Avevamo improvvisamente imparato
a conoscere questo ragazzo romano dai molti capelli e dall’ambizione di
diventare un cantautore che rinverdisse la fama di un Giorgio Gaber e di un Rino Gaetano
nel 2007, quando, pochi giorni dopo aver compiuto 30 anni, vinse a sorpresa la
cinquantasettesima edizione del Festival di Sanremo con la canzone Ti regalerò una rosa.
Simone Cristicchi raccontava la sua esperienza di volontario in un
centro di igiene mentale in quello che sembrava il palcoscenico più
improbabile, quello del Teatro Ariston,
il regno dell’effimero per antonomasia. E invece il suo successo fu travolgente
e ne fece una figura di primo piano nel panorama artistico nazionale. Il
ragazzo di Trastevere era destinato – se possibile – a ben altro che a seguire
le orme dei padri nobili della canzone d’autore.
Tra le sue passioni non c’erano
solo la musica ed il teatro. C’era soprattutto la storia, soprattutto quella
vista dalla parte dei più deboli. Dopo i malati di mente, sopravvissuti all’applicazione
non sempre felice della riforma di Franco
Basaglia, era toccato ai minatori dell’Amiata, alle vittime del G8 di Genova,
e infine a quel carnaio immane che era stata la seconda guerra mondiale, in cui
di vittime (e carnefici) se ne trovano a volontà.
Proprio durante uno dei suoi giri
di documentazione in preparazione del libro “Li romani in Russia”, dove si proponeva di raccontare l’epopea dei
suoi concittadini finiti nell’ARMIR di Mussolini, capitò a Trieste, città di
confine e di tragedie antiche e recenti mai guarite. E anche molto poco
raccontate, nonostante la retorica patriottarda.
Nel capoluogo giuliano, il
destino mise davanti a Simone la materia del suo lavoro successivo, e
probabilmente il viatico verso una notorietà ed un merito artistico ancora più
grandi di quelli raggiunti allora dalla sua pur giovane carriera. A Trieste,
qualcuno gli parlò del Magazzino 18. E niente fu più lo stesso.
Al Porto Vecchio di Trieste, l’immensa
struttura creata dall’imperatrice Maria Teresa
d’Asburgo e dai suoi successori per fare della città giuliana il gioiello
della corona imperiale austro-ungarica, erano – e sono tutt’ora – presenti una
serie di magazzini, fondachi ormai in gran parte purtroppo abbandonati, che una
volta avevano contenuto le ricchezze in transito ed in deposito del commercio
asburgico e che adesso ne contengono solo le vestigia, in gran parte
dimenticate e quasi sempre non visitabili anche da parte di quel pubblico
magari desideroso di non assecondare l’oblio istituzionale.
Di quei magazzini, il numero 18
era particolare. Quello che conteneva, e contiene tutt’ora, racconta di una
vecchia tragedia, una storia che la storiografia è stata ben contenta di
dimenticare, in ossequio alla sua padrona per eccellenza, la politica. Settant’anni
fa circa, in quel magazzino del Porto Vecchio, il Servizio denominato “Esodo” accatastò tutte le proprietà
superstiti di quegli istriani di Pola, Fiume e Zara che avevano visto la loro
terra assegnata alla Jugoslavia dai Grandi riuniti a Parigi per il Trattato che
metteva fine alla seconda guerra mondiale, chiudendone gli orrori con l’ultimo,
per loro sicuramente il più atroce.
350.000 istriani scelsero di non
avere nessuna fiducia nelle autorità jugoslave, le stesse che avevano “infoibato”
(gli storici avrebbero continuato a negare o a ignorare, ma le vittime
sapevano, eccome) i loro cari a ostilità già terminate, le stesse che – come qualche
filocomunista sprovveduto avrebbe imparato sulla propria pelle – avrebbero continuato
anche nei decenni successivi a perseguitare chi aveva il marchio d’origine dell’italianità.
Montagne di sedie aggrovigliate file
di armadi desolatamente vuoti, letti in cui erano stati sognati sogni tragicamente
infranti, cataste di legno. E poi lettere, fotografie, pagelle, diari, reti da
pesca, pianoforti muti, martelli ammucchiati su scaffalature ormai rose
dall'umidità. Settant’anni fa, o quasi, queste masserizie furono consegnate al
Servizio Esodo dai legittimi proprietari, gli italiani d'Istria, un attimo
prima di diventare quello che sarebbero rimasti – almeno dentro il proprio
cuore – per il resto della vita: esuli.
Le loro proprietà superstiti, o
almeno quel poco che avevano potuto portarsi dietro in fuga dall’Esercito del
Popolo di Tito, furono ammassate lì,
con la speranza magari un giorno di potere andare a riprendersele, per arredare
ed allietare nuove case e nuove vite. Lì sono rimaste settant’anni, perché
nessuno è tornato più. Chi è emigrato è rimasto nei nuovi mondi, U.S.A.,
Canada, Australia. Chi è rimasto non ha più avuto il cuore di riaprire vecchie
laceranti ferite che in qualche modo aveva rimarginato alla bell’e meglio. Le
autorità portuali, statali e comunali, sprangarono tutto e la memoria di
qualcosa che non avrebbe dovuto essere mai dimenticato rimase lì, al buio, ad
aspettare che il tempo trascorresse, il sangue si asciugasse, la politica
rinunciasse a fare altre vittime, almeno in quella parte di mondo lì, a danno
di quella gente.
Quando qualcuno aprì a Simone
Cristicchi le porte del Magazzino 18, Roberto
Menia ed Alleanza Nazionale erano riusciti da poco a far approvare al
parlamento Italiano il tardivo risarcimento almeno morale del Giorno del
Ricordo. Per scoprire che, incredibilmente, della tragedia degli istriani (e di
quella parte di mondo dove la guerra mondiale aveva visto scritte alcune delle
sue pagine più atroci) quasi nessuno sapeva nulla.
Scuola pubblica e cultura ufficiale
si erano piagate alla realpolitik. Il
Partito Comunista Italiano era stato forte, fortissimo nel dopoguerra, al di là
dei seggi in parlamento e dell’ombrello
NATO. Dei martiri delle Foibe non si poteva parlare, a pena di essere
tacciati di apologia di fascismo. Secondo la “cultura” ufficiale, l’equazione
italiani = fascismo ce l’eravamo meritata proprio lì, in Istria, Dalmazia e
Croazia. Quindi, soffrire in silenzio e tirare avanti, ad espiare le “colpe dei
padri” per l’eternità.
Le ragioni delle vittime erano
state lasciate in appannaggio spirituale e politico al solo Movimento Sociale
Italiano. Essere con gli istriani significava stare non solo dalla parte dei
vinti (cosa che all’italiano medio non piace mai, a prescindere), ma
soprattutto dalla parte di loro, i nostalgici del Fascismo. I campi profughi si
erano riempiti di nostri connazionali un po’ ovunque (alcuni destinati a
diventare famosi, Sergio Endrigo, Laura Antonelli, Nino Benvenuti, Ottavio
Missoni), a scontare una lunga quarantena prima di riuscire a farsi accettare
dal resto della popolazione e a disperdervisi nel suo insieme.
Con il suo spettacolo Magazzino 18, Simone Cristicchi sta
girando l’Italia (e non solo, la sua rappresentazione ha avuto audience e successo perfino nel “campo
avverso”, in Croazia) da oltre un anno. Da oltre un anno tocca il cuore e
scatena polemiche, risvegliando memorie storiche e personali a cui non si
ritorna volentieri, ridestando – o destando per la prima volta - coscienze,
attirandosi addosso strali e critiche feroci da tutte le parti. Dalla destra
estrema che vorrebbe strumentalizzare il suo spettacolo, a quegli ultimi figli
inconsapevoli di un comunismo ampiamente sconfitto dalla storia del mondo ma
che ha ancora pretese egemoniche sulla cultura italiana. Come quella cooperativa
di giovanotti denominata WuMing che
imperversa sul web e nelle librerie
con le sue operazioni culturali – o presunte tali – di controinformazione e che
proprio con l’aggressione verbale a Cristicchi ha dimostrato, se ce n’era
bisogno, che ci sono almeno un paio di generazioni che dovrebbero ritornare a
scuola. Magari una scuola che funziona, non certo quella italiana attuale.
Spalancare le porte di un
magazzino come il 18 significa del resto ereditare tutto il peso della storia d’Italia.
Al suo peggio, vorremmo dire. La storia delle foibe, delle esecuzioni sommarie
che non risparmiarono donne, bambini e sacerdoti, della vita nei campi profughi
e del dolore profondissimo per lo sradicamento e la cancellazione della propria
identità, finalmente viene portata in palcoscenico dal musical di Simone Cristicchi, che si “limita” – si fa per dire – a mettere
in musica i reperti di quel fondaco. A lasciare che parli la voce dei
superstiti, degli esuli che non torneranno più. Della bambina morta di freddo
nel campo profughi di Padriciano e
di tutti coloro che continuarono a morire, brutalmente e – si spera, almeno –
rapidamente oppure a poco a poco, ben dopo che l’ultimo dei cannoni della
guerra mondiale aveva sparato il suo ultimo colpo.
Sarà un caso, ma il Comune di Trieste
da due anni a questa parte ha deciso di aprire le porte del magazzino 18 a
visite guidate a quel mare di legno e di memorie su cui Cristicchi ha riacceso
la luce. Non è mai troppo tardi, diceva
una volta un maestro che ebbe l’ambizione – riuscendovi – di risollevare da
millenaria ignoranza una popolazione a cui all’epoca la televisione insegnava,
e non toglieva.
Come gli disse lo stesso custode
del magazzino 18: “secondo me questa
storia puoi raccontarla soltanto tu, hai l'età giusta, sei libero dalle zavorre
ideologiche che hanno condizionato le generazioni che ti hanno preceduto".
Libero, e dotato di talento, come aggiungiamo noi e come ognuno può constatare
seguendo il suo spettacolo.
Come il Dario Fo del Mistero Buffo
negli anni 70, come il Marco Paolini
del Vajont negli anni 90, Simone
Cristicchi è meritatamente il fenomeno culturale di questo avvio di ventunesimo
secolo. E’ riuscito perfino a rendere il Festival di Sanremo qualcosa che vale
la pena di perdere tempo a seguire, almeno per una volta. Chissà che non riesca
a riconciliare gli italiani con la loro storia e con la loro coscienza.
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