Ricordo che ero a scuola quando arrivò la
notizia. Un commando delle Brigate Rosse
ha rapito il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro. Una bomba,
più devastante ed assordante di quelle che all’epoca scoppiavano qua e là per
l’Italia, campo di battaglia della Strategia della Tensione,
degli Opposti Estremismi e di chissà quanti altri episodi di
quella Guerra Fredda quasi calda che si combatteva nelle
nostre città, nelle nostre vite.
A scuola,
non passava quasi giorno senza che nessuno telefonasse per annunciare la
presenza di qualche fantomatica bomba, con la conseguenza magari di provocare
l’uscita anticipata di studenti e personale scolastico, quando la minaccia
sembrava più verosimile. A volte era addirittura qualcuno di noi che
telefonava, in concomitanza di qualche compito o interrogazione scottante, per
provocarne il rinvio.
Quel
giorno, la bomba scoppiò davvero. Peggio di una atomica, avrebbe cambiato il
nostro mondo e la nostra storia per sempre. Niente sarebbe stato più come
prima, per noi ragazzi, per gli adulti, per l’Italia che ci sembrava andare in
pezzi un po’ alla volta ogni giorno, e che quel giorno sembrò arrivare davvero
sull’orlo del baratro.
Era il 16
marzo 1978. Quando la notizia ci raggiunse, all’ora di ricreazione,
il fatto era già successo da qualche decina di minuti. A Roma, in Via
Fani, lungo il tragitto che percorreva per raggiungere Montecitorio
dalla propria abitazione nel quartiere Trionfale in zona Monte Mario, Aldo
Moro, presidente del partito di maggioranza relativa che governava
l’Italia da 34 anni ininterrottamente – la Democrazia Cristiana
–, mentre si recava a presenziare al voto di fiducia della Camera dei Deputati
a quello che avrebbe dovuto essere il 34° governo della Repubblica Italiana
dalla sua proclamazione, era stato aggredito da un commando BR
composto da personaggi i cui nomi erano destinati a diventare tristemente
famosi presso l’opinione pubblica italiana: Valerio Morucci
detto Matteo, Franco Bonisoli detto Luigi, Prospero
Gallinari detto Giuseppe, Raffaele Fiore
detto Marcello, Barbara Balzerani detta Sara.
A Via Gradoli, in uno dei covi che le indagini successive
avrebbero sfiorato ma incredibilmente mai scoperto, erano rimasti i cervelli Mario
Moretti detto Maurizio, Adriana Faranda
detta Alessandra. All’incrocio della fatidica Via Fani con Via Stresa
era scattata la trappola, con le auto dei brigatisti che avevano bloccato
quelle su cui viaggiavano Moro e la sua scorta.
Il corpo dell'agente Giulio Rivera riverso nella 128 dopo la strage |
In pochi
secondi, il maresciallo Oreste Leonardi e gli agenti Domenico
Ricci, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera
e Francesco Zizzi furono sterminati con freddezza ed
efficienza. Aldo Moro fu sequestrato e condotto da Mario Moretti nel covo –
prigione di Via Montalcini, dove sarebbe rimasto segregato per
i successivi 55 giorni, prigioniero del cosiddetto Tribunale del Popolo.
Ci sono
fotogrammi stampati a fuoco nella memoria collettiva di una intera generazione.
Bruno Vespa che con voce stravolta commenta assieme al povero Paolo
Frajese la carneficina di Via Fani. Papa Paolo VI che
rivolge il suo disperato appello in favore dell’illustre prigioniero agli Uomini
delle Brigate Rosse. La stella a cinque punte che campeggia su ciascuno
dei comunicati stampa consegnati dai terroristi agli organi di informazione. La
foto di un Aldo Moro dall’aspetto sempre più smunto e provato, spedita agli
stessi organi di informazione dalla prigione del popolo attraverso
chissà quale canale.
I
brigatisti si sentivano i nuovi partigiani, come testimoniava il loro tragico
vezzo di scegliersi un nome di battaglia allo stesso modo dei combattenti della
Guerra Civile del 43-45. La loro lotta contro lo Stato Imperialista
delle Multinazionali era rimasta fino a quel momento – per quante
vittime poteva aver già fatto – quasi sotto traccia. Uno
dei fenomeni degenerativi di una società che dopo gli anni del boom
economico era entrata in crisi. Di crescita e di consapevolezza di sé.
A metà
degli anni settanta era chiaro che il vecchio Centrosinistra non bastava più ad
assicurare progresso e stabilità ad un paese i cui squilibri interni tornavano
ad essere penalizzanti, strutturalmente più forti di qualunque beneficio la
congiuntura economica potesse fornire. Aldo Moro era uno dei due cavalli di
razza della Democrazia Cristiana, secondo la celebre definizione di Indro
Montanelli, che avevano guidato il partito ed il paese dopo la
scomparsa di De Gasperi e la fine della ricostruzione post-bellica e l’inizio
del boom.
Diversamente
dall’altro, Amintore Fanfani, precocemente invecchiato ed
estromesso dalla leadership politica dalla battaglia per il divorzio che aveva
avversato, Moro aveva ancora un ruolo da giocare nell’attualità. La sua idea
delle convergenze parallele (artificio non troppo retorico e paradosso
politico che aveva simboleggiato l’avvicinamento della sinistra fino allora
considerata eversiva, quella comunista, all’area di governo, pur con la cautela
necessaria a non scontentare l’alleato americano) stava rapidamente evolvendo nel
cosiddetto Compromesso Storico.
Il
segretario del Partito Comunista Italiano di allora, Enrico
Berlinguer, malgrado il suo partito stesse registrando un avanzamento
storico e trionfale (culminato nel 34% alle politiche del 76. a pochi punti di distacco
dalla DC), aveva maturato la convinzione che in Italia non bastasse il 51% per
governare, almeno finché durava la Guerra Fredda (quell’ombrello atomico
della NATO che era oggetto di amore-odio per i comunisti di allora) e la conventio
ad excludendum nei confronti del P.C.I. dalla possibilità reale di
governare. La tragica vicenda cilena con il rovesciamento sanguinoso di Salvador
Allende e del governo di Unidad Popular stava lì a
dimostrarlo.
Enrico Berlinguer e Aldo Moro |
Quando Moro
se ne uscì con la proposta di un appoggio esterno comunista (preludio ad una
successiva partecipazione alla compagine ministeriale) al quarto governo
Andreotti da costituire di lì a poco, Berlinguer non se lo fece ripetere due
volte. L’abbraccio con la DC era l’unica via per il potere, e l’unica via
d’uscita dalla situazione di impasse del paese. Almeno così sembravano
credere tutti in quel momento.
Quella
mattina di marzo del 78 Moro uscì di casa per andare a votare la fiducia alla
sua ultima creazione, destinata nella sua intenzione a ripetere il geniale successo
del centrosinistra di quindici anni prima che aveva visto l’entrata del P.S.I.
di Nenni al governo del paese. Ma era scritto nella logica
della storia prima ancora che nel destino che non dovesse mai arrivare a
Montecitorio, né fare ritorno all’appartamento che condivideva con la moglie
Eleonora.
All’angolo
tra Via Fani e Via Stresa c’erano forze potenti, nemici implacabili ad
aspettarlo. A parte i brigatisti, che le quattro edizioni dei processi
celebrati in seguito avrebbero praticamente dimostrato tra l’altro essere
infiltrati da servizi italiani e di altre nazioni, c’erano sullo sfondo prima
di tutto due superpotenze per nulla soddisfatte della piega che gli avvenimenti
italiani stavano prendendo (gli USA perché non c’era barba di santo che si convincessero
a fidarsi a lasciar entrare un partito comunista – per quanto facesse
professione di conversione alla socialdemocrazia come quello di Berlinguer – in
una qualunque stanza dei bottoni dell’area NATO, l’URSS perché vi leggeva – e
non a torto – una fuga senza ritorno del P.C.I. dal controllo di Mosca). E come
se non bastasse c’era un quadro politico italiano parimenti scontento del
meccanismo di evoluzione che si era messo in moto tra Piazza del Gesù,
storica sede DC, e Via delle Botteghe Oscure, altrettanto
storica sede comunista. L’abbraccio con i comunisti veniva visto obtorto
collo da più esponenti politici di quanto non sembrasse all’apparenza.
Ad armare
la mano di Moretti & C. furono probabilmente in tanti, assai più di quanto
la storiografia ufficiale ci ha consentito finora di comprendere. Lo statista
pugliese (era di Maglie, nel Salento, era nato il 23 settembre 1916), era
destinato a chiudere i suoi giorni nella prigione del popolo di Via Montalcini.
Ed il suo progetto politico a morire con lui.
I sei morti di Via Fani |
Fu subito
chiaro non appena alla feroce determinazione dei brigatisti assassini
l’establishment politico scelse di contrapporre una inusuale – per il costume
italiano – linea della fermezza. Dei politici – e delle forze politiche – di
spicco, il solo Bettino Craxi neosegretario del P.S.I.
si dichiarò disposto alla trattativa, per salvare la vita di Aldo Moro. Gli
altri, a cominciare dai suoi compagni di partito e di una vita intera (in
primis quel Giulio Andreotti che una Camera dei Deputati
sconvolta aveva eletto a spron battuto di nuovo capo del governo lo stesso 16
marzo, e quell’Enrico Berlinguer che figurava come principale beneficiario
dell’azione politica dello stesso Moro), furono tutti per un no che
significava una condanna a morte.
Che fu
eseguita al momento di caricare Aldo Moro sulla celebre Renault 4 rossa poi
abbandonata in Via Caetani, a metà strada tra le due sopra
citate sedi storiche dei partiti che stavano celebrando il loro Storico
Compromesso. Ultimo schiaffo in faccia ad uno Stato che non era stato capace di
salvare la vita al suo esponente politico più importante, sesta vittima di Via
Fani dopo i cinque uomini della sua scorta.
Gallinari, Moretti e gli altri BR a processo |
Il seguito
è storia nota, almeno per chi ne ha mantenuta memoria. Le dimissioni del
ministro dell’Interno Francesco Cossiga (unico caso nella
storia della Repubblica), autoincolpatosi per non essere stato capace a
liberare il suo collega. Le dimissioni del presidente della Repubblica Giovanni
Leone, sull’onda del dramma in corso ma anche e soprattutto dello scandalo
Lockeed che aveva avviato anni prima la crisi conclamata del sistema.
«Non ci faremo processare nelle piazze», aveva detto in Parlamento
proprio Aldo Moro, senza immaginarsi che proprio lui sarebbe finito sotto
processo. Se non in piazza, in una cantina.
A giugno
arrivò l’elezione di Sandro Pertini ad invertire la tendenza
verso il baratro dello Stato e della società italiani. A quel punto, nessuno
parlava più di Compromesso Storico. Mentre le forze dell’ordine si mettevano a
dare la caccia sul serio ai suoi assassini, del testamento politico e morale di
Aldo Moro già non restava più niente.
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