Compie 80 anni
oggi Silvio Berlusconi, l’uomo che – comunque lo si giudichi -
ha scritto, o contribuito a scrivere, forse, il maggior numero di pagine della
storia dell’Italia repubblicana, insieme a Gianni Agnelli. Il Cavaliere
e l’Avvocato. La Finivest e la Fiat,
il potere economico e poi politico che hanno determinato e indirizzato la
qualità della nostra vita e della nostra storia contemporanea.
Peccato non poterci essere quando tra 100
anni gli storici daranno il loro giudizio definitivo su di lui, Silvio
Berlusconi. Chissà cosa avrà prevalso, l’immagine dell’uomo che ha cambiato
irreversibilmente la storia d’Italia o quella di colui che ha esaltato in
maniera parossistica i vizi peggiori degli italiani? L’uomo che vendeva da
giovane scope elettriche porta a porta e che sembrava ad un certo punto
addirittura candidarsi a diventare presidente di una Repubblica
riformata in senso presidenziale, o quello che investiva da
giovane soldi di cui nessuno ha mai accertato la provenienza (ma molti hanno
vociferato a proposito delle più equivoche)? Il demiurgo oppure il grande
corruttore (anche se a tutt’oggi degli oltre venti procedimenti giudiziari
a lui intentati solo uno è arrivato a condanna definitiva, e con modalità che
hanno destato più che qualche perplessità)?
Giulio Cesare, per dirne
uno, è considerato unanimemente una delle più grandi figure storiche di tutti i
tempi. Genio politico e militare, uomo che cambiò in modo definitivo la storia
del suo tempo e di tutti quelli a venire, dai suoi contemporanei fu esaltato o
detestato senza mezze misure, né fu fatto oggetto da essi di quel minimo di
obbiettività che sarebbe necessario ma che è tuttavia impossibile adottare da
parte di chi vive nello stesso tempo della persona in questione. L’uomo che
distrusse la Repubblica Romana, oppure l’uomo che permise la nascita e la
prosperità dell’Impero Romano. L’uomo a cui si rivolgevano speranzosi e grati
migliaia di veterani legionari e l’immensa plebe romana, ed anche
quello che i suoi stessi parenti decisero di uccidere con 23 coltellate.
Chissà quanto tempo dovrà passare perché
Silvio Berlusconi sia fatto oggetto di un giudizio storico obiettivo. Le
passioni del proprio tempo sono sempre troppo intense per permetterlo. E allora
chi vuole scrivere su di lui ha di fronte la materia più difficile. Perché da
lui e intorno a lui passa tutta la storia d’Italia, e non solo quella degli
ultimi 20 anni. Nei primi anni settanta, all’epoca della fondazione della Fininvest
e prima ancora della costruzione di Milano 2, giornalisti autorevoli
come Giorgio Bocca si chiedevano a voce più o meno alta da
dove provenissero i capitali impiegati da questo costruttore che si stava
affermando rapidamente, in un panorama nel quale, nell’Italia di allora del boom
economico, di costruttori edili ce n’erano a bizzeffe.
Finanziatrice di molte delle sue opere
era la banca d’affari Rasini, di cui suo padre era
amministratore delegato. E dentro cui è stato detto che transitasse denaro di
provenienza non proprio limpida depositato da signori che non erano
propriamente benemeriti della Repubblica, da Michele Sindona a
Bernardo Provenzano e Totò Riina, da Roberto
Calvi a Licio Gelli a Monsignor Paul
Marcinkus. Niente di tutto ciò ovviamente è mai stato provato, almeno
sotto il profilo del riciclaggio di denaro poco pulito. Ma materia per dubitare
ce n’era, come del resto è legittimo che sia.
A fine anni settanta, un Berlusconi che
aveva ormai raggiunto prestigio e notorietà e fondato la sua creatura più
importante, la Fininvest, acquisì due titoli che alimentarono entrambi
i filoni della sua leggenda, quella bianca e quella nera: il Cavalierato
del lavoro (per cui da allora è il Cavaliere, come Agnelli
appunto era l’Avvocato) e la tessera della Loggia di
Propaganda 2. E’ storia che conoscono tutti, anche senza aver letto
Giorgio Bocca o Marco Travaglio. Da lì in poi, il mito
dell’imprenditore di successo che rappresentava il sogno italiano al
suo meglio e quello dell’intrallazzatore che realizzava per conto proprio o di
altri il piano di rinascita democratica elaborato dalla P2
procedettero di pari passo. Da lì in poi, non fu più questione di obbiettività,
ma più spesso di ideologia o simpatia a pelle, ed ognuno scelse la leggenda che
più gli si confaceva.
Un punto in particolare di quel Piano,
qualunque fosse il suo rapporto con chi l’aveva ideato, l’imprenditore
Berlusconi dimostrò di apprezzare e di voler realizzare: «il vero potere
risiede nelle mani di chi ha in mano i mass media». Certo, non ci voleva
Licio Gelli per una intuizione del genere, bastava aver visto Quarto
Potere di Orson Welles. Da che esistono l’industria e
la stampa, gli industriali hanno sempre cercato di possedere quotidiani prima e
televisioni poi. Fatto sta che non appena nel 1976 la Corte
Costituzionale liberalizzò le frequenze televisive sottraendole al
monopolio di stato, Berlusconi fu uno dei primi ad intuire la potenza dell’arma
di cui all’improvviso era possibile dotarsi. Con l’acquisto di Canale 5 Silvio
Berlusconi fece l’ultimo e decisivo passo verso la storia che tutti conosciamo.
Profondamente anticomunista, grande
comunicatore esperto di marketing (non per nulla la sua tesi di laurea
riguardava la pubblicità a pagamento sui media), grande istrione capace di
tenere avvinta con le sue parole apparentemente spontanee ma in realtà
attentamente calibrate una platea variegata, il Tycoon Berlusconi usò
i suoi mezzi di informazione, le reti Mediaset, il Giornale
(per poco) di Montanelli e le case editrici che stava
acquisendo, per la propaganda dapprima in favore dell’amico Bettino Craxi,
segretario del P.S.I. anticomunista quanto e più di lui, e poi
in favore di se stesso.
Quando venne il momento di scendere in
campo, nel 1994 dopo Mani Pulite e la fine della cosiddetta Prima
Repubblica, nessuno poteva meravigliarsi delle sue capacità di
rivolgersi al più eterogeneo elettorato che la storia d’Italia ricordi e di
convincerlo (nel più breve tempo che la stessa storia registri) ad affidarsi a
lui. Nessuno poteva meravigliarsi, se non i suoi avversari politici che
credevano di aver fatto o ottenuto tutto ciò che serviva a vincere, con
l’abbandono della Falce e Martello, il crollo del Muro
di Berlino e la fine dei partiti di governo sotto la spinta del Pool
di magistrati di Milano. E invece scoprirono che c’era una parte del paese per
nulla convinta della gioiosa macchina da guerra di Achille
Occhetto, e che a quella parte Silvio Berlusconi aveva saputo parlare.
Loro invece no.
Sui vent’anni in cui Berlusconi ha
governato o ha fatto opposizione a Prodi, D’Alema
o chi per essi, i vari alter ego che la sinistra gli ha opposto a
partire dalla fine anni novanta, si esprimerà la storia, e giustamente. Quello
che si può dire senza mancare di obbiettività allo stato attuale, è che il
politico Berlusconi si è dimostrato – a prescindere da qualsiasi considerazione
sulle sue motivazioni e le sue finalità – di un’altra categoria rispetto ai
suoi competitors.
Anche adesso che per età e per
vicissitudini personali e politiche sembra ai margini del gioco, l’onda lunga
delle conferme di quanto sopra continua a lambire la nostra vita pubblica. In
un panorama politico che sembra ritornato quello dei tempi della televisione in
bianco e nero, con una serie di governi tecnici o comunque non votati ma
piuttosto subìti dalla gente che insieme all’esplodere di scandali da far
impallidire il ricordo di Mani Pulite hanno di fatto favorito
un pericolosissimo distacco di quella stessa gente dalla politica, il periodico
riapparire dell’ex premier Silvio Berlusconi ha continuato a bucare lo
schermo come ai vecchi tempi.
Quando scelse finalmente di affrontare la
sua Nemesi Marco Travaglio in una puntata di Servizio Pubblico
di Michele Santoro divenuta storica, il Cavaliere
ottenne un risultato molto più significativo dei nove milioni di spettatori
registrati quella sera. Sancì il ritorno (momentaneo) del colore, in senso
figurato ma anche sostanziale, in quella campagna elettorale di allora e in
generale in una vita politica e civile che é sembrata in seguito destinata
all’encefalogramma piatto ed avviata verso la crisi della democrazia in Italia.
Fu l’ultima volta che il centro-destra
sembrò avere un unico leader effettivo, capace di rimettere in moto l’intero
sistema politico italiano azzerato ed avvilito dal governo burocratico-bancario
dei professori prima, e da quello riformistico-ciarlatanesco degli affabulatori
poi.
Fu anche l’ultima volta che il sistema
politico italiano poté godere, beneficiare (si fa per dire) di quella tendenza
alla semplificazione che ne ha avvelenato il funzionamento negli ultimi
vent’anni: o con Berlusconi o contro Berlusconi. E tutti contenti,
nessuno escluso, perché era tutto molto più semplice piuttosto che elaborare un
programma politico in grado di dare risposte alla crisi economica che
attanagliava ed attanaglia tutt’ora il nostro paese ed il nostro continente.
Come già successo per Mussolini
ed il Fascismo, con Berlusconi in campo il quadro era
semplificato a prescindere, o pro o contro, e pazienza se la gente aspettava di
sapere cosa avrebbe fatto il prossimo governo per risollevare l’economia degli
anni 2000.
In quel quadro politico, comunque, era
indubbio che il Grande Comunicatore avesse avuto una marcia in più, e
fosse riuscito a toccare corde nell’elettorato di cui gli altri ignoravano e
ignorano l’esistenza. Come la Thatcher nella Gran Bretagna
degli anni 80, dominatrice assoluta della scena finché il Labour Party
non seppe opporle un alter ego capace di dispiegare la stessa
efficacia ma nel campo opposto, Tony Blair, così anche il Partito
Democratico sembrò però alla fine aver trovato il competitor
adatto a confrontarsi non tanto con un Berlusconi avanti negli anni e nel
frattempo alle prese anche con la propria salute, quanto con il berlusconismo
come sistema, perché - come il Cavaliere - apparentemente capace di
parlare agli elettori nel modo in cui essi vogliono, a torto o a ragione, che
ci si rivolga loro.
Matteo Renzi, anch’egli
personaggio controverso di questo scorcio di storia politica italiana, amato o
odiato senza mezzi termini ma comunque dotato del dono di saper parlare al
popolo scegliendo toni e argomenti giusti, è nel frattempo diventato
molto più che il leader del centrosinistra. Gli ultimi gesti politici rilevanti
di Silvio Berlusconi, prima dell’infausta campagna elettorale amministrativa a
Roma, sono stati non a caso quelli di benedire la vittoria di Renzi alle primarie
del PD, e poi di stipulare il patto del Nazareno, dove è stato
disegnato il percorso politico-istituzionale che stiamo attualmente compiendo.
Basato sull’intuizione, interessata e condivisa dallo stesso PD, che la forza
antisistema di Beppe Grillo e dei Cinque Stelle
fosse un pericolo ulteriore per quella democrazia che essa si proponeva di
rifondare, oltre che per le rendite di posizione vigenti.
Nell’allora giovane sindaco di Firenze
l’allora leader del PDL riconobbe inevitabilmente un
antagonista più formidabile di quanto la sua età gli avrebbe forse consentito
di affrontare, ma nella sua ascesa scorse anche la non necessità di un simile
antagonismo. Paradossalmente, Renzi era colui in grado di portare a compimento
il suo stesso programma. Magari accentuandone molti aspetti in senso più
confusionario e meno liberal.
Ma si sa, questi ragazzi non son più
quelli di una volta, e nemmeno le scuole che hanno frequentato. Si fanno
prendere dall’affabulazione e dall’entusiasmo. Eventualmente, per dare consigli
preziosi, le porte di Arcore per Renzi c’è da scommettere che sono
comunque aperte. Poi, come sempre, sarà quel che il popolo italiano vorrà.
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