Settima prova d’autore per
Umberto Eco. Avevamo lasciato il professore di Alessandria all’ultima pagina del
diario, bruscamente interrotto, di Simone Simonini, l’avventuriero che aveva
attraversato tutto l’Ottocento ed il Risorgimento italiano per andare a
concludere la propria esistenza in un improbabile attentato alla metropolitana
di Parigi (allora in costruzione, siamo nel 1898).
Lo ritroviamo (siamo in Italia,
nel 1992, nei giorni in cui esplode l’inchiesta Mani Pulite) nelle prime, allucinate pagine del diario di tale
Colonna, giornalista fallito, o perlomeno che non ha mai sfondato. Il nuovo
personaggio di Umberto Eco è anche lui un paradigma vivente, e del resto non a
caso il suo creatore è il massimo esponente italiano (e forse internazionale)
di semiotica, la scienza che studia i
segni ed il loro significato, la base di quell’altra scienza diventata
fondamentale ai nostri giorni, la comunicazione.
Se Simonini, falsario e spia,
aveva rappresentato il lato oscuro di tutta la nostra epopea risorgimentale,
entrando direttamente o indirettamente in tutte le trame ordite dai servizi che
fiancheggiarono – e spesso precedettero – gli eserciti in campo pro o contro l’Unità
d’Italia, questo ancor meno accattivante dottor Colonna, di cui non sappiamo e
non sapremo nemmeno il nome di battesimo, rappresenta il lato oscuro della
nostra vita politica e civile contemporanea, la “notte della Repubblica” incarnata
dalla degenerazione del suo Quarto Potere, quello che avrebbe dovuto esserne il
guardiano più fedele.
Simonini attraversa un secolo in
cui tutto si vena – nel bene e nel male – di Romanticismo. Perfino le leggende
nere che vengono ad arte coltivate dal mondo delle spie per discreditare
avversari pericolosi, fino a quella destinata a diventare la madre di tutte, la
favola tragica del Protocollo dei Savi di
Sion, la presunta cospirazione ebraica per il dominio del mondo di cui si
sarebbe nutrito in buona parte l’antisemitismo nel secolo successivo. Con le
conseguenze che sappiamo.
Colonna non lo si può definire un
suo epigono, ma semmai qualcosa di meno e di diverso, un ingrediente grezzo. I
suoi tempi sono assai meno romantici, ed anche meno eroici, anche se di bombe
ne scoppiano e di guerre ne vengono combattute con pari spargimento di sangue,
anzi. E’ un personaggio di quel sottobosco del mondo dell’informazione che in
tempi di tarda Prima Repubblica può portare un individuo ad essere un nuovo
Mino Pecorelli (il re del dossieraggio ricattatorio scomparso misteriosamente
nel 1979) così come il probabile capo-redazione di un misterioso settimanale
destinato a rivoluzionare il panorama dell’editoria giornalistica italiana.
A cinquant’anni, quando sembra
ormai che l’avvenire sia per lui tutto dietro le spalle, il Colonna viene
contattato dal misterioso faccendiere di un ancor più misterioso imprenditore (il
Commendatore) desideroso di una
entrata nel salotto buono dell’informazione in vista di una discesa in campo
successiva. Alzi la mano chi non ha riconosciuto il riferimento storico,
peraltro tutt’ora di attualità.
Antonio Di Pietro all'epoca del Pool Mani Pulite |
Al Colonna, giornalista oscuro ma
a suo modo provetto, viene affidato il compito di istruire una redazione fatta
di personaggi ancora più borderline di
lui su come si costruisce una
notizia. Si badi bene, in quei giorni – primavera 1992 – di notizie ce ne
sarebbero a sfare, basterebbe uscire per strada e recarsi presso uno dei
tribunali della Repubblica, a cominciare da quello di Milano dove il Dott.
Antonio di Pietro ha cominciato la sua breve stagione di magistrato di Mani Pulite.
Al Commendatore, gli viene ben
presto fatto capire, non interessano le notizie di per sé, ma solo quelle che
possono dare, se opportunamente enfatizzate e/o arricchite, giovamento a lui e
fastidio ai suoi avversari. Si lavora ad un “Numero Zero” (di qui il titolo del romanzo) di un periodico, Domani, che dovrà rivoluzionare il mondo
del giornalismo italiano. In che misura, il faccendiere del Commendatore lo
lascia soltanto intuire, ma efficacemente.
E così, da una riunione all’altra
di una redazione di sgangherati reporters che navigano a vista tra il miraggio
finalmente di una carriera vera e l’inquietudine di una coscienza che non
vorrebbe piegarsi del tutto a sacrificare la libertà di stampa al tornaconto
dell’editore, si consuma una parabola del giornalismo italiano che di per sé sola
farebbe del racconto di Eco un altro capitolo interessante della sua produzione
sia narrativa che saggistica. Pagina dopo pagina, riunione dopo riunione, l’esperto
di comunicazione illustra – e ci illustra - i suoi trucchi (o che almeno
potevano considerarsi tali nel 1992, quando eravamo tutti più speranzosi o più
ingenui) e ci svela come le voci COMUNICAZIONE ed INFORMAZIONE in realtà
possano arrivare a contenere tutto ed il contrario di tutto.
E’ la stampa, bellezza! dice Humphrey Bogart al boss della malavita
Rodzich che vorrebbe chiudere la bocca al suo giornale, nel film L’Ultima
minaccia. Il cinema e la letteratura americani ci hanno tramandato un’immagine
epica della stampa locale, da Quarto Potere di Orson Welles a Tutti gli uomini
del Presidente di Alan J. Pakula. E’ un’immagine peraltro accreditata dai
brillanti risultati ottenuti nella realtà. La testardaggine di Bernstein e
Woodward fu fondamentale per arrivare alle dimissioni di Nixon dopo il
Watergate.
In Italia, le rare pellicole di
ambientazione giornalistica come il Muro di Gomma di Marco Risi sulla tragedia
di Ustica dipingono la carta stampata a tinte migliori di quelle visibili nella
realtà. Il 1992 fu un anno fatidico, quello in cui finalmente la società civile
avrebbe potuto prendere il controllo del proprio destino in questo paese,
guidata da una stampa che avesse colto l’occasione di affrancarsi da padronato
e politica cavalcando la tigre della stessa libertà dei cittadini. Una breve ed
illusoria stagione.
12 dicembre 1969, Milano, banca Nazionale dell'Agricoltura, Piazza Fontana |
La parabola di Domani, il settimanale immaginato da
Umberto Eco, è quella di tutto il giornalismo nostrano. Il breve esperimento
del fantomatico, si fa per dire, Commendatore e della sua improbabile redazione
va ad infrangersi al pari dell’opera del falsario Simonini sulle conseguenze di
una leggenda nera. Una delle tante di cui è piena la storia d’Italia, ma anche
la più attuale. Il presupposto è clamoroso, e non diciamo quale per non
rovinare il piacere della lettura e la suspence. Il senso è che la storia d’Italia
del Ventesimo Secolo è attraversata tra trame nere (e questo lo sapevamo)
collegate da un unico filo anch’esso nero (e questa è un’ipotesi suggestiva,
che gli storici un giorno potranno confermare o smentire e che nel frattempo ci
aiuta a mettere in fila tanti fatti oscuri della notte della Repubblica, fin da
prima della sua nascita).
Il protagonista inconsapevole di
Numero Zero non a caso si chiama di cognome Braggadocio, parola che l’italiano
ha mutuato dall’inglese e che significa spaccone, millantatore, imbroglione. E’
la parte di coscienza che tira la giacchetta a Colonna invitandolo ad aprire
gli occhi sui dossier, sui documenti veri o fabbricati che circolano nel
sottobosco dell’informazione e dei servizi italiani. Un ambiente comune,
magmatico e fetido nel quale non si distingue più nulla.
San Benedetto Val di Sambro, 4 agosto 1974, treno Italicus |
Come il Simonini istruito dai
maestri dello spionaggio ottocentesco, Braggadocio e Colonna oscillano tra
verità e fantapolitica in modo che non è più possibile stabilire ciò che è
giusto da ciò che è sbagliato. Il giornalista in Italia è un apprendista
stregone che impara a dosare gli ingredienti nelle misure “giuste”, vero o
falso è tutta questione di momento o di enfasi, per un popolo abituato a
ricevere la verità dal Potere, senza mai metterla in discussione, senza
ribellarsi.
Finisce male, come l’opera
precedente. Come la realtà. Mentre il Belpaese vive la breve, illusoria
stagione di Tangentopoli, il ficcanaso che voleva svelare le Trame Nere fa una
brutta fine, il suo collega che credeva di poter fare uno scoop giornalistico,
di avere quantomeno davanti un avvenire giornalistico, si trova di fronte al
dilemma di tutti i perseguitati da parte dei servizi segreti: far perdere le
proprie tracce? E dove?
Il finale è amaro, come le
conclusioni dell’autore, e di chiunque sa già com’è andata la storia, quella
vera. Per far perdere le proprie tracce, anche nei confronti di se stessi, non
importa scappare. Basta rimanere qui, nel paese dove dopo un po’ la gente si
stanca, aspira alla normalità del “proprio particulare”, come lo definiva Guicciardini,
mal digerisce rivoluzioni e capipopolo, politicanti (vecchi e nuovi) e
magistrati. Aspira a voltare pagina, di quel giornale che non sopporta troppo
carico di cattive notizie. Anestetizzata agli effetti ed al peso della verità.
Basta continuare come se nulla
fosse successo. Nessuno si ricorderà più di te, di cosa hai fatto, di cosa
cercavi. Il giornale che oggi sembra dinamite, domani al limite viene messo da
parte per qualche ricerca di scuola. Domani l’altro ci si incarta il pesce o ci
si copre un pavimento per rimbiancare.
“Se un milione di persone crede
ad una cosa idiota, la cosa non cessa di essere idiota”
(Anatole France)
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