In queste ore, una parte
consistente degli abitanti di questo paese si sta recando dal fioraio per
acquistare il rametto di mimosa. Un’altra parte, altrettanto consistente, si
aspetta di riceverlo al più tardi stasera. Sono le due metà del cielo di cui
parlava il Grande Timoniere, Mao Tze Tung. I maschi e le femmine. Il rito è
quello che si rinnova ogni anno, inesorabile e irrinunciabile come il Festival
di Sanremo, come l’elezione di Miss Italia. E’ la Festa della Donna, che si
celebra in tutto il mondo occidentale in ossequio alla femmina della nostra
specie. Contenti i fiorai, un po’ meno le donne (almeno la parte più avveduta)
e arrivederci all’anno prossimo.
Come ogni festività che si
rispetti, il posto che occupa nel nostro calendario si basa probabilmente su un
equivoco storico. Alcuni la fanno risalire all’incendio che nel marzo del 1911
sterminò gli operai della Triangle Shirtwaist Company, una fabbrica di camicie
di New York che giustappunto impiegava in maggioranza donne. Altri la vogliono
ascrivere alla ricorrenza dell’8 marzo 1917, giorno in cui le donne di San
Pietroburgo andarono incontro ai cosacchi dello Zar aspettandosi di essere
massacrate, un destino comunque non molto peggiore rispetto alla morte per fame
imminente, nella Russia messa in ginocchio dalla Grande Guerra. Andò bene, i
cosacchi non caricarono, il regime zarista era agli sgoccioli anche per loro.
Cominciò la rivoluzione russa, ma quella data fu consacrata anni dopo come la
Giornata Internazionale della Donna.
Ma è sul significato di questa
festa che si è creato fatalmente l’equivoco più grande, più mistificante. E’ il
giorno – così sembra – in cui abbiamo qualcosa da farci perdonare dalle nostre
donne, e per questo ci presentiamo a casa con il mazzolin di fiori. Poi da
domani, business as usual. Chi maltratta riprende a maltrattare, chi discrimina
a discriminare, chi stupra a stuprare.
Le stesse donne ci mettono del
loro, cercando nella loro rincorsa ad una parità dei diritti apparente e non
reale di assomigliare sempre di più all’archetipo maschile, perdendo di vista
il loro femminino”. Acquisendo gli aspetti peggiori della competitività tipica
del mondo del lavoro maschile e lasciandosi dietro alcuni di quelli migliori
tipici della sensibilità femminile. Oppure virando decisamente verso un uso
improprio dei doni elargiti da Madre Natura a fini di carriera.
Le icone della generazione
femminile che lottava per la liberazione sessuale e l’emancipazione da una
condizione subalterna rispetto al genere maschile erano tutte donne che avevano
messo in mostra soprattutto la testa: madame Marie Curie, Maria Montessori,
Rita Levi Montalcini, Florence Nightingale, Nilde Iotti. Le icone di una
generazione ormai omologata alla degenerazione dei valori allo stesso pari dell’altro
sesso, più che liberata ed emancipata, sono donne che hanno avuto bisogno di
mostrare qualcos’altro, perché altrimenti ben altre teste sarebbero al loro
posto. I modelli ormai sono Maria Elena Boschi, quando va bene, o Nicole
Minetti quando è andata peggio.
Suffragette a New York nel 1908 |
E comunque, se rapportiamo il
discorso all’intera popolazione mondiale, la festa dell’8 marzo e del rametto
di mimosa costituisce un fenomeno di nicchia. I tre quarti del mondo vive
ancora in condizioni normali di arretratezza spaventose, quando non addirittura
rese infernali da guerre e fanatismi religiosi. Di quei tre quarti, la metà
abbondante costituita dalle donne vive – da un punto di vista dei diritti
personali – in uno stato di medioevo barbarico senza alcuna speranza di
redenzione. Sottomesse ad una cultura (così insistiamo a chiamarla, cultura)
indegna e immutabile come le caste indiane, prima ancora che alla controparte
maschile appena un po’ meno abbrutita e brutalizzata per il fatto di poter almeno
guidare una macchina (quando la possiede) o uscire in strada senza la
scorta/supervisione di nessuno.
Questo è il mondo che l’8 marzo
2016 festeggia questa ricorrenza, oppure ne ignora completamente l’esistenza. Due
anni fa su queste colonne Paola Stillo aveva raccontato la condizione delle
donne afghane, ricacciate indietro nel medioevo dai Talebani e faticosamente
spinte a riaffacciarsi alla modernità dall’intervento occidentale. L’anno
scorso un barlume di speranza ce lo aveva offerto il racconto dell’epopea delle
donne di Kobane, a cui al posto della mimosa la cosiddetta Isis voleva regalare
una fine atroce, per evitare la quale avevano imbracciato il fucile a fianco
dei loro uomini, senza se e senza ma.
Quest’anno tocca invece ad una
brutta storia, tipica dell’occidente civilizzato in cui viviamo, o per meglio
dire della sua versione all’italiana. Tocca al celebrato leader di quella parte
politica - Sinistra, Ecologia e Libertà - che si è arrogata da tempo il merito
presuntivo della difesa dei diritti delle donne e delle altre componenti
sociali più svantaggiate, migranti, migrati e migratori. Lo schiaffo più sonoro
in faccia alle donne - tutte, in quanto tali, che ne siano consapevoli o meno -
viene da Nicky Vendola. Fresco di paternità surrogata assieme al suo compagno
di vita, una paternità virtuale ottenuta mediante la pratica cosiddetta dell’utero
in affitto.
L’ex governatore della Puglia, a
pochi giorni da questa celebrazione delle magnifiche sorti e progressive delle
donne, rientra in Italia dagli Stati Uniti assieme al suo compagno Eddy Testa
sbandierando platealmente come fosse la Coppa del Mondo appena vinta un figlio
ottenuto in virtù della legge nordamericana, che contrariamente alla nostra
consente che una donna partorisca – dietro compenso – un figlio che andrà nello
stato di famiglia di un’altra coppia, omo o etero che sia.
Di tutte le gaffes commesse da
Vendola, per stabilire la più odiosa c’è l’imbarazzo della scelta. L’uomo
politico pugliese si può permettere, in virtù dell’appartenenza ad una casta di
intoccabili (nel senso opposto a quello indù del termine, cioè che non possono
essere toccati, messi in discussione da nessuna autorità e nessuna legge), ciò
che a qualunque altro dei suoi concittadini è vietato, pena sanzioni penali. Proprio
nei giorni dell’approvazione controversa della legge Cirinnà sulle unioni e le
adozioni civili, Vendola sbatte in faccia a tutti – come il Marchese del Grillo
interpretato da Alberto Sordi – il suo stentoreo io sono io, e voi non siete
un cazzo!. Viva la sinistra, viva l’ecologia, e soprattutto viva la libertà.
Poi ci sarebbe l’aspetto dei
diritti del minore, sui quali – con buona pace del pluridecennale dibattito tra
gli addetti ai lavori che pretenderebbe di orientare tutte le scelte
legislative e giurisprudenziali – si può discutere e scannarsi quanto si vuole.
Sta di fatto che il piccolo Tobia entra in Italia al seguito di due illustri
sconosciuti, che non possono legalmente aspirare alla sua genitorialità a meno
che qualche magistrato compiacente operi in suo favore una deroga. Riportando
la situazione a quella già felicemente sintetizzata dal Marchese del Grillo.
Ma soprattutto, c’è proprio la
questione dei diritti della donna. Una questione profonda, colta nella sua
essenza – dispiace dirlo – solo da una parte delle interessate. E degli
interessati, allo stesso modo. Perché alla fin fine una società che nega dignità
ad alcuni dei suoi cittadini, la nega a tutti quanti. Da che mondo e mondo, le
donne sono state purtroppo sempre affittate. Si chiamava, e si chiama,
prostituzione. Uso del corpo femminile dietro compenso pecuniario. Chi come
Vendola va all’estero a procurarsi un figlio partorito da ventre di donna, come
si vede non fa niente di nuovo.
Non è un caso se la parte
intellettualmente migliore, più consapevole di sé e delle proprie prerogative e
diritti, dell’universo femminile - che già storce il naso ad ogni ripresentarsi
di una data di calendario che a ben vedere ha senso soltanto per orto
florovivaisti e fiorai - si sta schierando compatta nell’esprimere disgusto per
l’utero in affitto e per chi come l’ex governatore Vendola non si è fatto
scrupolo di affittarlo. Non è un caso se perfino la presidentessa della Camera Laura
Boldrini, solitamente pasionaria di tutte le battaglie di SEL, stavolta s’è dichiarata
quantomeno perplessa.
Negli anni settanta le donne in
piazza gridavano il corpo è mio e lo gestisco io. Finalmente molte di loro
stanno cominciando a usare anche la testa. Auguri a tutto il gentil sesso, ed
anche ai maschietti. Che l’anno prossimo di questi tempi si possa festeggiare tutti
insieme finalmente qualche progresso civile, sia delle donne che degli uomini. Altrimenti,
a differenza di quel giorno a San Pietroburgo, l’avranno sempre vinta i
cosacchi.
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