Non ce la fa Alex
Zanardi a trattenere la commozione sul podio della Crono Strada H5 di
Ciclismo. Vorrebbe cantare l’Inno di Mameli, ma è già tanto se
riesce a trattenere le lacrime. Alla fine, anche per un cuore d’acciaio come il
suo arriva il momento di ammorbidirsi, ripensare alla lunga strada percorsa, a
questi ultimi chilometri che a Rio gli hanno valso il bis dell’oro di Londra,
ad una voglia di vivere, combattere e vincere che a cinquant’anni non mostra
segni di cedimento.
Alex, l’uomo che senza gambe è andato più
forte di quando le aveva, è il simbolo di questa Italia paralimpica a Rio de
Janeiro. La bandiera da portare è andata alla velocista Martina Caironi,
oro a Londra, ma è ancora lui l’icona, la figura leggendaria, a questo punto
mitologica, di un movimento che si appresta a strabiliare ancor più di quanto
abbia fatto in passato.
Sono tanti i ragazzi e le ragazze azzurri
che stanno scrivendo questa pagina di storia non solo sportiva in Brasile, e
non c’è spazio per elencarli tutti come meriterebbero, a prescindere dal
risultato, dal piazzamento e dal colore della medaglia vinta. Qui conta dire
comunque che dopo una settimana di Giochi Paralimpici, hanno
messo insieme un medagliere quasi uguale a quello dei colleghi normodotati
nelle due settimane dell’agosto scorso. Siamo a 25 contro 28, e non è finita.
Basta ascoltare Zanardi: «E’ stata una gara durissima, non so come ho
fatto. Una faticaccia incredibile, non so cosa mi è rimasto per le prossime
gare, ma intanto questa è presa. Se sei spinto solo dall'ambizione ad un certo
punto ti stanchi, occorre passione».
Già, la passione. Ce n’è tanta sul volto
di Beatrice Vio detta Bebe, la fiorettista che porta
in serata la settima medaglia d’oro. Una gioia incontenibile, sembra quasi
rabbia la sua. Sentimenti che vengono da lontano, da una lunga strada percorsa
tutta in salita. Adrenalina accumulata in una gara che per questa ragazza, come
per gli altri suoi colleghi e colleghe, viene ingaggiata ogni giorno. Con la
vita, prima ancora che con lo sport.
C’è aria di sorpasso dei paralimpici
sugli olimpionici. Ed è un dato clamoroso, strabiliante. Scrivevamo un
mese fa che siamo un paese che vince più di quanto si meriti per l’investimento
e l’impegno profuso nello sport. Ne profondiamo ancor meno nel rendere più
accettabili le condizioni di vita quotidiane dei cosiddetti disabili. Questi
ragazzi e ragazze scalano montagne ben più ripide degli stessi colleghi
normodotati, che già ne scalano di impervie, soltanto per alzarsi dal letto la
mattina.
Questi ragazzi e ragazze alla fine
compiono imprese tali da conquistarsi le prime pagine di giornali che ormai
sembravano destinati solo ai protagonisti dello sport business, ai
fenomeni da baraccone più o meno osannati dei Giochi Olimpici.
Facile essere Bolt o Phelps, con le braccia e
le gambe di cui ti ha dotato Madre Natura. Questi qui in gara adesso, a
riflettori abbassati, sono i veri sportivi. Perché lo sono tutti i giorni.
Perché lanciare un peso, tirare una stoccata, correre a cronometro o fare
canestro è difficile, per loro, ma non più che alzarsi dal letto, uscire in
strada, andare ad allenarsi, a lavorare o impegnarsi in una qualsiasi attività
in un paese per il quale sono figliastri malaccetti.
Onore ai ragazzi ed alle ragazze italiane
a Rio. Sui loro petti, la divisa di Armani è ancora più bella
a vedersi.
«Zanardi è l'esempio dell'Italia che
vorremmo, che lotta, che si sacrifica, che non molla mai».
(Luca Pancalli,
presidente del Comitato Paralimpico Italiano)
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