Era il 1° maggio, come
oggi. Si correva il terzo Gran Premio della stagione che avrebbe dovuto vederlo
tornare campione del mondo. Invece, malgrado fosse alla guida della monoposto
più veloce del momento, dopo due gare era già in ritardo. Due pole position, due ritiri. In testa era
un giovane tedesco che prometteva di fare molta strada, Michael Schumacher.
Per la Festa del Lavoro si
correva ad Imola, Gran Premio di San Marino, autodromo Dino Ferrari, la pista
di casa del Cavallino che ormai da troppo tempo lasciava che a casa sua ed
altrove a spadroneggiare fossero altri. Prima le McLaren su cui Senna aveva
vinto tre mondiali, poi le Williams su cui contava di vincere il quarto, per
andare a pari con il grande rivale di sempre Alain Prost. Terzo GP, terza pole position, terza gara in salita,
dopo sette giri era già indietro, avanti c’era quel diavolo di Schumacher che
non aveva alcun timore reverenziale con la sua Benetton che teneva dietro la
Williams, nel 1994 non più così competitiva come nelle passate stagioni.
Ayrton tirava al massimo, per
correre dietro ai suoi sogni infiniti di velocità e di vittoria. Ma era un fine
settimana maledetto, uno di quelli in cui gli Dei presentano il conto. Lui il
suo destino l’aveva scritto dal giorno in cui era salito per la prima volta su
una monoposto. Quello di chi è grato agli Dei, e perciò deve morire giovane.
Quello di tanti eroi di cui la storia della Formula 1 è sempre stata piena, dai
tempi di Nuvolari, di Enzo Ferrari, di Alberto Ascari fino ai giorni nostri in
cui le vetture sono appena un po’ più sicure di una volta. Appena, perché a 300
all’ora non c’è sicurezza possibile, basta una piccola vite a vanificare un
grande progetto. Basta un’uscita in curva per andare a correre la volta
successiva sulla pista degli Dei.
Quel fine settimana alla curva
intitolata a Gilles Villeneuve, altro eroe passato nel Walhalla delle corse dodici anni prima, era morto Roland
Ratzenberg, giovane promessa austriaca appena sbarcato in F1 sulle orme dei
suoi idoli Niki Lauda e Gerhard Berger. Ayrton ne era rimasto scosso, tanto da
non voler quasi correre quella mattina e da decidere di imbarcarsi alla fine sulla
sua Williams con la bandiera austriaca che si riprometteva di sventolare a fine
corsa, in segno di solidarietà ed affetto verso lo sfortunato giovane collega.
Era un brasiliano atipico Ayrton.
Non proprio estroverso come ci ha abituato la sua gente, ma estremamente
sensibile, tanto nei rapporti umani quanto in pista nella ricerca dell’assetto
migliore. Ad Imola corse con Ratzenberg nel cuore, senza sapere che di lì a
poco l’avrebbe rincontrato lassù dove il campionato del mondo non finisce mai,
perché dura per l’Eternità. Il destino che Ayrton aveva scritto gli si
materializzò alla curva Tamburello, quando il piantone dello sterzo di una
vettura che per una volta il mago Adrian Newey aveva sbagliato a progettare si
spezzò e lo rese impotente nel controllare il suo bolide impazzito. Lo schianto
in curva spezzò un altro piantone, quello della sospensione che andò a
centrarlo alla testa trapassando il casco ed anche la sua testa all’altezza
della tempia destra.
Fu un incidente terribile, anche
perché il mondo vide morire in diretta Ayrton Senna. Quella monoposto ferma
nella via di fuga del Tamburello, quella scia di sangue che continuava ad
allargarsi a lato della paratia della Williams tolse subito ogni speranza a decine
di milioni di persone che avevano visto il loro cavaliere invincibile andare ad
infrangersi su un ostacolo di quelli che aveva evitato con nonchalance tante volte, lui che era un maestro di guida in
condizioni estreme e sul bagnato che rendeva estremamente prudenti anche i suoi
colleghi più bravi aveva compiuto le sue imprese più spettacolari.
Niki Lauda si era arreso sotto l’acqua
nel 1976 al Fuji e aveva consegnato il titolo nelle mani di James Hunt, l’inglese
volante che di tutti i piloti era quello che somigliava più ad Ayrton. Hunt se
n’era andato nel 1993, vittima delle sue intemperanze fuori pista, Ayrton se ne
andò il 1° maggio 1994 vittima dell’ansia di tornare quello che era stato, il
numero 1, e di una macchina costruita troppo in fretta e troppo male. Quel
mondiale che aveva cominciato da favorito si concluse con la corona iridata
nelle mani di Michael Schumacher, che gli rese omaggio nel modo più
scenografico ripetendo ai danni di Damon Hill, suo contendente all’ultima gara di
quella stagione, quelle sportellate con cui Ayrton si era “divertito” tante
volte insieme ad Alain Prost. Una volta, nel 1989 gli era andata male, l’anno
dopo con il francese – ahinoi – alla guida della Ferrari gli era andata invece
assai bene.
Oggi sono vent’anni esatti, e c’è
un altro eroe che sta lottando per non andare a riabbracciarlo troppo presto.
Gli Dei stanno reclamando anche Michael Schumacher, l’unico in grado nel tempo
di superare i suoi record e di emulare le sue gesta. Adesso al Tamburello c’è una
statua che ritrae Ayrton a grandezza naturale, commemorativa di quel giorno e
di quella tragedia, ma soprattutto di quella leggenda che chiunque abbia avuto
a cuore questo sport sublime e crudele che è la corsa porta e porterà per
sempre nel cuore.
Luca Cordero di Montezemolo dice
che se fosse sopravvissuto Ayrton avrebbe concluso la sua carriera nella Ferrari.
A noi viene da pensare piuttosto che se Enzo Ferrari fosse sopravvissuto fino a
quel 1° maggio 1994 sarebbe stato il primo a piangere dopo lo schianto del
Tamburello, per aver visto morire se stesso un’altra volta.
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