la cosiddetta Legge Truffa (la prima
storica proposta di legge, di iniziativa DC, di concessione di un premio di
maggioranza alla coalizione che vinceva le elezioni, che fu così ribattezzata
da una opposizione ancora scottata dalla sconfitta del ’48 e preoccupata di
essere ridotta all’impotenza), ad un Emiciclo in cui si respirava ormai una
atmosfera al calor bianco Scalfaro non trovò di meglio che proporre di sedere
in permanenza, domenica compresa, fino a votazione avvenuta. Raccontò poi
Pietro Nenni, leader socialista, che andò a finire “con un pugilato come non si
era mai visto. Volarono perfino le palline del banco delle commissioni. Ci
furono parecchi contusi e un ferito grave, un usciere”. Decisamente, Scalfaro
non era destinato ad essere un uomo che favoriva le mediazioni e le riappacificazioni.
Politicamente, Scalfaro si
collocava alla destra DC, nella corrente di Mario Scelba, il Ministro dell’Interno
che divenne famoso per l’uso abbondante e senza remore della Celere, il reparto
di polizia di pronto intervento da lui creato e spesso mandato a fronteggiare i
tumulti di piazza. Nel primo e unico governo Scelba, Scalfaro fu
sottosegretario alla Presidenza del Consiglio ed al Turismo e Spettacolo. La
scelta non fu felice, il suo proverbiale moralismo e la conseguente censura che
pretese di esercitare sulle opere soprattutto cinematografiche gli attirarono
contro gli strali di pressoché tutti gli intellettuali italiani.
All’avvento del centrosinistra,
da uomo di destra inviso ai socialisti, Scalfaro entrò in un lungo periodo
d’ombra, da cui lo trasse fuori dopo vent’anni un altro socialista, quel
Bettino Craxi che nel 1983 formò il suo primo storico governo e che volle
all’Interno un DC che non fosse uno dei cosiddetti notabili. Craxi non amava
Scalfaro, ma amava anche meno De Mita o Andreotti.
con Papa Giovanni Paolo II |
I quattro anni della sua
permanenza al Viminale furono contrassegnati da diversi fatti tragici: dai
colpi di coda del terrorismo con l’omicidio di Ezio Tarantelli e Lando Conti,
alle stragi nere come quella del Rapido 904, ai delitti di mafia come quello di
Rocco Chinnici e Ninni Cassarà. Per due anni fu presidente della commissione di
inchiesta sulla ricostruzione in Irpinia dopo il terremoto del 1980. Quando
Cossiga si dimise nell’aprile 1992, era stato appena eletto Presidente della
Camera quando la scelta per il successore al Quirinale cadde su di lui.
Il sollievo per la designazione
di un volto pulito (ancorché controverso) come il suo durò poco. Il Paese era
ormai scosso, per non dire travolto da Tangentopoli. Scalfaro fece poco o nulla
per frenare la valanga. Cominciò opponendo un no alla candidatura alla
Presidenza del Consiglio di un Craxi che ancora non aveva ricevuto avvisi di
garanzia ed aprì invece la strada al suo ex luogotenente Giuliano Amato, che
sotto le mentite spoglie dell’ennesimo governo tecnico operò – senza una parola
di dissenso da parte del Quirinale – scelte epocali quali l’uscita dal Serpente
Monetario, la svalutazione selvaggia della Lira e perfino i prelievi forzosi
dai conti correnti dei cittadini. In generale, Scalfaro si schierò a fianco dei
suoi ex colleghi magistrati operando nel senso di favorire almeno un ricambio
generazionale nei partiti, di fatto ottenendo la loro dissoluzione.
Più ancora del suo predecessore
il picconatore Cossiga, Scalfaro risultò determinante nel crollo della Prima
Repubblica, anche se poi contrastò altrettanto fieramente l’avvento della
Seconda. Nel 1993, l’anno in cui lo Stato si ritrovò sotto attacco da parte di
una Mafia che aveva rivolto la propria strategia dinamitarda contro il
patrimonio artistico, anche l’intransigente Presidente della Repubblica finì
sotto attacco. Lo scandalo SISDE relativo alla gestione dei suoi fondi riservati
finì per coinvolgere anche l’inquilino del Quirinale, e perfino la stessa
figlia Marianna, la cui figura peraltro stava acquisendo rilevanza pubblica
quasi pari a quella del padre. Le indagini dimostrarono che la famiglia
presidenziale era assolutamente al di fuori di qualsiasi reato connesso all’uso
distorto di fondi pubblici.
Scalfaro tuttavia ritenne
opportuno rivolgersi alla nazione protestando la sua innocenza. La sera del 3
novembre 1993 fece interrompere addirittura una partita di calcio di Coppa UEFA
per rivolgere un messaggio a reti unificate agli italiani. Fu il discorso del famoso
“Non ci sto!” che portò il climax politico e sociale a livelli di calor
bianco raramente raggiunti nella storia repubblicana. Scalfaro lamentò nei suoi
confronti una rappresaglia del mondo politico e dei cosiddetti apparati per
fargli pagare il ruolo avuto nella loro caduta in disgrazia durante Tangentopoli.
con la figlia Marianna |
Ma fu dal 1994 con la discesa in
campo di Silvio Berlusconi e la irresistibile e repentina ascesa di Forza
Italia che la Presidenza Scalfaro entrò - come si suol dire – nel vivo.
Il Presidente della Repubblica ed il futuro Presidente del Consiglio vincitore
delle elezioni non si presero fin dal primo istante. Fin dalla presentazione da
parte di Berlusconi della lista dei ministri, nella quale spiccava il nome di
Cesare Previti (indagato ma non ancora condannato) al Ministero della
Giustizia. Scalfaro l’ebbe vinta, ottenendo la sostituzione di Previti con
Alfredo Biondi, ma la guerra era solo rimandata.
Quando a dicembre la Lega di Bossi
mise in crisi il governo Berlusconi, quest’ultimo chiese il ritorno alle urne,
adducendo a sostegno lo spirito della nuova legge elettorale maggioritaria, che
andava nel senso di far scegliere il premier direttamente dal popolo.
Scalfaro gli si oppose con tutte el sue forze, adducendo invece che quella
italiana era ancora una repubblica parlamentare, che in Parlamento si poteva
trovare una maggioranza alternativa per fare un nuovo governo. E così fu, il governo
Dini (l’ennesimo governo tecnico che poi tecnico non era) tenne lontano il
centrodestra, almeno nominalmente, dal potere per due anni, preparando lo
spostamento dell’asse politico verso il centrosinistra, che con Romano Prodi e
la coalizione detta dell’Ulivo vinse le elezioni nel 1996.
In questo periodo, il consenso
unanime di cui la Presidenza Scalfaro aveva goduto nel momento dell’agonia
della Prima Repubblica ebbe termine, per lasciare il posto ad una spaccatura
coincidente con i due schieramenti che si contendevano il potere nella Seconda.
Dalla parte del Quirinale era l’Ulivo, preoccupato principalmente di evitare il
ritorno al potere di colui che era diventato in un battibaleno lo spauracchio
della Sinistra, Silvio Berlusconi, e che vedeva in Scalfaro un baluardo. Contro
di lui era il Polo della Libertà, la formazione in cui si articolava il campo
dell’Uomo di Arcore.
La legge sulla par condicio nei
mezzi di comunicazione, patrocinata senza mezzi termini da Scalfaro, fu vista
dal centrodestra come un attacco esplicito alla dirompente potenzialità del
sistema mediatico di Berlusconi, ed una delle cause principali della sua
sconfitta nel 1996. Gli ultimi anni della Presidenza di Oscar Luigi Scalfaro,
l’uomo che avrebbe voluto essere considerato super partes come la sua
formazione giuridica gli avrebbe imposto, trascorsero in realtà in un progressivo
spostamento verso l’area di governo di centrosinistra, dal quale invocava
sempre più esplicitamente sostegno ogni volta che subiva un attacco. Quando nel
1999 cessò il suo mandato, Scalfaro da senatore a vita poté finalmente uscire allo
scoperto votando la fiducia al secondo governo di Massimo D’Alema, al quale lui
stesso aveva conferito il primo incarico.
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