Narra la leggenda che la
somiglianza fisica tra l’attuale Presidente della Repubblica e l’ultimo Re
d’Italia Umberto II di Savoia non sia affatto casuale, sottintendendo una
discendenza reale, ancorché illegittima, per colui che il Times ormai ha
ribattezzato Re Giorgio e un noto settimanale politico italiano, scimmiottando
la prestigiosa rivista americana Time, ha nominato “uomo dell’anno 2011”. Di
leggende simili è pieno il mondo politico, come l’altra che vuole il
giornalista Bruno Vespa figlio naturale del Duce (concepito durante la sua
prigionia al Gran Sasso), anche in questo caso con nessun altro fondamento che
una certa rassomiglianza.
Che Giorgio Napolitano fosse
fuori dagli schemi lo si poteva intuire fin da quando Henry Kissinger lo definì
il suo comunista preferito. E ancor prima di diventare migliorista, forse fin
dagli esordi in politica. La Svolta di Salerno del 1944 lo aveva visto
impegnato con il gruppo che fece rientrare clandestinamente in Italia Palmiro
Togliatti, colui che sarebbe diventato il suo mentore una volta affiliato al
P.C.I. Togliatti era un maestro della politica fuori dagli schemi, al limite
della spregiudicatezza. Il suo appoggio clamoroso ad una monarchia traballante
(e nelle cui patrie galere era morto pochi anni prima lo scomodo rivale Antonio
Gramsci), per quanto dettato da ragioni tattiche, mostrò ad una generazione di
comunisti che quando il fine giustificava i mezzi non c’erano regole o schemi
che tenessero.
Il destino reale di Napolitano
più che nella genetica era scritto nell’esperienza politica, dunque. Troppo
giovane per far parte di coloro che scrissero la Costituzione, ha fatto in
tempo a farsi promotore di provvedimenti che potrebbero averla stravolta per
sempre. Dopo l’annus mirabilis 2011 in cui cavò dal cilindro il governo di
salute pubblica di Mario Monti (mentre negli altri paesi europei analoghi
governi venivano più propriamente cavati dalle sorgenti naturali, le urne
elettorali), il bello aveva ancora da venire, per dirla con Barack Obama, un
altro presidente di repubblica assai amante della retorica fine a se stessa.
La pantomima dell’incarico a
Bersani, giustificato da quei pochi voti in più presi dal PD al fotofinish
elettorale (complice anche il meccanismo di attribuzione dei seggi non a caso
definito Porcellum), trascinato per quasi un mese senza esito dall’interessato
tra il rifiuto di alleanza ricevuto da Grillo e quello opposto ad un Berlusconi
seduto sulla sponda del fiume, era poi stata seguita dall’incredibile nomina
dei cosiddetti Dieci Saggi, un organismo di cui non si trova traccia in nessun
dettato costituzionale né in alcuna prassi conseguente. L’escamotage, che di
altro non si trattava chiaramente in quel momento, poteva spiegarsi soltanto
come un voler prendere tempo in attesa della scadenza del mandato
presidenziale, non potendo a causa del semestre bianco e comunque non volendo
Napolitano sciogliere di sua iniziativa le Camere.
Il 15 aprile, un mese prima di
quella scadenza, il Parlamento in seduta comune si riunì per eleggere il nuovo
Presidente, che sarebbe stato il dodicesimo della storia. Il gioco stavolta era
chiaro: trovare qualcuno che andasse bene sia al centrosinistra (determinato a
non perdere l’esiguo vantaggio elettorale) che al centrodestra (determinato a
far fruttare la sua posizione di ago della bilancia) e che tagliasse fuori i
Cinque Stelle, più che mai determinati ad agire in funzione anti-sistema ed
anti-casta. Tra le figure proposte allo scopo, non era infrequente quella di un
Napolitano bis, a cui peraltro l’interessato in un primo momento aveva risposto
picche. A quasi 88 anni, l’inquilino del Colle sognava di ritirarsi a occuparsi
dei nipoti, e con lui e per lui lo sognava probabilmente tanta gente che non
aveva molto di che ringraziarlo per questa patria salvata a così caro prezzo
negli ultimi due anni.
La Costituzione italiana non dice
niente a proposito della rielezione del Presidente in carica. E com’è noto, nel
diritto ciò che non è espressamente vietato è permesso. I costituzionalisti in
una prima fase si affannavano a sostenere che i padri costituenti non
desideravano in linea di principio la rielezione, un mandato lungo quattordici
anni sarebbe stato troppo lungo. Ma a parte il fatto che se i costituenti
desideravano una cosa del genere avrebbero potuto scriverla e nessuno avrebbe
potuto impedirglielo, i costituzionalisti di mestiere trovano le giustificazioni
quando le cose sono già successe. Due mesi dopo i loro discorsi sarebbero stati
di segno del tutto diverso.
Nelle prime votazioni, la
situazione precipitò in maniera tale da scompigliare tutti i giochi. La
nomenklatura PD presentò alcuni candidati su cui non era d’accordo nemmeno con
se stessa, rimediando una figuraccia epocale e forse compromettendo seriamente
lo stesso avvenire del partito. Dapprima Franco Marini e poi Romano Prodi
furono esposti al pubblico ludibrio di una bocciatura nata principalmente in
casa propria. Nel secondo caso, la sera del 19 aprile l’aria che si respirava
nella sede PD era di disperazione. E fu allora che il cavalier Berlusconi
decise di agire, calando l’asso.
Colui che da due anni si era
posto come il salvatore della patria non poteva resistere alla sollecitazione
di un nuovo intervento in tal senso. L’offerta di una riconferma di Napolitano,
avanzata dal PDL e prontamente accettata da un PD in stato preagonico, fu
accolta nel breve volger di una notte dallo stesso Napolitano. Per spirito di
servizio ovviamente. Ogni obiezione costituzionale cadde come per magia, il 20
aprile il presidente uscente fu riconfermato, stabilendo un record storico
grazie ai voti dei democratici e del centrodestra. Si consumava l’ultima farsa,
che vedeva l’ex comunista Rodotà sostenuto dal Movimento Cinque Stelle e dagli
ex alleati del PD Sinistra Ecologia e Libertà contro il suo partito che
presentava un altro ex comunista ma voluto da Berlusconi.
Con questo viatico poco
rassicurante, Giorgio Napolitano prestò il suo secondo giuramento da Presidente
della Repubblica il 22 aprile 2013. La sera prima a Montecitorio una folla
inferocita fu controllata con una certa apprensione dalle forze dell’ordine
schierate a difesa del palazzo, mentre Beppe Grillo, che aveva promesso di
essere in piazza con i manifestanti, fu fermato da una telefonata di qualche
autorità che gli sconsigliò la comparsata per motivi di ordine pubblico.
Nel discorso di insediamento,
Giorgio Napolitano dette un ultimatum alle forze politiche che l’avevano
rieletto che meritava oggettivamente una sorte migliore fin dal giorno dopo
essere pronunciato, malgrado l’applauso scrosciante e surreale ricevuto sul
momento dall’auditorium. Ma del resto, uno dei suoi primi atti fu la nomina del
governo Letta, da lui incaricato sulla base delle cosiddette larghe intese e poco
tempo dopo ribattezzato ironicamente il governo senza fretta. Ed era più che
evidente che ciò faceva parte del pacchetto comprendente la sua stessa
rielezione.
L’uomo che ha compiuto da poco 88
anni e a cui non c’era alternativa, secondo la nostra classe politica, per
succedere a se stesso è il simbolo di un mondo e di un’epoca che sono arrivati
alla scadenza, ma che non vogliono o non possono abdicare a se stessi, sopravvivendosi
secondo un fenomeno storico già osservato più volte. Del resto, la stessa
storia ci insegna che sono i popoli in genere a costringere i propri governanti
ad abdicare. Nessuna casta ha mai fatto la rivoluzione contro se stessa. Nessuna costituzione è mai stata riformata da
coloro che (magari in modo distorto) ne traevano i maggiori benefici. E nessun
capo di stato rinuncia alla corona, se non costretto.
Come avrebbe detto il re
d’Italia, in Casa Savoia si regna uno per volta. E’ ancora il tempo di Giorgio
Napolitano, dunque, ma per quanto?
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