Era il 12 maggio 1974,
esattamente 40 anni fa. L’Italia si mise al passo con i paesi a democrazia
avanzata recuperando in un colpo solo due istituti che per la nostra
sensibilità moderna caratterizzano il grado di civiltà di un paese. Oggi li
diamo per scontati, allora non era così. Gli italiani dovettero andare alle
urne per confermare o meno la norma presentata quattro anni prima dal deputato
socialista Loris Fortuna e dal collega liberale Antonio Baslini, che
introduceva nel nostro ordinamento giuridico il divorzio e che fu approvata il
1 dicembre 1970 con legge n. 898.
Marco Pannella manifesta a favore del divorzio |
Per il diritto romano, di cui l’Italia
si era sentita a torto o a ragione per secoli la principale erede, il divorzio
era un istituto normale e di uso comune, sia nella forma consensuale che
unilaterale (in tal caso assumeva il nome di ripudio). Analoga consuetudine vigeva presso quei popoli germanici
che a lungo ebbero rapporti di vicinato con l’Impero e che poi ne ereditarono
popolo, governo e territorio dopo la caduta. A quell’epoca, però la Chiesa
cattolica aveva già organizzato il proprio corpus
dottrinale ed il proprio potere temporale, operando una drastica revisione di
molte di quelle che per i romani antichi erano state regole di civiltà.
Per i Cesari, il matrimonio era
stato nient’altro che un contratto di diritto privato tra i tanti che sono ammessi
dal diritto naturale e da quello positivo. Per i Papi che ne ereditarono il
potere, esso fu trasceso a sacramento, “l’uomo non separi ciò che Dio ha unito”,
il matrimonio era un vincolo indissolubile che non poteva essere più sciolto,
in nessun caso.
La situazione rimase tale fino
alla Riforma Protestante, che riportando la dottrina cristiana al Vangelo
grattò via tutte le incrostazioni dottrinali successive alla predicazione
originaria di Cristo, preparando la strada alla laicizzazione del diritto. Il
processo fu completato dalle grandi rivoluzioni liberali dei Sei-Settecento,
culminate nella Grande Rivoluzione francese che reintrodusse una serie di
istituti di diritto civile al bando da quasi quindici secoli. Tra essi il
divorzio, che fu poi regolamentato nel Codice Napoleonico, la base del diritto
privato moderno per la maggior parte dei paesi europei e del resto del mondo.
La Francia ebbe il divorzio già
nel 1972, i paesi anglosassoni seguirono a ruota, alla metà dell’Ottocento Gran
Bretagna, Stati Uniti e Commonwealth britannico ebbero le loro leggi in
materia. Nell’Impero Germanico esisteva una legislazione base in materia di
divorzio fin dai tempi di Martin Lutero. La Svizzera calvinista arrivò un po’
in ritardo, ai primi del ‘900. Belgio e Olanda pragmaticamente adottarono il
Codice Napoleonico fin da subito. Nel 1902 all’Aja fu firmata una Convenzione
internazionale che obbligava i paesi di tutta Europa ad adeguare la propria
legislazione. Rimase lettera morta in molti paesi, tra cui l’Italia, fino a
dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Amintore Fanfani segretario D.C. e leader anti-divorzista |
La Costituzione repubblicana del
1948 obbligava lo stato italiano ad ammodernarsi, ma fino a tutti gli anni
sessanta quello stesso stato fu restio a provvedere. La cultura cattolica
imperante vedeva di malocchio non solo il divorzio, ma in generale una
liberalizzazione dei costumi e una democratizzazione della vita politica e
civile degli italiani. Tanto più in presenza del maggior partito comunista d’occidente,
che poteva beneficiare – come in effetti successe – del vento progressista.
Il 1970 fu l’anno della
istituzione delle Regioni e anche della istituzione del Divorzio. La
Costituzione veniva finalmente attuata in tutte le sue previsioni, il
decentramento istituzionale e la liberalizzazione della società sconvolsero il
quadro politico e l’assetto sociale. Delle forze politiche esistenti, la
maggior parte dei partiti era restia a prendere posizione in merito al divorzio
lasciando sostanzialmente libertà di coscienza agli iscritti, anche se non
sfuggiva a nessuno il beneficio insito in una simile battaglia di libertà e
progresso. A difendere le ragioni della conservazione della famiglia
tradizionale “blindata da Dio” rimasero solo Democrazia Cristiana e Movimento
Sociale Italiano, che si imbarcarono in una battaglia di retroguardia
rivelatasi fatalmente perdente.
Amintore Fanfani legò il suo nome
e quello del partito di cui era segretario al SI all’abrogazione della legge
Fortuna-Baslini. Il referendum abrogativo era un altro strumento di democrazia
che il legislatore italiano aveva esitato a lungo a concedere al popolo,
intuendone le potenzialità devastanti per lo status quo. C’era un unico precedente, ancorché di fondamentale
importanza storica: il referendum per la scelta tra Monarchia e Repubblica che
nel 1946 aveva cambiato il volto dell’Italia per sempre. Fu la più strenua
oppositrice di questo istituto di democrazia diretta, la Democrazia Cristiana,
ad attivare irrevocabilmente lo strumento che completava la restituzione del
potere al popolo italiano. E ne pagò le conseguenze in prima persona.
il voto nelle varie Regioni |
Il 12 maggio 1974 la D.C. tentò
di rimobilitare le masse cattoliche per una nuova battaglia di fede simile a
quella che nel 1948 aveva sbarrato la strada al Fronte Popolare
social-comunista. “Dio ti vede nella cabina elettorale, Stalin no”, era stato
lo slogan di allora. Stavolta la scelta venne posta tra chi era a favore della
famiglia e chi era per la sua distruzione. Ma il tempo non era passato invano e
la discriminante decisiva fu più che altro tra cattolici progressisti e non. A
votare andò l’87,7% degli aventi diritto, il quorum fu ampiamente raggiunto. Di
questi aventi diritto il 40,9% si espresse a favore del Si, cioè dell’abrogazione,
il 59,1% decretò la vittoria del NO.
L’Italia entrò così nel novero
dei paesi civili, precedendo di poco gli ultimi paesi cattolici Spagna,
Portogallo, Irlanda. Per la D.C. la sconfitta fu cocente. La carriera politica
di Amintore Fanfani arrivò al capolinea, i suoi successori si trovarono ad
affrontare un’onda lunga progressista che portò nel giro di due anni il P.C.I.
ad una avanzata elettorale clamorosa, vicina ad un pareggio che avrebbe reso il
quadro politico italiano ed internazionale drammaticamente sconvolto. Il
Partito Radicale, che aveva condotto in prima persona con il suo leader Marco
Pannella la battaglia divorzista, cominciò la sua lunga stagione riformista che
avrebbe fatto largo uso dello strumento brevettato quel 12 maggio. A colpi di
referendum, l’Italia nei successivi 40 anni sarebbe cambiata – è il caso di
dire – radicalmente.
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