Quell’anno la Colombina non aveva
fatto scoppiare il Carro. Come dicevano i vecchi, era un presagio infausto.
Significava disgrazia in arrivo.
La notte tra il 3 ed il 4
novembre 1966 l’Arno ruppe gli argini in vari punti del suo corso, dopo una
settimana abbondante di piogge torrenziali. Non fu il solo a farlo, mezza
Toscana andò sott’acqua. Ma dalle prime ore di quella mattina del 4 novembre
all’opinione pubblica di tutto il mondo restò impressa, e fatalmente finì per interessare,
una cosa sola: sott’acqua c’era andata tutta Firenze.
Appena le acque dell’Arno si
ritirarono, la città che era diventata Venezia per un giorno si ritrovò ridotta
come il Padule di Fucecchio. Una marea di fango, detriti e suppellettili. Una
marea di gente che piangeva disperata per tutto ciò (e in alcuni casi ancora
più drammatici per tutti coloro) che aveva perso, mentre si rimboccava le
maniche per cominciare a riaprirsi la strada verso la sopravvivenza e una vita
normale.
Da sinistra verso destra: Borri Mario, Angelo e il piccolo Simone |
Mio padre lavorava al
Provveditorato alle Opere Pubbliche, in Via de’ servi 15. Un palazzo storico,
splendido dentro e fuori come solo i palazzi del centro di Firenze possono
essere, figli di una nuova epoca classica dell’arte rinnovata dall’antica
Grecia in Toscana dalla famiglia Medici. Mi ci aveva portato da bambino, quando
la mamma non poteva tenermi a casa. I nonni, anziani, erano lontani, a Siena.
Le nonne se n’erano appena andate. Io giocavo da solo nei corridoi e negli androni
di quel palazzone aspettando che il babbo finisse di lavorare.
Ce ne fu per lui di lavoro dopo
quel 4 di novembre. Non ebbe più orari. Si ritrovò ad essere uno dei tre
funzionari a cui fu messa in mano la ricostruzione di Firenze e del resto della
Toscana, oltre al risarcimento dei danni ai privati. Circa 33.000 pratiche
soltanto per l’abitato di Firenze. Lui, Nello Riccio (il padre di quel dottor Mario
che molti anni più tardi avrebbe misericordiosamente aiutato Piergiorgio Welby
a porre fine alle sue sofferenze, allora mio amico d’infanzia) e Francesco
Sirgiovanni (con cui avrei avuto il piacere di lavorare 20 anni più tardi,
imparando un mestiere che loro avevano dovuto mettere a punto allora, in mezzo
al fango e ai disastri dell’Alluvione).
Ognuno di loro tre si ritrovò a
gestire risorse ingenti, per far fronte a danni ingenti. Prima che arrivassero
gli Angeli del Fango e il resto del mondo. Mio padre da solo si ritrovò in mano
– mi racconta sempre la mamma, orgogliosa – circa sei milioni di lire di allora
per affidare a trattativa privata le opere di ripristino. La quantità di denaro
che gestì poi per risarcimento ai privati è incalcolabile. Sempre più
orgogliosa, la mamma continua a dirmi che di quei soldi neanche una lira finì
in casa nostra. Lo stipendio di mio padre allora si aggirava sulle 50.000 lire
al mese. Le entrate di casa mia rimasero quelle.
Mio padre non ha mai avuto una
onorificenza della Repubblica, né allora né dopo. Non lo ricorda nessuno, se
non coloro che – se sono ancora vivi – sanno ancora oggi che ebbero la fortuna
di capitare provvidenzialmente alle mani di quel giovane funzionario che di
quei 33.000 si ricordava nome, cognome e numero di pratica, e che a tutti
assicurò giustizia e risarcimento al meglio che poteva. L’unica onorificenza è
la nostra memoria, di noi di famiglia che non abbiamo avuto altro in eredità che
il frutto del suo lavoro, ma soprattutto un nome da portare con orgoglio, come
pochissimi altri a Firenze allora e dopo si sono potuti permettere di vantare.
Quando nel 1972 il primo aprile
passò alla Regione Toscana insieme a molti altri impiegati per effetto del
decentramento amministrativo finalmente attuato quell’anno, Mario Borri era già
un nome conosciuto e rispettato dentro e fuori i pubblici uffici. Di quella
Regione fu a buon diritto uno dei padri fondatori. Un membro di quella elìte
che poté aggiungere a quanto aveva già fatto l’orgoglio di aver messo su dal
nulla una macchina amministrativa che tutta l’Italia allora ci invidiava.
Il bambino che aveva giocato nell’ufficio
del babbo negli anni dell’Alluvione adesso era diventato un ragazzo che andava
a trovare il babbo nel nuovo ufficio, il palazzo allora ancora in costruzione a
Novoli. C’era solo, terminato, il palazzo A, quello più lontano dalla strada.
Il palazzo B era uno scheletro e io sono stato uno dei primi a metterci piede,
assieme a mio padre. A quel tempo il processo di maturazione di quel ragazzo
che ero stava giungendo a compimento. L’orgoglio che provavo per quel padre mi
ha segnato la vita, perché adesso capisco perfettamente che avevo deciso già
allora di tentare di seguirne le orme. Di essere come lui.
Sono stato, adesso lo so, un
grande presuntuoso. Non era pensabile di lavorare dove aveva lavorato un padre
così, con tutto quello che aveva fatto e che inevitabilmente sarebbe stato un
termine di paragone schiacciante nei miei confronti. Chi lo aveva stimato
magari avrebbe trasferito su di me stima e affetto, rendendomi la mia strada
più facile di quello che avrebbe dovuto essere. Chi lo aveva invidiato o – più o
meno segretamente – avversato, avrebbe atteso di presentare a me un conto che
non aveva potuto presentare a lui. Come puntualmente avvenne.
Le difficoltà nella vita
fortificano, fanno bene. Ma non erano quelle che avrei avuto se avessi scelto
qualsiasi altro lavoro. Invece non vedevo altro, e al primo concorso che uscì,
lo detti, lo vinsi, e cominciai un’avventura che non poteva portarmi da nessuna
parte. Per 30 anni ho potuto fare una cosa sola: mantenere il cognome che ho
ricevuto dal babbo così come me l’aveva passato lui, per poterlo passare a mio
figlio intatto, con lo stesso valore incomparabile.
Ma non ho rimpianti. La storia
che ho io ce l’hanno in pochi, in quel posto che adesso è finito in mano a una
banda di occupatori di cariche pubbliche senza altra arte né parte che il
diritto di preda che i razziatori si prendono con la forza. Quel posto dove l’insegna
giace semisepolta nel fango, come la Statua della Libertà nel Pianeta delle
Scimmie. Quel fango dove l’altro ieri giaceva la bandiera italiana, gettatavi
da qualche operaio migrante di quelli che hanno fatto venire consapevolmente a
gettarci nel fango tutti, con la compiacenza di qualche scherano che si ricorda
del proprio dovere d’ufficio soltanto il 26 di ogni mese e quando il padrone
ordina.
Il babbo, andato in pensione, non
aveva voluto tornare neanche una volta in quell’ufficio che lui aveva
contribuito ad edificare dal nulla. Quasi se lo sentisse che era destinato a
questo tracollo e non volesse vederne neanche le prime avvisaglie. Di quell’ufficio
che mi aveva mostrato orgoglioso da bambino e da ragazzo, segnandomi per
sempre, non resta più nulla. Se non la memoria mia e ormai di pochi altri.
Come ogni anno, cerco di trascorrere la ricorrenza del giorno che se ne è andato lontano dal lavoro. Per non avere da
passare questo giorno in quel posto. Che non sarebbe niente se non fosse stato
per pochi uomini come mio padre, e che tuttavia di quei pochi uomini come mio
padre non ha salvato niente.
Alla fine ha vinto il fango.
Nessun commento:
Posta un commento