La copertina della prima edizione americana di Tarzan nel 1914 |
Ho appreso questa strana storia
da un tale che non aveva alcuna ragione di raccontarla, né a me né ad altri. Il
principio mi fu narrato in grazia di certe vecchie bottiglie di vino che ebbero
il potere di sciogliere lo scilinguagnolo di quel tale; e quanto al seguito,
debbo esserne grato alla mia incredulità.
Cominciava così una delle tante storie a puntate pubblicata a partire
dall’ottobre 1912 su Argosy All-Story Weekly, la celebre rivista di New York
che aveva importato in Nordamerica il feuilleton
alla francese, o romanzo d’appendice. Nel trasferimento, la qualità letteraria
si era un po’ persa, passando da Honoré de Balzac, Victor Hugo, Eugene Sue,
Alexandre Dumas, ai tanti che pubblicavano sulla rivista americana materiale
così scadente da essere ben presto derubricato in un nuovo genere, la pulp fiction.
Robaccia, spesso e volentieri, tanto da far dire a uno dei tanti
lettori, destinato in seguito a diventare il più famoso degli autori della
stessa Argosy, che: “se c’era gente che
veniva pagata per scrivere la spazzatura che si leggeva su alcune riviste, io sarei
stato capace di scrivere storie non da meno. Come dato di fatto, sebbene non
avessi mai scritto un storia, sapevo con certezza che avrei saputo scriverne di
altrettanto avvincenti e forse anche di più di quelle che mi capitava di
leggere su certe riviste”.
A questa presa di coscienza tardiva si deve Tarzan delle Scimmie, il
romanzo d’appendice più celebre della storia della letteratura del Novecento,
ed il successo mediatico più clamoroso riscosso da un personaggio
della letteratura avventurosa con implicazioni filosofico-scientifiche e capace
di essere traghettato con eguale successo in ambito fumettistico e cinematografico,
le nuove arti del ventesimo secolo.
La prima edizione italiana |
Quel lettore di pulp che a quasi quarant’anni aveva realizzato di
poter trovare finalmente la sua strada con quell’incipit all’apparenza uguale a quello di tante altre storie di
successo ma destinato a condurre altri lettori dentro la storia più originale e
affascinante tra quelle mai ambientate nella madre di tutte le terre ignote
dell’epoca, la Jungla, si chiamava Edgar Rice Burroughs.
Era nato a Chicago il 1° settembre 1875, ultima progenie di due
famiglie, i Rice ed i Burroughs, che vantavano un’ascendenza risalente
addirittura alla colonizzazione originaria del Nordamerica da parte dei Padri
Pellegrini. Famiglie che avevano preso parte a tutti gli eventi più importanti
della storia del loro paese, dalla Rivoluzione contro l’Inghilterra alla Guerra
Civile per l’abolizione della schiavitù. Suo padre era un veterano nordista, il
maggiore George Tyler Burroughs. Il figlio sognava di ripercorrerne le orme.
Edgar frequentò una serie di collegi che avrebbero dovuto indirizzarlo
verso West Point, l’accademia militare degli Stati Uniti. Avendo fallito la
qualificazione, si rassegnò comunque ad arruolarsi come soldato semplice nel reparto
più prestigioso che l’esercito statunitense potesse vantare all’epoca: il
Settimo Cavalleria.
Un anno dopo la sua nascita, la milizia nata all’indomani della Guerra
Civile per fronteggiare il problema principale della neonata Unione dopo quello
della secessione del Sud, la questione indiana, era stata annientata a Little
Big Horn il 22 giugno 1876 dai Cheyenne di Toro Seduto e Cavallo Pazzo. Non si
era salvato nessuno, nemmeno il leggendario comandante George Armstrong Custer.
Da quella sconfitta paradossalmente il mito del Settimo Cavalleria era però uscito
rafforzato, e molti giovani americani sognavano di marciare al ritmo del Garry
Owen, l’inno di battaglia di Custer.
Burroughs sembrò aver coronato un sogno, per poi vederselo strappare
via da una visita medica che accertò una insufficienza cardiaca e lo costrinse
nel 1897 a tornare in abiti civili. A 24 anni, i sogni di Edgar Rice Burroughs
sembravano finiti.
Edgar Rice Burroughs |
Il ragazzo tuttavia non si perse d’animo, e tentò la fortuna in
numerosi mestieri: poliziotto ferroviario, minatore, cercatore d'oro,
negoziante in un drug-store, venditore ambulante di dolciumi, cow-boy, contabile e
venditore di temperini. Tutte strade apparentemente senza sfondo, tanto che all’altezza
del 1911 le cronache vogliono che fosse sull’orlo del suicidio. La sensazione
di insoddisfazione e di fallimento sembravano giunte al culmine, quando proprio
per ingannare il tempo libero a disposizione tra un lavoro poco appagante e l‘altro
aveva scoperto Argosy e la letteratura pulp.
I sogni di Edgar Rice Burroughs ripresero vita di colpo, attraverso i
fiumi di inchiostro che presero a scorrere una volta che decise di aprire i
cancelli alla propria fantasia. Dapprima fu la volta della Principessa di
Marte, primo volume di una serie ambientata nientemeno che sul Pianeta Rosso.
Protagonista (autobiografico in senso lato) il capitano delle Giacche Blu John Carter
che, inseguito dagli indiani nel deserto dell’Arizona, si ritrova in una notte
di luna piena teletrasportato su Marte e da lì prende il via la sua avvincente
saga fantascientifica. Una storia originale, che avrebbe avuto un discreto
successo. Mai quanto la successiva, però.
Terminato il primo capitolo sotto le Lune di Marte, Burroughs prese a
dare forma all’altra sua idea. E questa fece centro pieno.
Dai tempi di Jean Jacques Rousseau, filosofi e scrittori si erano
cimentati ad immaginare le possibilità di sopravvivenza e reinserimento nel
consorzio civile di un buon selvaggio
che, abbandonato originariamente nella foresta in mezzo alle belve più o meno
feroci, dopo aver trascorso un congruo lasso di tempo assolutamente ignaro del
linguaggio umano e dei rudimenti del vivere civile, veniva trovato da
esploratori e riportato alla civiltà, dimostrando di potervisi riadattare
perfettamente grazie ai pazienti insegnamenti dei suoi mentori.
Il Libro della Jungla di Walt Disney |
Successivamente al romanticismo di Rousseau, il positivismo di Charles Darwin
aveva dato maggiore sostanza scientifica (o ritenuta tale) a queste convinzioni.
La razza bianca aveva nei suoi geni il progresso, ed un suo esponente era
sempre a tempo a riallinearsi a tale progresso in qualsiasi momento, per il
solo fatto di esserne appunto esponente. Il più grande scrittore inglese dell’epoca,
Rudyard Kipling, era un sostenitore di questa filosofia, e colui che sembrò
darle la migliore veste letteraria nel suo capolavoro che gli valse anche il
Premio Nobel, il Libro della Giungla.
Il trovatello Mowgli, allevato dalla pantera Bagheera e dall’orso
Baloo, è un cucciolo di razza bianca disperso nella Jungla. Dopo mille
peripezie, e soprattutto dopo essere sfuggito alla mortale nemica la tigre
Shere-Khan (che vede in lui giustamente il prototipo del cacciatore bianco che
un giorno tornerà per dare la caccia a lei stessa ed ucciderla), il cucciolo d’uomo
torna nel suo branco, la razza umana, apparentemente senza sforzo, non appena
gli giunge il richiamo del sangue e della sua ascendenza (nella splendida
riduzione cinematografica di Walt Disney, sotto le sembianze di una graziosa
femmina della sua specie).
Sembrava che, artisticamente parlando, più di così non si potesse
produrre. E invece toccò allo stesso Kipling scrivere, una decina d’anni dopo,
che il genio dei geni era uno che aveva
scritto una serie intitolata Tarzan delle Scimmie.
Il Tarzan di Russ Manning |
Il discendente dei Patrioti del New England che avevano dato il via
alla Rivoluzione Americana del 1776, come molti americani non aveva dimenticato
la propria ascendenza inglese e la rispettava e venerava come nient’altro. Il
protagonista dei romanzi di Burroughs pertanto non solo è un cucciolo d’uomo
bianco anch’egli, ma della specie più pregiata che si ritenesse esistere all’epoca:
l’aristocrazia britannica.
John Clayton jr. è il figlio di un Lord che si reca in Africa nera per
conto del Colonial Office. I suoi genitori cadono vittime dei pirati prima e
delle belve feroci poi. Il piccolo rampollo viene allevato da una scimmia
antropomorfa che ha appena perso il suo, di cuccioli, e che pertanto è ben
felice di sostituirlo nutrendo il piccolo Lord con il suo latte ed i suoi
insegnamenti ferini.
Per la scimmia Kala ed il suo branco, John Clayton jr. diventa – nel linguaggio
immaginario delle Grandi Scimmie – Tar-Zan,
Pelle Bianca.
"Io Tarzan, tu Jane...." Johnny Weissmuller e Maureen O'Hara |
E’ l’inizio di una storia che ormai tutti conoscono, per averla letta
nei libri di Burroughs, nelle riduzioni a fumetti di Burne Hogarth, Joe Kubert
e Russ Manning, per averla vista al cinema nelle decine di riduzioni
cinematografiche, a cominciare da quella che consacrò il primo ed il più grande
dei suoi interpreti, Johnny Weissmuller, plurimedaglia d’oro nel nuoto alle
Olimpiadi di Amsterdam del 1928, e dal 1932 semplicemente Tarzan l’Uomo
Scimmia. Per ritrovare un caso di immedesimazione di un attore con il suo più
celebre personaggio, bisognerà aspettare Sean Connery ed il suo Agente 007 James
Bond.
Nel libro originario, Tarzan viene ritrovato da una spedizione di
esploratori europei che lo identifica come il figlio di Lord Clayton e
legittimo erede del suo titolo e del suo seggio alla Camera dei Pari. Secondo
gli insegnamenti di Rousseau, di Darwin e sul solco letterario già tracciato da
Kipling, il ragazzo selvaggio si rivela perfettamente all’altezza di recuperare
vent’anni in uno, e di ripresentarsi in pochi mesi alla sua famiglia in grado
di sedere a tavola e conversare secondo le più raffinate regole dell’etichetta.
Christopher Lambert in "Greystoke La leggenda di Tarzan" |
Il primo libro del 1912 si chiude con un finale a sorpresa, improntato
al più ortodosso romanticismo ottocentesco che permeava ancora a quell’epoca il
feuilleton. Consapevole che reclamare
il proprio titolo nuocerebbe alla donna di cui si è innamorato, la fatidica
Jane Porter, nel frattempo fidanzata al cugino destinatario di quello stesso
titolo nel periodo in cui la sua esistenza era ignorata (ma segretamente innamorata
a sua volta di lui), Tarzan compie il beau
geste di rinunciare, e tornarsene nella Jungla che a quel punto sente come
l’unica sua casa.
L’ultima frase del libro è quella rivolta da Tarzan proprio al cugino Cecil
Clayton, che – ignaro della sua identità – gli rivolge la domanda circa le
proprie origini.
“Se la domanda è lecita, come
mai siete andato a cascare in quella Jungla maledetta?”
“Ci sono nato – rispose Tarzan
con voce molto calma. – Mia madre era una grande scimmia, e quindi non poteva
spiegarmi tante cose. Chi fosse mio padre, non l’ho mai saputo”.
La saga di Tarzan avrebbe visto aggiungersi altri 27 libri a quel
primo, durante i quali non solo il Signore
della Jungla avrebbe avuto modo di reclamare e vedersi riconoscere il
proprio titolo legittimo di Lord nonché ottenere la mano dell’amata Jane. Ma
avrebbe fatto del suo ideatore uno degli autori più famosi e più ricchi della
storia.
Quando morì, il 19 marzo 1950 a causa di un attacco di cuore (l’organo
che bene o male aveva segnato il suo destino, dirottandolo dal Settimo Cavalleria
alla penna più di 50 anni prima), le sue ceneri furono sparse sul suolo di una
città che portava nientemeno che il nome della sua creatura più famosa, Tarzana, California, U.S.
Aveva fatto in tempo a trovarsi a Pearl Harbor il giorno dell’attacco
giapponese, il 7 dicembre 1941. E come i suoi John Carter e John Clayton in
arte Tarzan, non aveva esitato un
istante ad arruolarsi – alla veneranda età di sessantasei anni – come corrispondente
di guerra.
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