4 febbraio 2014
Era il 4 febbraio 2004 quando
uno studente del secondo anno di Harvard lanciò un nuovo sito web sul quale gli
studenti della sua università potevano interagire accreditandosi con una
propria foto ed un profilo contenente i propri dati essenziali. Ci si
conosceva, si stringevano amicizie e ci si parlava l’un l’altro, o per meglio
dire si “postava” e si commentava come
in un club reale, solo che questo era virtuale e vi si accedeva tramite il
proprio personal computer, senza muoversi dalla propria stanza.
Quello studente si chiamava Mark
Zuckerberg. Originario di White Plains nello stato di New York, di famiglia
ebraica ma non osservante, il brillante studente non era nuovo a tentativi del
genere. Al primo anno di college, aveva già realizzato un annuario elettronico
degli iscritti, che però aveva avuto vita breve, soltanto poche ore con 450 contatti
e 22.000 foto visualizzate prima che venisse chiuso dalle autorità. Zuckerberg
infatti per dargli contenuto aveva dovuto attingere ai file riservati
dell’università. La bravata non ebbe conseguenze legali, anzi – come a volte
succede – era destinata ad essere rubricata come il primo barlume di un colpo
di genio. Il ragazzo ci riprovò alla
fine del 2003, basandosi questa volta sulla libera adesione dei visitatori.
Della precedente esperienza si portò dietro il nome, che sarebbe diventato
leggendario: l’idea iniziale era stata quella di un “Photo Address Book”, un
annuario fotografico. Da lì a Facebook
il passo era breve.
Zuckerberg lanciò Facebook dalla
propria stanza al college nella notte del 4 febbraio 2004, insieme ai suoi
coinquilini Dustin Moskovitz e Chris Hughes, e con la collaborazione del
grafico Eduardo Saverin e dell’esperto di informatica Andrew McCollum. Entro la
fine del mese quel primo tentativo di social
network (un neologismo coniato apposta per l’occasione e ormai diventato
uno dei termini più usati – ed abusati – di qualsiasi lingua del pianeta) ebbe
un tale successo da spingere i suoi ideatori a brevettarlo e ad estenderlo ad
altre università come Stanford, Columbia, Cornell, Yale, Pennsylvania e via via
tutte le altre del paese.
Nell’estate di quel 2004 il passo
successivo, quello dell’uscita in mare aperto, verso il resto del Mondo. Il
gruppo di Zuckerberg si trasferì in California, a Palo Alto dove tutt’ora ha la
sua sede legale la Facebook Inc., di
cui Mark divenne amministratore delegato. A studiare ad Harvard di quei ragazzi
non tornò nessuno. Ed entro l’anno dovettero rifiutare le prime sostanziose
offerte di diverse compagnie operanti nel settore dei media intenzionate a far
propria a qualunque costo quella creatura che si stava rivelando a pochi mesi
dalla nascita come un successo travolgente. “Non fu per la somma che ci
offrirono”, avrebbe raccontato Zuckerberg pochi anni dopo. “Per me e i miei
colleghi, la cosa più importante era creare un flusso di informazioni per la
gente. L'idea che le corporazioni mediatiche siano possedute da conglomerati è
assolutamente priva di ogni attrattiva per me”.
Questo era l’inizio di una storia
che da lì in poi tutti conoscono. Nell’estate del 2010 Facebook festeggiò i 500
milioni di account. Una cifra strabiliante. A quel punto Mark Zuckerberg era
già diventato l’uomo dell’anno per la rivista Time, uno dei miliardari più giovani della storia, il più influente
personaggio nel campo dell’informazione nell’Era dell’Informazione secondo Vanity Fair. Il suo nome aveva oscurato
quello di altri ragazzi prodigio ormai invecchiati, come Bill Gates e Steve
Jobs. Quest’ultimo gli aveva erogato, prima di morire, preziosi consigli per la
costituzione del team, la squadra che
avrebbe dovuto gestire negli anni a venire quell’oggetto semplice eppure sempre
più diabolicamente complicato che sarebbe stato destinato a diventare Facebook.
Il social network nato per far
“incontrare la gente” in dieci anni è diventato tante cose. Da formidabile
veicolo pubblicitario (che consente ai suoi amministratori di dichiarare
orgogliosamente e a chiare lettere: “E’ gratis, e lo sarà sempre”), a piazza
ideale per qualsiasi attività sociale e soprattutto politica (non c’è ormai un
uomo politico, leader o amministratore di qualcosa degno di questo nome che
possa fare a meno di un profilo Facebook), a motore della stessa evoluzione del
costume, per non parlare di quella del diritto. Ci si fidanza e ci si lascia su
Facebook, mentre le corti di giustizia a qualsiasi livello cominciano a
monitorare e se del caso sanzionare i comportamenti di qualsiasi “fan” che
crede di limitarsi a scrivere “post” senza conseguenze al sicuro nella propria
stanzetta. Una frase sbagliata, un insulto scritto a commento su profili altrui
portano ad avvisi di garanzia tanto quanto aggressioni verbali vis à vis. E recentemente perfino il
semplice cliccare “mi piace” ha messo nei guai l’incauto o semplicemente
sfortunato utente che aveva trovato divertente uno scambio di contumelie tra
terzi.
Come ogni tormentone che abbia
assunto simile rilevanza, dopo 10 anni Facebook sta conoscendo ormai anche la
sua prima crisi di rigetto. Qualcuno comincia a domandarsi se non era meglio la
vita reale piuttosto che quella virtuale. Se non ci si divertiva di più quando
si usciva ad incontrare davvero i propri amici, anziché contattarli al
computer. Qualcuno invece vede con crescente allarme le svolte in senso
contrario alla privacy adottate dal network, sotto la spinta di governi e
polizie che vedono con interesse sempre crescente le potenzialità offerte da
questo enorme database che sta sotto di esso.
Come in Matrix, questo di Facebook è un mondo parallelo dove può succedere
di tutto, quanto e più che nel mondo reale, nel bene e nel male. Un mondo che
affascina e fa paura con la stessa intensità. E che forse prefigura una natura
profonda ed un destino della razza umana molto più inquietanti di quanto fosse
nelle intenzioni stesse di quei tre ragazzi nella stanzetta di Harvard in
quella notte di dieci anni fa di andare a scoprire.
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