Era
il 30 settembre 1948 quando nelle edicole di un’Italia alle prese con
una difficile ricostruzione dalle macerie della guerra mondiale uscì un
nuovo albo a fumetti nel formato tipico di quell’epoca, 16,5 x 8 cm. Non
per niente si chiamavano strisce, i fumetti d’allora. Assieme
al cinema - chi l’aveva a portata di mano, ancora intero, e se lo
poteva permettere – erano il veicolo prediletto dei ragazzi italiani
desiderosi di lanciare a briglia sciolta la propria fantasia nelle
grandi praterie dell’avventura.
L’albo era pubblicato da una casa editrice milanese, erede della prestigiosa Nerbini fiorentina: la Edizioni Audace, poi Bonelli Editrice,
dal nome del fondatore Gianluigi, la cui opera sarebbe poi stata
continuata dal figlio Sergio. Protagonista era l’ultimo nato di una
serie di personaggi sceneggiati da Bonelli e disegnati da colui che si
stava affermando come uno dei più grandi fumettisti dell’epoca: Aurelio Galleppini, che un giorno si sarebbe firmato semplicemente Galep. Una firma che tutti i ragazzi ed anche molti adulti del dopoguerra avrebbero riconosciuto come unica, inimitabile.
Il suo nome era Tex Willer.
In pochi anni il suo successo sarebbe stato travolgente, sbaragliando
qualsiasi concorrenza. Il figlio dell’allevatore texano ucciso dai
banditi, che per vendicare il padre diventa fuorilegge e poi si redime
diventando un Ranger del Texas ed il capo della leggendaria tribu dei Navajos con il nome indiano di Aquila della Notte, catturò l’immaginario di bambini piccoli e di bambini cresciuti come nessun altro eroe della cellulosa.
Il successo di Tex fu talmente travolgente da spingere la casa editrice a concentrare i suoi sforzi su di lui, inaugurando la Serie Gigante
che, a partire dal novembre 1959 a cadenza mensile e fino ai giorni
nostri (attualmente è prossima l'uscita in edicola del numero 700, quella di Tex è la serie
più longeva della storia dell’editoria fumettistica italiana), è
diventata un appuntamento fisso dal giornalaio per migliaia di lettori
di tutte le età.
Narrano le cronache, o forse le leggende, che il suo creatore Galep avesse preso a modello per i suoi schizzi di Tex nientemeno che l’attore cinematografico americano più gettonato dell’epoca, Gary Cooper, reduce da successi avventurosi come il Sergente York, Giubbe Rosse, Per chi suona la campana.
Cooper era l’icona per antonomasia, l’archetipo incarnato dell’eroe
buono che combatte per affermare i migliori sentimenti in un contesto
naturale ed umano ostile, come era appunto il Far West in cui
Bonelli e Galleppini erano andati ad ambientare le loro avventure. Di lì
a poco avrebbe interpretato la madre di tutti i film western, Mezzogiorno di Fuoco (High Noon) consegnando se stesso ed il regista Fred Zinnemann
alla leggenda. I due italiani anticiparono i tempi, scegliendo le sue
sembianze per dar vita a quelle dell’eroe di carta più amato di tutti i
tempi, non solo in Italia.
Sempre
la leggenda narra di un Galleppini in costante evoluzione e ricerca
della propria cifra stilistica. Dai primi albi a strisce
all’affermazione definitiva della Serie Gigante, i suoi tratti a
china cambiarono evolvendosi e diventando sempre più ricchi e definiti
nei particolari, fino a fare del loro autore una specie di Gustave Doré
del fumetto. Da Gary Cooper, pare che il maestro si spostasse per
ispirarsi sulle proprie sembianze, che comunque non si discostavano di
molto da quelle della star americana.
Il
figlio Sergio Bonelli, che ha tenuto la Casa Editrice dopo la scomparsa
del padre Gianluigi nel 2001 e fino alla propria, occorsa dieci anni
dopo, raccontò poi che anche altri mostri sacri come John Wayne, Clint Eastwood e Charlton Heston (segnatamente quest’ultimo per la celebre mascella) avevano concorso a disegnare il volto del Ranger nell’immaginario di Galleppini, e poi a consegnarlo al nostro.
Tra le imprese straordinarie di Tex, a fianco delle epiche lotte contro nemici formidabili come Mefisto e accanto a partner favolosi, ammantati di mistero ed esotismo come El Morisco, c’è quella di aver resistito sulle scene per quasi settant’anni malgrado un impianto ed una filosofia apparentemente datati.
Tex
Willer è indubbiamente all’avanguardia rispetto ai tempi della sua
nascita perché è un difensore dei deboli, tutti, quale che sia il colore
della loro pelle. E’ il primo che dipinge gli indiani a tinte positive,
in un’epoca in cui i pellirosse sono ancora quelli di Sentieri selvaggi, entità negative minacciose per l’uomo bianco civile e portatore di progresso. Addirittura è proprio un indiano, Tiger Jack, il terzo dei suoi celebri pards assieme al Kit Carson mutuato dalla leggenda del West ed al figlio Kit, avuto – udite, udite – con l’indiana Lilith, figlia di Nuvola Rossa capo dei Navajos, colui che gli lascerà in eredità il sacro Wampum, la cintura del Capo.
Ma
è terribilmente indietro per altri aspetti, ossequioso di una censura
ormai superata dai tempi e dalle consuetudini in tutte le forme d’arte e
di espressione della nostra società. Le donne sono quasi completamente
assenti nelle sue storie. La moglie Lilith muore subito uccisa dal
vaiolo introdotto nella riserva dai trafficanti di acqua di fuoco e di armi. Altre donne nella sua vita non ne entrano, se non per fugaci e castissime comparse.
La stessa filosofia di Tex e delle sue avventure è un po’ ingenua. La legge rimette a posto tutto. La stella di latta (insieme a qualche sganassone ed alla leggendaria Colt 45) assicura sempre il lieto fine e la riparazione dei torti. Il Grande Padre di Washington e le sue Giacche Blu alla fine rispettano i trattati stipulati con i pellirosse. Magari non subito e non del tutto, ma li rispettano.
Sappiamo
bene che non andava, che non è andata così. Ma tuttavia ancor oggi Tex
Willer è il nostro eroe. E nelle poco più di cento pagine delle sue
avventure che ogni mese troviamo in edicola, il mondo è esattamente
ancora come vorremmo che fosse. Come lo sognavamo da ragazzini, quando
il primo dei suoi albi ci capitò in mano. E ne abbiamo fatti seguire una
collezione intera, che ha accompagnato le nostre vite come una
galoppata per le leggendarie piste dell’Arizona.
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