"Lassù nel cielo c'è un luogo chiamato Ponte Dell'Arcobaleno. Quando
muore un amico peloso che è stato amato da qualcuno, questi sale su fino al
Ponte dell'Arcobaleno, dove ci sono prati e colline a disposizione dei nostri
amici, i quali possono correre e giocare assieme. C'è tanto cibo, tanta acqua,
c'è tanta luce solare, ed i nostri amici sono al calduccio e a proprio agio.
Tutti gli animali che si sono ammalati ritrovano la salute ed il vigore, quelli
che sono stati feriti tornano intatti e forti, proprio come ce li ricordiamo
quando li sogniamo ricordando i bei giorni passati assieme. Gli animali sono
felici e contenti, salvo per una cosa: manca loro qualcuno che è stato
veramente speciale per loro, dal quale hanno dovuto separarsi. Tutti loro
corrono e giocano insieme, ma per ognuno di loro arriva un giorno in cui si
fermano e guardano lontano all'orizzonte. I loro occhi lucenti sono all'erta, i
loro corpi palpitanti. Allora si staccheranno dal gruppo, volando sull'erba
verde, con le zampe che li condurranno sempre più velocemente. Vi hanno
avvistato, vi hanno riconosciuto. Voi ed il vostro amico del cuore vi
ritroverete, per non separarvi mai più. Una pioggia di baci vi ricoprirà il
viso, la vostra mano potrà accarezzare di nuovo l'adorata testolina, e potrete
guardare di nuovo negli occhi il vostro amico del cuore, che è stato
fisicamente lontano da voi ma non è mai stato lontano dal vostro cuore. E
allora attraverserete insieme il Ponte dell'Arcobaleno..."
(Leggenda
Indiana)
Sabato scorso, mentre tornavamo a casa, il ponte dell’Arcobaleno era
aperto. Partiva da lì, da quel prato grande dove sono sepolti tutti i nostri
animali. O così almeno ci piace pensare, dato che è lì che se ne sono perse le
tracce.Questo posto, a vederlo dall’alto mentre si arriva, sembra un paradiso.
Ci sono giorni, e notti, in cui invece si popola di mostri, come il peggiore
degli inferni. Mi sono immaginato tante volte gli spiriti dei nostri gatti che
vagano su questo prato e su queste colline nell’universo parallelo a cui si
accede per questo ponte. Là dove nessuno può fare loro più alcun male e dove
noi andremo a raggiungerli un giorno, se lo Spirito più grande e potente di
tutti così vorrà.
Sabato il ponte era aperto, e poggiava su quel prato. Non era ancora il
nostro momento di attraversarlo, ma io ho visto loro e loro hanno visto me…….
Me lo farò bastare fino a quel giorno.
Il capobranco è un gatto soriano
grande e grosso, con uno sparato davanti come una camicia bianca.
Elegantissimo. Arrivò a casa una sera di settembre portato a sorpresa da un
bambino che non stava più nella pelle perché finalmente aveva il suo animaletto
domestico. Il nome che gli dette era inevitabile, come il Kharma.
MIO, con il bambino che lo portò a casa |
MIO. Il primo gatto, ed anche il primo a incappare nella sfortuna
che coglie prima o poi tutti gli animali che hanno a che fare con l’uomo. Abbiamo
riempito il mondo di malattie che non solo sono micidiali per noi, ma lo sono
anche per le bestiole che vivono vicino a noi. Nonostante il bene che quel
bambino e la sua famiglia gli riversarono addosso, il gattino dalla camicia
bianca si ammalò al primo graffio preso da colleghi vicini molto meno curati di
lui.
Un graffio fatale, portava con sé
il veleno mortale dell’HIV e della leucemia felina. Roba da pazzi, siamo
riusciti a infettare perfino i gatti con le nostre maledizioni. Riuscimmo per
sei anni a fargli avere una vita la più bella possibile, e quel bambino poté
crescere insieme al suo gatto. Finché per lui non divenne una sofferenza anche
solo mangiare o respirare.
Mi ricordo di non aver avuto
bisogno di sveglie in quegli anni. All’ora giusta avvertivo un peso sopra di
me, aprivo gli occhi e a pochi centimetri dal mio viso c’era il suo,
dolcissimo, che mi diceva muto: “quando
sei pronto con la ciotola, sono pronto anch’io”.
Mi ricordo anche l’ultimo
viaggio. MIO non ce la faceva più, il bimbo ormai cresciuto – Giacomo – era a
scuola. Portammo il gatto dal veterinario. Rimasi con lui mentre si
addormentava per l’ultima volta. I suoi occhi sembravano sereni come quelli di
mio padre, grati per tutta la sofferenza che quel sonno che arrivava avrebbe
evitato.
PENNY |
MIO è sepolto vicino alla casa
dov’è vissuto. Così come sua figlia PENNY,
Penelope. Arrivò dalla neve una mattina di febbraio. Sentimmo un miagolio
sommesso e fuori c’era lei, ormai svezzata dalla mamma ma abbandonata a se
stessa nel momento peggiore. Quando ancora non stava troppo male, MIO aveva
avuto una storia d’amore con una gatta del posto, era fuggito nel bosco come
nelle favole che si rispettano ed era tornato con moglie e figli.
PENNY era l’unica sopravvissuta.
Una volta accertato di chi era figlia, sapemmo anche perché. I due anni di vita
di quella gattina furono strappati al destino ancora più duramente dei sei del
padre. La mia mamma aveva appena perso la sua gatta, le portammo Penny e almeno
per due anni furono felici in due. Poi la malattia colpì fulminante. Il giovedi
la micia sembrava stare ancora bene, il lunedi successivo a mia madre toccò un
viaggio come quello che era toccato a me con MIO.
FRITTELLA |
Penny è sepolta vicino alla casa
in cui era vissuta. Anche FRITTELLA
è sepolto vicino alla casa di Giacomo. L’avevamo preso per colmargli il vuoto
lasciato da MIO. C’è riuscito, ma anche lui solo per due anni, povera bestiola.
Era sanissimo, talmente sano da sembrare da cucciolo un diavolino della
Tasmania per la sua vivacità. Viviamo in una parte di mondo in cui agli uomini
e alle donne piace uccidere. Quando non possono farlo a mano armata, grazie a
quella barbarie che si chiama caccia, lo fanno al volante delle loro macchine.
Se vedono qualcuno che attraversa la strada, sia pure un bambino per mano alla
mamma, accelerano come per essere più sicuri di travolgerli. Figuriamoci se
potevano frenare per un gatto.
FLORENCE |
Il micio rosso FRITTELLA se ne
andò probabilmente la stessa notte che morì FLO. Florence era una gattina di poco meno di un mese,
probabilmente tolta alla madre troppo presto da qualche contadino desideroso di
sbarazzarsene quanto prima. Altra categoria dannosa quanto i cacciatori. FLO
aveva più malanni che anticorpi. Riuscì a sopravvivere solo quindici giorni.
Cominciò a star male un sabato, la domenica sera dovetti uscire un paio d’ore.
Quando tornai la piccola FLO aveva lo sguardo fisso nel vuoto, forse già
appuntato sul ponte dell’Arcobaleno. Dai suoi polmoni non usciva più alcun
soffio vitale.
E’ sepolta qui fuori, accanto
alla casa dove ha vissuto e che tra poco dovrò lasciare. Per la disperazione,
ho sepolto con lei anche le chiavi della macchina. Non ho mai avuto il coraggio
di riaprire quella piccola tomba. Per consolarci, prendemmo LJIUBA. La gatta dagli occhi languidi.
Era stata tolta troppo presto alla mamma anche lei, era sopravvissuta ma i suoi
occhi erano particolari, a causa di una cheratite che aveva reso per sempre il
suo sguardo struggente, di una dolcezza infinita.
Quando la portammo a casa, non
sapeva camminare. Aveva trascorso i primi due-tre mesi di vita in una gabbia.
Pochi giorni dopo era diventata una cubista, faceva il quadro svedese con la
nostra libreria dell’IKEA. Era come avere un cagnolino, quando tornavamo a casa
lei era al cancello, di vedetta, e ci riempiva di feste. Era dolce non soltanto
il suo sguardo, ma anche il suo cuore. Sembrava che volesse restituirci tutto
il bene che le volevamo, lei che aveva cominciato come Cenerentola o Brutto
Anatroccolo e che tenevamo come una principessa.
LJIUBA BERTA |
LJIUBA sparì in una notte di luna
piena di novembre. Per due settimane la cercammo per tutti i boschi del
circondario, prima di arrenderci. Se l’erano presa gli stramaledetti cacciatori,
oppure quel pazzo notorio che stava in fondo alla strada e che sparava ai gatti
di tutto il paese perché “gli mangiavano l’insalata e gli disturbavano i
conigli”. Non potendo sparare a lui, prendemmo altri gatti.
Mario Joyce è ancora vivo, così come il Nerino dei vicini. Erano amiconi fino al giorno in cui il Nerino
ritornò sanguinante e pieno di pallini e la veterinaria di Pratolino dovette
operarlo d’urgenza per salvargli vita e spina dorsale. Joyce, ce ne siamo
accorti dopo, ha due pallini vicino alla colonna vertebrale che per fortuna non
si muovono e che ormai resteranno lì. Il buon carattere di questi due mici
invece se n’è andato per sempre. Come se tutta la fiducia nella razza umana e
in questo mondaccio si fosse dissolta quel giorno maledetto.
Al “bianchino” JAMES non andò così bene. Lo prendemmo
quindici giorni dopo la sparizione di Ljiuba, sparì a sua volta esattamente un
anno dopo. Allo stesso modo. Niente tracce. Ricordo che misi un cartello alla
porta del tizio. Qualcosa tipo “Prega il
tuo dio di non essere stato te anche questa volta”. Mentre pensavo ad un
modo legale di fargliela pagare, il Grande Spirito se lo prese, e gli aprì le
porte dell’inferno, dove spero che brucerà per l’eternità. Non so dov’è la sua
tomba maledetta perché andrei a ballarci sopra.
JAMES BIANCHINO |
James Bianchino era un timidone
che non amava essere accarezzato dall’uomo. Paurosissimo, tuttavia era a suo
modo affezionato a noi ed agli altri gatti di casa. Soprattutto a Joyce (James + Joyce nelle nostre intenzioni),
al Nerino e all’Amelia, arrivata
pochi mesi prima della sua sparizione (e nella quale mi piace pensare che si
sia reincarnata Ljiubina).
L’estate dopo, Paola credette di
vederlo attraversare la strada in cima al grande prato. Ci piace pensare che ce
l’abbia fatta, in qualche modo, e che si sia ricongiunto a quella natura in
mezzo alla quale era fatto per vivere. A meno che anche lui sia salito sul Ponte
dell’Arcobaleno, e ci stia aspettando lassù insieme agli altri.
KNUT |
Era una notte d’inverno tra le
più fredde quando arrivò KNUT.
Malato anche lui di AIDS e tuttavia robusto quanto bastava per sopravvivere
perfino a chissà quante notti alla fame ed al gelo. Scelse casa nostra, e una
volta rifocillato scelse anche noi. Il gatto più buono della storia, occhi
dolci anche i suoi da perdercisi dentro. Arrivato a gennaio, sparì un giorno di
settembre. Il maledetto era morto da tempo, ma i cacciatori erano tornati. Mi
piace pensare che Knut sia stato solo terrorizzato dagli spari e dai latrati
dei cani, e abbia perso l’orientamento, riprendendo a vagare. Oppure, anche lui
era insieme agli altri sul Ponte dell’Arcobaleno l’altro giorno a guardarci.
Mentre noi guardavamo loro.
Loro lo sanno che non è ancora il
momento. O forse ne sanno più di noi, e sanno quando questo momento arriverà. Sanno
che il Grande Spirito ha stabilito che li riabbracceremo tutti e sette, insieme
a questi che sono ancora con noi, sull’altro grande prato, quello in cima al
Ponte.
E quel momento sarà il premio che vale più di qualunque vita ci saremo
lasciati indietro.
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