Chi siamo noi? Un ufficiale va in
congedo soltanto temporaneo, provvisorio. Basta ritrovarsi una mattina nel
Piazzale del Fante alla vecchia scuola (ma se per questo anche di fronte ad una
qualsiasi bandiera tricolore), perché sensazioni e sentimenti che credevamo
sepolti sotto trent’anni di vita civile tornino fuori prepotentemente. Come se
avessimo lanciato i berretti in area pochi minuti fa, e invece di disperderci
ai quattro venti fossimo rimasti in attesa dell’adunata successiva.
Ci ha messo trent’anni ad essere
chiamata, quell’adunata. Ma invece che il 12 marzo 2016 sembrava il 14 marzo
1986. La mattina dopo il saluto del Comandante e la consegna dei gradi. Cancellati
di colpo i ricordi, le ferite, le SAST a cui la vita ci ha sottoposto nel lungo
percorso per ritornare qui, in questo Piazzale e poi poco più in là, sugli
scalini della Tommaso Monti.
Hai voglia a stupirti dei segni
impietosi del tempo, non solo sui nostri volti e sui nostri corpi ma anche e
soprattutto sul Primo Battaglione. Quando entri, i tuoi occhi (malgrado le
diottrie lasciate indietro e le lenti più o meno spesse che le hanno sostituite)
vedono benissimo. Vedono la vecchia Cesano com’era, e come sarà sempre per noi.
Sulla sinistra c’è l’ufficio del
Comandante Angelini, di fronte l’ingresso dello spaccio, a destra i corridoi e
le camerate della Prima Mareth. Le stanze del capitano Foti e dei subalterni,
poi il tavolo dello Scelto, poi ancora a sinistra le camerate del Primo Plotone
e di seguito su per il corridoio quelle del Secondo, Terzo, Quarto e Quinto. Da
un lato, a metà l’armeria, dall’altra la saletta della televisione a cui per
avere accesso era necessaria una raccomandazione dello Stato Maggiore della
Difesa (ho odiato veramente i nostri ufficiali istruttori una volta sola, una
sera che si giocava Italia-Germania….).
Più avanti il magazzino, mi
sembra ancora di veder uscire Davide Zanon con una tavola da surf sottobraccio
il giorno della grande alluvione di Cesano, esclamando: “E venne il giorno
della grande onda!”. Più avanti ancora, oltre il Quinto, l’Aula Magna, o come
si chiamava. Quella che ti mettevano a pulire quando eri consegnato. Io ne feci
la conoscenza subito, due giorni da Giorgio Gabrielli per schiamazzi durante il
trasferimento a mensa. Da allora, quando mangio, sono compostissimo. Poi altri
tre giorni da Michele Del Piero per aver lavato gli anfibi in bagno. Da allora,
le mie case sono rigorosamente dotate di rimessa con lavabo, e le mie scarpe
arrivano in casa perfettamente linde e lustre. Mi spiegò come fare, alla
perfezione, il Capitano Foti, nell’udienza pomeridiana ai puniti.
Chi siamo noi? Che cos’è che ci
tiene legati a questi posti? Non è solo il ricordo della nostra giovinezza. E’
qualcosa di più, di meglio. E prima o dopo l’abbiamo capito tutti. Qualcuno
sabato confessava di essersi portato dietro una punta di – diciamo così –
risentimento per qualche passo del leopardo in più rispetto a quello che
sentiva come “dovuto”. Un nodo che solo rientrando a Cesano era riuscito a
sciogliere, avendo finalmente compreso che tutta la sua vita successiva – nel bene
e nel male, ma soprattutto nel bene – era partita da lì, da quel passo del
leopardo.
Non ero il migliore del corso,
non ho mai preteso di esserlo. Ma credo di essere stato uno dei primi a capire
come funzionava Cesano e perché funzionava così. E ad andarmene il 13 marzo
1986 dalla scuola in pace con me stesso e con chi aveva fatto di me un
ufficiale e un gentiluomo. In pace ed in gratitudine. Con la speranza un giorno
semmai di rivedere gli istruttori AUC di ogni grado, e di poter dire loro
queste cose.
Sapevo perfettamente perché ero
lì, e perché dovevo sputare sangue. Ero lì perché l’avevo chiesto io, ma sapevo
esattamente cosa avevo chiesto. Quella era una scuola di guerra. Una scuola per
ufficiali dell’esercito, in un’epoca in cui la guerra alle porte di casa nostra
era ancora una ipotesi verosimile. In un’epoca in cui il servizio militare era
tutt’altro che di moda. Dopo il 1943 non lo è più stato, chi ostentava una
divisa era già tanto se se la cavava sentendosi dare del “fascista”. Chi
parlava con orgoglio e trasporto del proprio servizio militare si vedeva
emarginato, ridotto ai margini dei salotti e dei convivii della vita civile.
Niente e nessuno, pur arrivando
alla stazione di Cesano o salendo sul pullmann a Viale Giulio Cesare a Roma con
le migliori intenzioni, ci aveva preparati a quello che ci aspettava. Dal momento
in cui varcavamo la porta carraia della scuola, dal primo urlo con cui venivamo
accolti un istante dopo, il mondo in cui eravamo precipitati non aveva niente
in comune con quello in cui eravamo vissuti fino ad allora. C’è una frase del
capitano Foti riportata nel giornalino del corso, l’intervistatore gli chiede
quale è la sua soddisfazione più grande, e il capitano risponde: “trasformare
dei giovani, timidi studenti in sicuri comandanti”.
Ecco cosa eravamo. Dei giovani,
timidi studenti che avevano vissuto in un mondo immerso in una pace artefatta e
illusoria. Alcuni avevano alle spalle una freschissima Maturità. Altri una
Laurea, come me, e qualcuno che aveva già cominciato a chiamarci “dottore”. Tutti
dovevamo “riprogrammarci” nel più breve tempo possibile, con ogni mezzo lecito
ai sensi del codice militare, per diventare persone in grado di difendere con
le armi il proprio paese. Difendere e far difendere, perché comandare – come dice
ancora il capitano Foti in quell’intervista – è la cosa più difficile che ci
sia. Molto più facile ubbidire.
Ecco cosa siamo diventati. Gente
in grado bene o male di dire ad altri – in qualunque attività si siano messi –
cosa devono fare e perché, di dirlo con fermezza e con le dovute maniere. Di
ottenere risultati da altri. Il destino ha voluto che nella nostra epoca
nessuno di noi ha dovuto prendere le armi per difendere la propria casa, la
propria famiglia, la propria patria. Poteva succedere, e ci piace pensare che
saremmo stati pronti. Nella nostra epoca invece, la vita civile ci ha chiamati
spesso a lavori difficili, frustranti, funestati dalla vigenza di strategie e
tattiche assurde, idiote a volte, e dalla presenza in comando di individui che
non avevano altro merito che quelle raccomandazioni che a Cesano ci davano, a
torto o a ragione, tanto fastidio. E non
avevamo ancora visto nulla.
Farsi una collina di Sant’Andrea
a passo di leopardo serviva a questo. Farsela a 40° o a 0° centigradi, dopo una giornata
di addestramenti che non avevano scherzato, con la prospettiva in caso di
fallimento di andare incontro a punizioni ancora più dure, serviva ad andare
oltre i propri limiti. Perché in guerra un nemico non ti perdona, se vede un
tuo punto debole è lì che colpisce. E il tuo punto debole è il punto debole di
tutta la tua squadra, di tutti i compagni che confidano su di te per riportare
a casa anche la loro pelle.
Nella vita civile è la stessa
cosa, nessuno ti perdona niente e tutti aspettano il tuo punto debole per colpirti. E gli amici, quelli veri, quelli che possono darti una mano sono pochi. Si contano forse soltanto sulle pagine di un giornalino di corso A.U.C. Ma nessuno è più abituato a considerarlo. Il servizio militare non
esiste più, niente prepara più i nostri figli e le nostre figlie ad esercitare
valori diversi da quell’individualismo assoluto che impera adesso. “Dopo di me,
attorno a me, il diluvio”. Noi sapevamo sempre che, durante un assalto come una
esfiltrazione, come una guardia armata o una semplice corvée o una andata a
mensa, alla nostra destra come alla nostra sinistra c’era sempre un compagno
pronto a darti una mano e ad aspettarsela da te. Nel buio di quelle notti
gelide dell’inverno 1986 non eravamo mai veramente soli. Dopo, lasciata Cesano
ed il servizio, ci siamo ritrovati più soli che mai. Il mondo cambiava, ed a
far fronte a quella solitudine che avanzava, di nuovo nessuno ci aveva preparati.
Ecco che cosa siamo. Quelli dell'ultima generazione entrata a Cesano per uscirne ufficiali e gentiluomini. Non c'é bisogno di aggiungere altro. Ho impiegato un sacco di parole per dirlo. Credo comunque che ad ognuno di noi sia bastato riguardarsi negli occhi sabato mattina scorso per capire in un lampo tutte queste cose. O forse, le sapevamo già tutti. Da sempre.
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