Me lo trovo davanti all’improvviso.
E di colpo 30 anni svaniscono. Non ce ne siamo mai andati da qui. Abbiamo
lanciato i cappelli in aria 30 anni fa, più o meno a quest’ora. Ma poi siamo
rimasti qui. La parte migliore di noi è rimasta qui, dove è stata forgiata.
Gli ultimi metri per arrivare
alla porta carraia della Scuola di Fanteria sono stati da batticuore, come l’altra
volta due anni fa. Allora c’era stata più emozione, stavolta è come avere la
consapevolezza di tornare a casa. Una sensazione di quiete, e di serena
aspettativa. Stavolta so esattamente cosa mi aspetta. Una caserma che non è più
la mia, la nostra caserma, eppure è ancora lei. Completamente diversa, nelle
camerate che non sono più quelle dove abbiamo sofferto e sperato, sorriso,
pianto, battuto i denti dal freddo e dormito per cinque mesi, e che adesso
sembrano le stanzette di un centro benessere. Ma assolutamente uguale in tutto
il resto.
Anche noi siamo uguali a 30 anni
fa. Con qualche chilo in più, i capelli ingrigiti (chi li ha ancora), sul volto
l’espressione di una vita trascorsa verso le direzioni più disparate, da quando
ci siamo salutati lasciando Cesano. Ma c’è un dettaglio, un particolare che non
tradisce, consentendo a tutti di riconoscerci subito, malgrado tutto il resto
che è cambiato.
Sono gli occhi. Gli occhi sono
sempre gli stessi. Qualcuno ha la luce vivida di chi ha trovato il successo.
Qualcun altro li ha offuscati da una penombra, come chi il successo l’ha solo
sognato e mai raggiunto, oppure l’ha visto scorrere via. E se n’è fatto una
ragione, oppure non se l’è mai perdonato. Ma gli occhi sono lo specchio dell’anima,
e la nostra anima è stata tirata fuori dal guscio qui. A Cesano di Roma. Gli
occhi non mentono, dicono chi eri e chi sei, senza bisogno di guardare alla
targhetta con il nome, cognome, compagnia e plotone che ognuno di noi ha
appuntata alla giacca.
Gli occhi di Michele Del Piero
sono sempre gli stessi. Ha gli occhiali adesso, e quando mi parla dopo avermi
stretto le mani la sua voce è quella tranquilla di un cinquantenne come me, non
più quella carica di energia (e di umanità che covava sotto la brace ardente)
di quel ragazzo che in tre mesi ci insegnò che cos’è un comandante e ci fece
desiderare di esserlo. Di essere come lui.
Mi guarda negli occhi, e
attraverso le lenti che il tempo gli ha aggiunto al volto il suo sguardo è
sempre lo stesso. E di colpo mi ritrovo a Forte Bravetta, nella settimana del
più bel Natale della mia vita, quello che – durante la guardia armata alla
polveriera di Roma – mi vide stringere alcune delle amicizie più forti e
durature di tutta la mia vita. Durature quanto la mia vita, ed anche oltre.
Gli occhi di Michele sono
particolari. Con lui non puoi fingere. Non potevi farlo 30 anni fa, quando ti
strigliava cercando di tirare fuori da te il meglio (“non vi chiedo niente che
non abbia già chiesto ed ottenuto da me stesso”, quante volte ho ripensato a
questa frase, diventato comandante a mia volta e poi nella vita civile). Non
puoi farlo adesso, che te lo ritrovi davanti all’improvviso quando pensavi che
non lo avresti più rivisto, una delle tante immagini del passato rimasta chiusa
in un album.
Invece eccolo qui, ed è giusto.
Che ricorrenza del 121° AUC sarebbe stata questa, senza colui che ha segnato
quel corso come nessun altro? In un attimo, la contentezza mi travolge. Ho
ritrovato il mio vecchio comandante, per rendermi conto in un attimo ed in
poche parole scambiate che adesso, 30 anni dopo, è soprattutto un mio vecchio,
carissimo amico.
Mentre mi parla e mi racconta del
perché non rimase a fare il lavoro per cui sembrava tagliato come nessun altro
- lui che era stato capocorso del 117°, per non restare a lavorare nel posto
dove lavorava suo padre - mi viene in mente quello che ho provato io proprio in
questi giorni, rendendomi conto che invece è quello che ho fatto io. Uno
sbaglio colossale, perché la gente non ti apprezzerà mai per quello che sei, ma
ti valuterà sempre e comunque perché sei “figlio di….”.
Quando mi parla invece delle sue
difficoltà attuali, mi viene in mente invece la fine del film Rambo, quando
Sylvester Stallone rompe gli argini dell’emozione e si chiede, e chiede al
mondo: “nell’esercito pilotavo mezzi che costavano milioni di dollari, e adesso
nella vita civile non vogliono affidarmi nemmeno un posto da commesso in una
ferramenta???”. O qualcosa del genere. Eravamo comandanti di uomini. Nella vita
civile adesso tocca sottostare a qualche imbecille messo lì dalla politica, o
da qualche strategia assurda di marketing. Un imbecille che nemmeno ha dovuto
farsi mezzo metro a passo del leopardo per dimostrare di valere qualcosa.
Quando mi congedai, il mio
comandante del 3° battaglione Granatieri di Orvieto me lo ripeté più volte: “sei
proprio sicuro? Guarda che là fuori non è come qui, è una giungla di belve”. E
io giovane ingenuo desideroso di chiudere con un servizio, quello militare, che
allora non andava di moda, dissi che sì, ero sicuro. Per poi maledirmi per
buona parte degli anni a venire per aver lasciato quella che era una casa più
confortevole delle altre che ho trovato dopo.
E’ questa consapevolezza che ci
vela appena gli occhi, mentre parliamo e camminiamo sui vecchi percorsi della
Scuola di Fanteria. Nel frattempo,
eccoli arrivare, Davide Zanon, Nico Di Marco, Massimo Petti. Con loro ormai
basta uno sguardo e ci siamo detti tutto. Con Totò Russo, Sandro Bellini,
Roberto Manigrasso, Bruno Bellassai ci vuole qualche parola in più, ma a noi piace così. Le
parole ci piacciono, quando escono dal cuore meglio una in più che una in meno.
Ecco Domenico Garaffa, l’altro
del 117° che rese il 121° un ricordo indelebile insegnandoci che si può avere
carisma senza perdere un briciolo della propria umanità. Che come gli antichi
samurai giapponesi, si può essere guerrieri conservando un animo sensibile. Il
samurai scriveva poesie quando riponeva la katana. Io aspetto le nuove poesie
di Domenico, per tuffarmici dentro nuovamente e provare a spiegare al mondo
tutto quello che io so di lui e dei suoi versi fin dal primo giorno in cui lo
sentii rivolgerci la parola.
Non c’è il comandante Angelini,
un altro a cui 30 anni dopo avremmo avuto tante cose da dire, e che forse non c’è
neanche bisogno di dire. Lui sa già tutto. C’è Giorgio Gabrelli, un altro i cui
occhi sono inconfondibili, immutati dal tempo. Un altro con cui era difficile
fingere 30 anni fa, e con cui è difficile fingere adesso. Non c’è Bocci
stavolta, ma c’era due anni fa, e ormai è un vecchio amico anche lui.
Non c’è Giorgio De Luca, un altro
samurai che trovò la sua katana proprio nei giorni di Cesano. Non c’è Massimo D’Antonio
che volevo riportare a finire quello che era rimasto in sospeso 30 anni fa. Ce
ne sono tanti altri, ma tanti mancano. Che Dio ci dia vita a sufficienza per
riportare qui anche loro, prima o poi.
La Prima Compagnia Mareth non c’è
più. Al suo posto una delle Spa in cui si sono trasformate le caserme del nuovo
esercito di volontari dopo la riforma del 2000. Che peccato, dove andrà mio
figlio tra 30 anni a ricercare le origini della propria anima e il senso della
propria vita? A rincontrare le sue amicizie più forti? A ritrovare quel muro
che mi ci volle di sputare sangue per scalarlo, quella pista intorno alla quale
ho quasi lasciato il fegato e la milza per fare il tempo necessario ad essere
ammesso all’ottava settimana?
Stavolta non c’è tempo di andare
a Porta Nord, ma ai Monti di sant’Andrea ci andiamo comunque a mangiare, dalla
parte del lago di Martignano. Nessuno guarda Del Piero, per un inconscio
residuo di timore che ti faccia fare qualche scalata tra i cardi. Poi alla fine
scappa da ridere a tutti. Il lancio di bombe di Natale Cozza (per non parlare
di quello del nostro Pierluigi Breschi) è uno dei ricordi più cari per tutti,
soprattutto per chi l’ha pagata con una mezzoretta di passo del leopardo. I
sacchetti messi per l’alluvione a difesa del piazzale di compagnia, la fuga dal
poligono di Monte Romano prima che il secondo plotone cominciasse a sparare in
anticipo, la marcia notturna di esfiltrazione, la settimana di pattuglia
invernale, il sollievo al ritorno da quella pattuglia di una doccia gelata
nella settimana più fredda di quell’inverno.
Sono cose che può capire solo chi
c’era. Sono cose che ai nostri figli mancheranno. Sono cose che ci faranno
attendere il prossimo raduno con la stessa ansia con cui abbiamo atteso questo.
E mentre torni a casa, la notte, con milioni di immagini, di suoni, e di
ricordi che ti frullano per la testa e ti fanno dispiacere che questa giornata
sia già finita, arriva un messaggio di Totò Russo e ti piega in due dalla
commozione. Chi siamo noi e chi eravamo.
Caro Totò, il fatto è che noi lo
sappiamo da 30 anni chi siamo. E anche se siamo sempre rimasti qui, oggi finalmente siamo
tornati a casa.
“Non ho mai più
avuto amici come quelli….. Gesù, ma chi li ha?”
(Stand by me, Stephen King)
"Non occorre che un uomo
sappia cosa avverrà alla fine del giorno dopo, è sufficiente che il giorno
finisca e la conclusione sarà nota; se ci rincontreremo allora sorrideremo,
sennò, sarà stato lo stesso un bell'addio".
(Caio Giulio Cesare, William Shakespeare)
come mi sembra vicino quel raduno.
RispondiEliminaOggi è il 25 Aprile e sono in vena di rivangare vecchi ricordi. Cercando vecchie foto di Cesano ho trovato il tuo blog (scusami il "tu" sono solo del 126°). Beh,complimenti in fondo le vicissitudine trascorse da un allievo a Cesano risultano,nella maggior parte dei casi,le stesse per tutti anche cambiando corsi e cognomi. Mi è piaciuto molto il passaggio del tuo racconto inerente i momenti del primo incontro dopo tanti anni. Anche noi l'abbiamo organizzato a Maggio dell'anno scorso e ho vissuto qualcosa di decisamente simile.
RispondiEliminaGrazie delle emozioni che hai saputo trasmettere. Max
Caro Max, grazie delle tue parole. E certo che ci diamo del tu, è passato un tempo sufficiente perché ormai apparteniamo tutti ad un unico, irripetibile corso. Quello che purtroppo i nostri figli non avranno. Emozioni che possiamo solo descrivere, e cindividere tra noi e chi avrà ancora voglia di ascoltarci. Ti abbraccio forte,
EliminaSimone
Ho fatto il 149° Corso AUC (1992) ero alla 1^mareth.....oggi sono un Ten.Col. dei Carabinieri.....ho pianto e non me ne vergogno leggendo il tuo articolo.....quanti ricordi!!! E' vero non siamo mai andati via di li'...grazie!!!
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EliminaCi mancherebbe che ci dovessimo vergognare dei nostri migliori sentimenti! Qua la mano, fratello Carabiniere. E grazie a te!
EliminaGrazie Simone...
RispondiEliminaGrazie Simone! Un abbraccio a Te e a tutti gli amici AUC da un allievo del 149° Corso.
RispondiEliminaGraziano