venerdì 20 febbraio 2015

Il Ponte dell' Arcobaleno

"Lassù nel cielo c'è un luogo chiamato Ponte Dell'Arcobaleno. Quando muore un amico peloso che è stato amato da qualcuno, questi sale su fino al Ponte dell'Arcobaleno, dove ci sono prati e colline a disposizione dei nostri amici, i quali possono correre e giocare assieme. C'è tanto cibo, tanta acqua, c'è tanta luce solare, ed i nostri amici sono al calduccio e a proprio agio. Tutti gli animali che si sono ammalati ritrovano la salute ed il vigore, quelli che sono stati feriti tornano intatti e forti, proprio come ce li ricordiamo quando li sogniamo ricordando i bei giorni passati assieme. Gli animali sono felici e contenti, salvo per una cosa: manca loro qualcuno che è stato veramente speciale per loro, dal quale hanno dovuto separarsi. Tutti loro corrono e giocano insieme, ma per ognuno di loro arriva un giorno in cui si fermano e guardano lontano all'orizzonte. I loro occhi lucenti sono all'erta, i loro corpi palpitanti. Allora si staccheranno dal gruppo, volando sull'erba verde, con le zampe che li condurranno sempre più velocemente. Vi hanno avvistato, vi hanno riconosciuto. Voi ed il vostro amico del cuore vi ritroverete, per non separarvi mai più. Una pioggia di baci vi ricoprirà il viso, la vostra mano potrà accarezzare di nuovo l'adorata testolina, e potrete guardare di nuovo negli occhi il vostro amico del cuore, che è stato fisicamente lontano da voi ma non è mai stato lontano dal vostro cuore. E allora attraverserete insieme il Ponte dell'Arcobaleno..."

(Leggenda Indiana)






Sabato scorso, mentre tornavamo a casa, il ponte dell’Arcobaleno era aperto. Partiva da lì, da quel prato grande dove sono sepolti tutti i nostri animali. O così almeno ci piace pensare, dato che è lì che se ne sono perse le tracce.Questo posto, a vederlo dall’alto mentre si arriva, sembra un paradiso. Ci sono giorni, e notti, in cui invece si popola di mostri, come il peggiore degli inferni. Mi sono immaginato tante volte gli spiriti dei nostri gatti che vagano su questo prato e su queste colline nell’universo parallelo a cui si accede per questo ponte. Là dove nessuno può fare loro più alcun male e dove noi andremo a raggiungerli un giorno, se lo Spirito più grande e potente di tutti così vorrà.
Sabato il ponte era aperto, e poggiava su quel prato. Non era ancora il nostro momento di attraversarlo, ma io ho visto loro e loro hanno visto me…….
Me lo farò bastare fino a quel giorno.






Il capobranco è un gatto soriano grande e grosso, con uno sparato davanti come una camicia bianca. Elegantissimo. Arrivò a casa una sera di settembre portato a sorpresa da un bambino che non stava più nella pelle perché finalmente aveva il suo animaletto domestico. Il nome che gli dette era inevitabile, come il Kharma.

MIO, con il bambino che lo portò a casa
MIO. Il primo gatto, ed anche il primo a incappare nella sfortuna che coglie prima o poi tutti gli animali che hanno a che fare con l’uomo. Abbiamo riempito il mondo di malattie che non solo sono micidiali per noi, ma lo sono anche per le bestiole che vivono vicino a noi. Nonostante il bene che quel bambino e la sua famiglia gli riversarono addosso, il gattino dalla camicia bianca si ammalò al primo graffio preso da colleghi vicini molto meno curati di lui.
Un graffio fatale, portava con sé il veleno mortale dell’HIV e della leucemia felina. Roba da pazzi, siamo riusciti a infettare perfino i gatti con le nostre maledizioni. Riuscimmo per sei anni a fargli avere una vita la più bella possibile, e quel bambino poté crescere insieme al suo gatto. Finché per lui non divenne una sofferenza anche solo mangiare o respirare.
Mi ricordo di non aver avuto bisogno di sveglie in quegli anni. All’ora giusta avvertivo un peso sopra di me, aprivo gli occhi e a pochi centimetri dal mio viso c’era il suo, dolcissimo, che mi diceva muto: “quando sei pronto con la ciotola, sono pronto anch’io”.
Mi ricordo anche l’ultimo viaggio. MIO non ce la faceva più, il bimbo ormai cresciuto – Giacomo – era a scuola. Portammo il gatto dal veterinario. Rimasi con lui mentre si addormentava per l’ultima volta. I suoi occhi sembravano sereni come quelli di mio padre, grati per tutta la sofferenza che quel sonno che arrivava avrebbe evitato.
PENNY
MIO è sepolto vicino alla casa dov’è vissuto. Così come sua figlia PENNY, Penelope. Arrivò dalla neve una mattina di febbraio. Sentimmo un miagolio sommesso e fuori c’era lei, ormai svezzata dalla mamma ma abbandonata a se stessa nel momento peggiore. Quando ancora non stava troppo male, MIO aveva avuto una storia d’amore con una gatta del posto, era fuggito nel bosco come nelle favole che si rispettano ed era tornato con moglie e figli.
PENNY era l’unica sopravvissuta. Una volta accertato di chi era figlia, sapemmo anche perché. I due anni di vita di quella gattina furono strappati al destino ancora più duramente dei sei del padre. La mia mamma aveva appena perso la sua gatta, le portammo Penny e almeno per due anni furono felici in due. Poi la malattia colpì fulminante. Il giovedi la micia sembrava stare ancora bene, il lunedi successivo a mia madre toccò un viaggio come quello che era toccato a me con MIO.
FRITTELLA
Penny è sepolta vicino alla casa in cui era vissuta. Anche FRITTELLA è sepolto vicino alla casa di Giacomo. L’avevamo preso per colmargli il vuoto lasciato da MIO. C’è riuscito, ma anche lui solo per due anni, povera bestiola. Era sanissimo, talmente sano da sembrare da cucciolo un diavolino della Tasmania per la sua vivacità. Viviamo in una parte di mondo in cui agli uomini e alle donne piace uccidere. Quando non possono farlo a mano armata, grazie a quella barbarie che si chiama caccia, lo fanno al volante delle loro macchine. Se vedono qualcuno che attraversa la strada, sia pure un bambino per mano alla mamma, accelerano come per essere più sicuri di travolgerli. Figuriamoci se potevano frenare per un gatto.
FLORENCE
Il micio rosso FRITTELLA se ne andò probabilmente la stessa notte che morì FLO. Florence era una gattina di poco meno di un mese, probabilmente tolta alla madre troppo presto da qualche contadino desideroso di sbarazzarsene quanto prima. Altra categoria dannosa quanto i cacciatori. FLO aveva più malanni che anticorpi. Riuscì a sopravvivere solo quindici giorni. Cominciò a star male un sabato, la domenica sera dovetti uscire un paio d’ore. Quando tornai la piccola FLO aveva lo sguardo fisso nel vuoto, forse già appuntato sul ponte dell’Arcobaleno. Dai suoi polmoni non usciva più alcun soffio vitale.
E’ sepolta qui fuori, accanto alla casa dove ha vissuto e che tra poco dovrò lasciare. Per la disperazione, ho sepolto con lei anche le chiavi della macchina. Non ho mai avuto il coraggio di riaprire quella piccola tomba. Per consolarci, prendemmo LJIUBA. La gatta dagli occhi languidi. Era stata tolta troppo presto alla mamma anche lei, era sopravvissuta ma i suoi occhi erano particolari, a causa di una cheratite che aveva reso per sempre il suo sguardo struggente, di una dolcezza infinita.
Quando la portammo a casa, non sapeva camminare. Aveva trascorso i primi due-tre mesi di vita in una gabbia. Pochi giorni dopo era diventata una cubista, faceva il quadro svedese con la nostra libreria dell’IKEA. Era come avere un cagnolino, quando tornavamo a casa lei era al cancello, di vedetta, e ci riempiva di feste. Era dolce non soltanto il suo sguardo, ma anche il suo cuore. Sembrava che volesse restituirci tutto il bene che le volevamo, lei che aveva cominciato come Cenerentola o Brutto Anatroccolo e che tenevamo come una principessa.
LJIUBA BERTA
LJIUBA sparì in una notte di luna piena di novembre. Per due settimane la cercammo per tutti i boschi del circondario, prima di arrenderci. Se l’erano presa gli stramaledetti cacciatori, oppure quel pazzo notorio che stava in fondo alla strada e che sparava ai gatti di tutto il paese perché “gli mangiavano l’insalata e gli disturbavano i conigli”. Non potendo sparare a lui, prendemmo altri gatti.
Mario Joyce è ancora vivo, così come il Nerino dei vicini. Erano amiconi fino al giorno in cui il Nerino ritornò sanguinante e pieno di pallini e la veterinaria di Pratolino dovette operarlo d’urgenza per salvargli vita e spina dorsale. Joyce, ce ne siamo accorti dopo, ha due pallini vicino alla colonna vertebrale che per fortuna non si muovono e che ormai resteranno lì. Il buon carattere di questi due mici invece se n’è andato per sempre. Come se tutta la fiducia nella razza umana e in questo mondaccio si fosse dissolta quel giorno maledetto.
Al “bianchino” JAMES non andò così bene. Lo prendemmo quindici giorni dopo la sparizione di Ljiuba, sparì a sua volta esattamente un anno dopo. Allo stesso modo. Niente tracce. Ricordo che misi un cartello alla porta del tizio. Qualcosa tipo “Prega il tuo dio di non essere stato te anche questa volta”. Mentre pensavo ad un modo legale di fargliela pagare, il Grande Spirito se lo prese, e gli aprì le porte dell’inferno, dove spero che brucerà per l’eternità. Non so dov’è la sua tomba maledetta perché andrei a ballarci sopra.
JAMES BIANCHINO
James Bianchino era un timidone che non amava essere accarezzato dall’uomo. Paurosissimo, tuttavia era a suo modo affezionato a noi ed agli altri gatti di casa. Soprattutto a Joyce (James + Joyce nelle nostre intenzioni), al Nerino e all’Amelia, arrivata pochi mesi prima della sua sparizione (e nella quale mi piace pensare che si sia reincarnata Ljiubina).
L’estate dopo, Paola credette di vederlo attraversare la strada in cima al grande prato. Ci piace pensare che ce l’abbia fatta, in qualche modo, e che si sia ricongiunto a quella natura in mezzo alla quale era fatto per vivere. A meno che anche lui sia salito sul Ponte dell’Arcobaleno, e ci stia aspettando lassù insieme agli altri.
KNUT
Era una notte d’inverno tra le più fredde quando arrivò KNUT. Malato anche lui di AIDS e tuttavia robusto quanto bastava per sopravvivere perfino a chissà quante notti alla fame ed al gelo. Scelse casa nostra, e una volta rifocillato scelse anche noi. Il gatto più buono della storia, occhi dolci anche i suoi da perdercisi dentro. Arrivato a gennaio, sparì un giorno di settembre. Il maledetto era morto da tempo, ma i cacciatori erano tornati. Mi piace pensare che Knut sia stato solo terrorizzato dagli spari e dai latrati dei cani, e abbia perso l’orientamento, riprendendo a vagare. Oppure, anche lui era insieme agli altri sul Ponte dell’Arcobaleno l’altro giorno a guardarci. Mentre noi guardavamo loro.
Loro lo sanno che non è ancora il momento. O forse ne sanno più di noi, e sanno quando questo momento arriverà. Sanno che il Grande Spirito ha stabilito che li riabbracceremo tutti e sette, insieme a questi che sono ancora con noi, sull’altro grande prato, quello in cima al Ponte. 
E quel momento sarà il premio che vale più di qualunque vita ci saremo lasciati indietro.

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