Caro Generale,
Le porto i saluti dell’Italia di Vittorio Veneto. E anche di quella di
Caporetto. Come Lei saprà senz’altro, avendo sicuramente continuato a seguire
dalla Sua nuvoletta nel cielo - dopo la Sua dipartita da questa vita per Lei
gloriosa ma altrimenti grama - le vicende di questo disgraziato paese al cui
Risorgimento Lei ha dedicato i suoi anni migliori, è più numerosa la seconda
della prima. E più frequente a vedersi.
Dopo le imprese che L’hanno resa famoso e meritevole di imperitura
memoria in questa penisola (e non solo), di Vittorio veneto per la verità ce ne
fu una sola. Di Caporetto invece ce ne sono state tante. Negli ultimi tempi
anzi così tante e così frequenti da aver anestetizzato la gente italica, che
ancora nel 1982, cento anni esatti dalla Sua partenza da questa terra e da
questa storia, si stringeva commossa dietro ed attorno al Tricolore che Lei
conosce bene per averlo stretto in pugno tra i primi. L’occasione era futile
solo in apparenza, il Calcio è la guerra moderna continuata con altri mezzi,
solo in apparenza più civili. Il Calcio aveva fatto di questo sventurato paese
che La venera sempre più indegnamente tra i suoi Padri una Nazione, e per
giunta di primo piano. E’ dunque giusto, secondo l’antico e fatidico principio
della Nemesi, che sia il Calcio a mettere fine alla sua esistenza, tra i frizzi
ed i lazzi osceni di chi ci ha resi tutti Pulcinella, da Camice Rosse che
eravamo.
Chi Le scrive è un ufficiale dell’esercito di quella Repubblica che Lei
aveva solo potuto sognare, prima del fatale “Obbedisco!” al Savoia trionfante, il primo dei Re d’Italia che non ebbe nemmeno
il buon gusto di azzerare il contatore della sua Casata, chiamandosi Secondo
anziché Primo come avrebbe richiesto la fondazione del nuovo Stato e della
nuova Patria comune. Vittorio Emanuele era piemontese, ma parlava francese e non si
sentì mai veramente italiano. Certo non più di quelle plebi immonde che sabato
sera scorso erano a lordare l’Anfiteatro della Capitale, insieme al buon nome
dell’Italia.
Caro Generale, chi Le scrive non rimpiange un giorno del suo servizio
alla Patria, non rimpiange la sua Patria stessa, anche se l’ha maledetta mille
volte per come si dimostrava matrigna, come nemmeno Franceschiello di Borbone avrebbe saputo fare, e Lei sa bene di chi e cosa parlo. Lei che andò a
stanarlo da quelle Due Sicilie che poi si sono vendicate mille volte, portando
l’italica gente a maledire il Suo stesso nome.
Caro Generale, chi Le scrive non capiva una volta come si potesse
rivoltarsi contro il proprio paese. Right or wrong, my country, dicono quegli inglesi che furono i più
ferventi sostenitori ed i più sfegatati ammiratori di Lei e della Sua impresa.
Tutt’ora non rinuncerei alla sciabola, all’uniforme, al più insignificante dei miei
ricordi di servizio, al meno amichevole dei miei compagni di corso ufficiali
per nulla al mondo. Ma il mio paese non lo capisco più. E la gente che lo abita
ancor meno, tranne quando, Lei vorrà perdonarmi, nomina il Suo nome altrimenti
venerato, caro Generale, seguito da una sequela di improperi e maledizioni che
sembrano sconfessare addirittura il Risorgimento stesso, e invece sono soltanto
il grido di dolore di un popolo tradito (almeno di chi popolo si sente, anziché
plebe) proprio in quelli che credeva fossero i suoi valori più alti.
Caro Generale, l’osceno refrain
risuonato all’Olimpico di Roma e giustamente fischiato da un popolo inferocito
e sottomesso alla plebe infame non è l’Inno di Mameli. Quella canzone d’Italia
sulle cui note partiste da Quarto e arrivaste fino a Porta Pia. Quella canzone
sulle cui note la gente andava a morire contenta, come dicono le sue parole, e
al tempo vostro non era un modo di dire. Caro Generale, a Firenze avevamo un
governo degno di questo nome, il Granduca era una brava persona, lo mandammo
via – e lui comprese – solo per riunirci al sogno più bello mai fatto in questa
penisola da millecinquecento anni a questa parte. Come noi, a Milano, a
Venezia, a Trieste, tutti rinunciarono a governi che si erano fatti rispettare,
se non benvolere, e non con le armi, tutt’altro.
Siamo stati ripagati con moneta falsa, il vino che ci è stato dato per
brindare era malandato. Le Due Sicilie erano una trappola, le Camice Rosse
riuscirono a passare, i piemontesi no. Il destino d’Italia si fece sul
Volturno, i nostri sogni finirono lì, prima ancora di sbocciare. Chi Le scrive
ha tanti amici del Sud, pugliesi, calabresi, siciliani, sardi, lucani, con
tutti è stato possibile capirsi e volersi bene. Perché bastava stabilire un
semplice principio: quello del rispetto reciproco. E una volta amici con queste
genti, lo si è per sempre. Con quell’altra gente – che non vorrei nemmeno
nominare tanto è il disgusto che provo – invece non è possibile. Perché QUELLI
ti devono entrare dappertutto, ti devono entrare dentro, si devono prendere
ogni cosa, con le buone e meglio se con le cattive. Devono farsi beffe di
quelle regole che per noi sono la stessa civiltà, e devono farsi beffe di noi
stessi nello stesso momento che ci restiamo male.
Chiagni e fotti, lo chiamano loro. Dopo averti scippato, ti
vengono ad assordare co’ ‘e ddisgrazie loro, a chiagnere pe’ quant’ so’ jellati, e ti finiscono di fottere anche le ultime cose che ti restano proprio
mentre ti chini a consolarli.
Mi scuserà il linguaggio, caro Generale, ma la misura è colma. Quando
Lei arrivò in quella città, il Re Bomba
aveva finito da poco di prendere a cannonate la sua plebe, perché sapeva che
laggiù quello è l’unico modo per governare. La Repubblica del 1799 l’avevano
massacrata loro, gli antenati di quegli scugnizzi per i quali secondo certa letteratura
e critica politica io dovrei comunque provare simpatia e compassione. So’
criature!
No, caro Generale, i pochi napoletani (ecco l’ho detto) di cui possiamo
essere orgogliosi (i De Filippo, Totò) li abbiamo pagati a caro prezzo. Sono
troppi di più gli Schettino, ed i Genny ‘a carogna. Ma soprattutto sono una schiera sterminata tutti quelli che, con il casino,
il menefreghismo, il puzzo, la beffardaggine, l’ignoranza, la violenza, la cialtroneria
a 360°, la monnezza, vanificano ogni giorno lo sforzo di questo Paese per rifarsi un’immagine.
Offrendo al mondo quella di un Pulcinella miserabile e sciatto, senza più il
fascino della Commedia dell’Arte e
con tutta l’indegna, impresentabile sicumera dell’Arte di Arrangiarsi.
Caro Generale, se tutto ciò che Le scrivo non è politicamente corretto, come si dice
adesso, pazienza. Non è corretto nemmeno che il sig. Luigi De Magistris, eletto
sindaco dai suoi concittadini dopo aver fatto finta di amministrare la
giustizia come si conviene nelle sue terre, adesso si metta a chiagnere e
fottere più di tutti, ad alta voce, ben
sapendo che alla RAI delle Due Sicilie avrà la massima audience, come dicono
quegli inglesi che Lei conosce bene, e che i problemi con i “loro napoletani”
li hanno risolti alla radice una trentina di anni fa, con una Signora di ferro
che da sola valeva più di tutti gli omminicchi che sabato sera erano in Tribuna Monte Mario, ad aspettare il nulla
osta della Carogna.
Caro Generale, chi Le scrive non ne può più. Qui ormai è tutta Napoli,
siamo tutti Pulcinella, e ‘a Carogna
tra poco busserà anche a casa nostra, perché gli punge vaghezza di dormire nel
nostro letto con nostra moglie. Andarsene non si può, right or wrong, siamo in questa fogna partenopea, e
dobbiamo starci. Ma questo non è più il mio paese. In un paese normale, Napoli
non c’é.
Mi scuserà lo sfogo, signor Generale Garibaldi, e con Lei tutti i veri
italiani del Nord, del Centro e del Sud, ma questa è l’Italia di cui Le porto i
saluti. Mentre Napoli canta, i fuochi bruciano e la nostra speranza è morta
come la mozzarella che ci danno da mangiare (se Genny dà il permesso di mangiare).
Con immutati ammirazione e rispetto, un vecchio ufficiale dell’Esercito
Italiano, come Lei
Simone Borri
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