Diego Della Valle compie oggi 61 anni. Nel rinnovargli gli auguri come
ormai da 12 anni a questa parte – da quando cioè ha aggiunto l’A.C.F.
Fiorentina all’elenco delle sue controllate o partecipate – mai come questa
volta è il caso di chiedersi se abbia deciso che cosa fare da grande.
L’imprenditore marchigiano è ormai da tempo uno dei più importanti e
prestigiosi che questo paese può vantare ed è forse quello più conosciuto
all’estero insieme ai suoi competitors
Berlusconi e Marchionne. Le sue aziende sono leader nei rispettivi settori.
Tutte meno una, la Fiorentina giustappunto, che non riesce ancora (la proprietà
Della Valle è la seconda più longeva della storia viola, dopo quella del
fondatore marchese Ridolfi) a salire i gradini del podio nella sua specialità.
Il miglior risultato di questa gestione continua ad essere quel quarto
posto in campionato raggiunto due volte con Prandelli e due con Montella. Gli
unici trofei alzati da lui e dal fratello Andrea si riducono ad alcune Coppe
estive, disputate più che altro per beneficiare di lucrosi ingaggi a discapito
di una preparazione che puntualmente viene rimpianta più avanti, a stagione
regolare iniziata.
Da quando i fratelli di Casette d’Ete hanno riportato la Fiorentina in
serie A, dieci anni or sono dopo l’epico e drammatico spareggio con il Perugia
al termine del quale sembrarono dare un senso del tutto nuovo e passionale al
loro essere proprietari gettandosi vestiti di tutto punto nella piscina del
Franchi, non c’è quasi stato anno in cui la loro creatura non sia sembrata
all’inizio in procinto di un salto di qualità, di una svolta decisiva per un
progetto finalmente vincente. Salvo poi ritrovarsi puntualmente durante la
stagione successiva a fare i conti con una delusione più o meno cocente. Sogni
e progetti coltivati durante il mercato estivo non sono mai sopravvissuti a
quello invernale. E i titoli, per dirla con Mourinho secondo il suo celebre
aforisma, sono rimasti fermi a zero.
E allora, che cos’è che impedisce alla Fiorentina di diventare nel
rispettivo settore un’azienda di vertice come è successo alla Tod’s? Cos’è che frena nel calcio l’altrimenti
ambizioso e capace imprenditore marchigiano che pare stia addirittura meditando
in politica una discesa in campo sul modello berlusconiano (per ovviare, come
ha affermato lui stesso, alla delusione offerta dal “sindaco ragazzino”, quel
Renzi a braccetto del quale andava una volta a seguire la propria squadra del
cuore – e del portafoglio - e con il
quale ormai la sintonia sembra decisamente un ricordo del passato)?
Al pari degli auguri di compleanno, e più o meno regolarmente nello
stesso periodo, la spiegazione ricorrente alle delusioni viola è sempre la
solita. Vuole la leggenda che nei giorni bui di Calciopoli Diego Della Valle si
sia convinto che il sistema calcio non possa essere affrontato e “sconfitto”
come lui aveva sognato e intrapreso, e che in un paese a forte crisi economica
come è l’Italia adesso investire nel pallone come un tempo sia ormai equivalente
a follia pura.
I Della Valle, è noto, non nascono tifosi viola. Il giglio di Firenze è
più un brand commerciale che un
simbolo di qualcosa di affettivamente importante. La Fiorentina è stata ed è
più un veicolo pubblicitario che un amore o un passatempo (per quanto
remunerativo) come lo era la Juventus per Agnelli, l’Inter per Moratti o il
Milan per Berlusconi. Che gli attuali proprietari del giglio viola vogliano
gestirlo come un’azienda più che come una società sportiva del resto non c’è
niente di strano, o di male. E’ il futuro del calcio, se il calcio ha un
futuro, e soprattutto se ha un futuro l’economia di questo paese.
Più o meno dai tempi in cui finì il primo progetto di grandeur viola, quello di Prandelli,
insieme al sogno di costruire in tempi brevi una cittadella sportiva a
Castello, è chiaro inoltre che il modello di gestione societaria dei Della
Valle non fa più riferimento al bianconero della Juventus ma piuttosto a quello
dell’Udinese. Gli uomini mercato non cercano di montare pezzo dopo pezzo la
squadra che diventerà prima o poi lo “squadrone”, ma di cogliere piuttosto
occasioni di mercato e di valorizzare giovani e/o rivalorizzare vecchie glorie
che poi si traducano in plusvalenze di bilancio.
Tutto chiaro, tutto comprensibile. E’ il signor Diego insieme al
fratello Andrea che ci mette i soldi, ci mancherebbe altro. Peccato che quei
sogni di gloria restino sospesi nell’aria di Firenze, alimentati a scadenza
regolare proprio da loro, il freddo industriale venuto dalle Marche ed il
fratello che si è scoperto passionale una domenica di qualche campionato fa,
seduto accanto al sindaco ragazzino, tutti e due ridotti a fine partita come
nemmeno i più scatenati Ultras dei tempi eroici.
I sogni sono sempre un’arma a doppio taglio. L’animo del tifoso è
schizofrenico per definizione, combattuto tra la voglia di esultare e la paura
di soffrire. Sono molti ormai in riva all’Arno quelli che preferiscono neanche
più immaginare di vivere giorni come quelli del 2002, quando la “settima
sorella” di Cecchi Gori finì nel baratro della retrocessione e del fallimento e
da Wembley la torcida viola si
ritrovò a seguire la squadra a Gualdo Tadino. Mai più, dissero molti, a costo
di “vivacchiare” in una esistenza senza sussulti, quarti posti come Champion’s League,
perfino la Coppa Italia (un trofeo che Fiorentine sicuramente più povere di
quella attuale erano riuscite ad alzare con gioia e orgoglio in faccia agli
squadroni del Nord) un miraggio inarrivabile.
Dopo dodici anni e mezzo, a Diego e Andrea Della Valle vengono quindi ancora
perdonate tante cose che ai predecessori invece non erano state minimamente graziate.
E’ pur vero d’altra parte che ad ogni annata che si avvita su se stessa
riprende quota il partito di coloro che “rosicano” (come disse una volta il
buon Diego quando ancora non lesinava la sua presenza in città e in società)
non perché hanno “risicato”, come dice il proverbio, ma perché appunto rosicano
e basta, stanchi di vedere vincere gli altri.
Vecchi discorsi, che puntualmente tornano di attualità. A rileggere
quello che scrivevamo l’anno scorso in occasione del precedente genetliaco del patron, viene un po’ di malinconia. A
incrociare questa malinconia con l’attualità, viene qualcosa di più, che si
chiama sottile inquietudine. Mentre Diego Della Valle spegne le sue sessantuno
candeline, i suoi uomini si preparano ad una campagna acquisti (o per meglio
dire cessioni) che ha precedenti solo in quella di due anni fa, quando in pochi
giorni arrivarono a Firenze qualcosa come 18 giocatori nuovi di zecca. Più o
meno lo stesso numero che se ne dovrebbe andare adesso, almeno a star dietro
alle voci di mercato.
A leggere i nomi, c’è da chiedersi se un altro progetto dellavalliano
non sia sul punto di concludersi, anzitempo e malamente. Pilastri della squadra
attuale, come Neto e Aquilani, sono in predicato di arrivare alla scadenza
contrattuale senza che la società abbia fatto seri tentativi per trattenerli.
Altri, come Cuadrado, si stanno ritrovando ai margini di un disegno
tecnico-tattico, quello di Montella, che peraltro aggiunge difficoltà alle
difficoltà.
Il tecnico campano, a sua volta sempre più fuori sintonia con le scelte
societarie tanto da far pensare che questa possa essere la sua ultima stagione
in viola, sa giocare e far giocare i suoi in un modo solo, quello reso
produttivo e piacevole a vedersi soltanto dalle brevi stagioni di Stevan
Jovetic e Giuseppe Rossi. La classe cristallina e l’altrettanto prepotente
indisciplina tattica di Cuadrado non rientrano nei suoi piani, non fanno
vibrare le corde del suo gioco prediletto. Il colombiano rischia di trovarsi ai
margini, intristito o peggio infastidito, in procinto di deprezzarsi tecnicamente
prima ancora che economicamente, qualsiasi cosa voglia fare di lui la
Fiorentina a fine stagione.
Nel frattempo, Rossi è ancora lontano dal rientro, Gomez sta facendo di
tutto per tornare fuori (anche lui per niente aiutato nel ritorno ai suoi livelli
da schemi tattici che non lo prevedono e non lo supportano), i due ragazzi che
sembravano in grado di non farli rimpiangere, Baba e Berna, si sono rivelati
per ora troppo fragili, quanto e più dei titolari.
Poi c’è il gran numero dei giocatori in soprannumero, o comprati per
fare numero. Il bisticcio di parole vuole indicare quella ampia parte della
rosa destinata a costituire – se non ora a gennaio al prossimo giugno –
l’ennesimo “pulmino” da trasbordare altrove. Dagli sloveni Ilicic e Kurtic al
prode Yakovenko fino al vecchio glorioso capitano Pasqual (lui si che si
meriterebbe un po’ di gratitudine da parte di una società e di addetti ai
lavori che fanno in altre circostanze largo uso se non addirittura abuso di
questa parola), sono molti gli esuberi e poche le idee per trarne qualcosa di
veramente buono. Il tutto condito da un Pizarro forse arrivato alla fine
naturale della carriera e da una difesa dalle buone individualità ma che non è
mai riuscita a diventare un vero e proprio reparto. E da un Daniele Prade’ che
dovrebbe provvedere a tutto questo e che invece viene dato ormai sempre più
esplicitamente in partenza a sua volta.
Più che una squadra, sembra un cantiere della “tramvia”, chi abita a
Firenze può cogliere la similitudine. Da un terzo posto che tutto sommato
disterebbe soltanto pochi punti a un decimo nel quale la società si è ritrovata
a concludere l’annata in circostanze forse non troppo dissimili in passato il
passo è breve.
Di doman non v’è certezza, insomma, come diceva un altro patròn dei
tempi andati, che era arrivato nel suo campo ad essere il numero uno
indiscusso. E’ per questo motivo che gli auguri al patròn attuale quest’anno
sono più mesti del solito. Ce l’avessero detto un anno fa, tra l’altro, non ci
avremmo creduto.
Auguri comunque Diego Della Valle. E soprattutto auguri Fiorentina.
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