La storia è maestra di vita,
diceva Cicerone in un epoca in cui di storia alle spalle l’uomo ne aveva assai
meno di adesso, e tuttavia sufficiente ad insegnare qualcosa – con i suoi corsi
e ricorsi – a chi si fosse presa la briga di studiarla.
Abbiamo rinnegato da tempo i
nostri maestri, buoni o cattivi che fossero. Compresa appunto la storia, che è
diventata materia specialistica e per di più insegnata malamente, attraverso i
filtri spessi dell’ideologia e di un analfabetismo di ritorno che si accoppiano
in modo diabolico e micidiale.
Era un 7 dicembre di 74 anni fa,
quando la storia del mondo cambiò per sempre. Era un mondo avviluppato dalle
fiamme della guerra per una buona metà della propria estensione geografica.
Mancava, a dare pieno significato all’aggettivo “mondiale” per quella guerra,
giusto il continente americano. I caccia Mitsubishi A6M, divenuti leggendari con il soprannome “Zero”, che
decollarono all’alba di quel 7 dicembre per attaccare la flotta statunitense
alla fonda nella rada di Pearl Harbor si incaricarono nel modo più clamoroso e
sanguinoso possibile di ovviare a quella lacuna. Dopo l’Operazione Barbarossa
che vide Hitler rompere il patto con Stalin, l’attacco a Pearl Harbor trasformò
la guerra anglo-tedesca nella Seconda Guerra Mondiale.
Affondamento della U.S.S. California |
Una cosa era sembrata chiara, durante quei 1940 e 1941 in cui gli
americani si erano limitati a sostenere gli inglesi nella battaglia d’Inghilterra.
Al punto in cui le cose erano arrivate, la guerra avrebbe finito per
coinvolgere anche loro. Lo sapevano perfettamente il presidente Franklin Delano
Roosevelt e tutti gli uomini della sua amministrazione. Era scritto non solo
nel manifest destiny, il corollario alla Dottrina Monroe che spingeva gli
U.S.A. verso un ruolo ineluttabile di superpotenza mondiale, esportatrice di
quei valori di libertà e democrazia contro cui si erano scatenate le Potenze
dell’Asse. Era scritto appunto nella logica stessa della guerra in corso, esplosa
per motivi ideologici ed economici che portavano gli Stati Uniti al fianco
della Gran Bretagna e dell’Unione Sovietica per ragioni di sopravvivenza.
Per il popolo americano il discorso era diverso. Appena messa fuori la
testa dalla devastante Grande Depressione, nessuno aveva voglia di abbandonare
l’Isolazionismo, la politica tradizionale che da più di un secolo portava l’americano
medio a disinteressarsi totalmente del resto del mondo. Gli Zero di Yamamoto,
decollati all’alba del 7 dicembre 1941 dalle portaerei giapponesi secondo un
piano elaborato da settimane (fu proprio l’impresa dei caccia britannici a
Taranto a dare al Sol Levante l’idea dell’attacco a tradimento a Pearl Harbor),
costrinsero appunto l’americano medio a dire addio alla Dottrina Monroe, ai
suoi corollari ed all’illusione che l’orizzonte degli U.S.A. fosse limitato
dalle spiagge del Pacifico e dell’Atlantico dove terminava il continente
americano.
Day of Infamy, lo chiamò il presidente Roosevelt per chiamare a raccolta
lo stordito popolo a cui nel giro di poche ore era venuta a mancare buona parte
della Flotta del Pacifico. Ma non, come aveva sperato (tiepidamente, a quanto
pare, a cominciare dallo stesso ammiraglio Yamamoto) lo Stato Maggiore
Imperiale giapponese, la volontà di combattere. James Monroe e la sua “America
agli americani” furono dimenticati non appena la prima bomba lanciata da uno
Zero colpì la prima corrazzata americana a Pearl Harbor.
Quando l’ambasciatore giapponese consegnò (in ritardo artefatto) la
dichiarazione di guerra al governo americano, la guerra era già nell’animo di
ogni cittadino statunitense. Il destino giapponese era stato stabilito nei
primi anni Trenta, quando il vuoto di potere russo e cinese aveva invogliato l’Impero
del Sol Levante a mangiarsi l’Asia. Il destino americano era stato stabilito
allora, essendo l’unica potenza rimasta in Asia a contrastare le ambizioni
nipponiche. Ed anche in verità prima di allora, agli inizi di quello che
sarebbe stato conosciuto come il “secolo americano”, allorché un altro
Presidente Roosevelt, Theodore, aveva stabilito il corollario alla Dottrina
Monroe secondo cui la difesa del Continente portava gli U.S.A. a scontrarsi con
il resto del mondo, in un’epoca in cui le Grandi potenze erano ancora potenze
coloniali. A scontrarsi ed ovviamente a vincere.
La storia che fu scritta nei quattro anni successivi a Pearl Harbor, e
che lasciò il mondo nelle mani della superpotenza americana contrastata da
quella sovietica durante la Guerra Fredda, come ogni storia maestra di vita è
stata dimenticata da tempo. Al suo posto, un fiorire di leggende alimentate da
ideologia e ignoranza. A cominciare da quella secondo cui gli americani non si
sarebbero fatti sorprendere dal tradimento giapponese, ma lo avrebbero
addirittura facilitato, se non incoraggiato, se non addirittura provocato e guidato.
Facendosi attaccare appunto deliberatamente a Pearl Harbor per vincere le
resistenze interne alla popolazione e gettarsi nel conflitto mondiale.
La leggenda nera (alimentata dall’antiamericanismo di matrice fascista e
comunista mai sopitosi e anzi divampato nel dopoguerra con lo scontro tra i Due
Blocchi) dell’auto-attentato ha sostituito qualsiasi verità storica. Ed è
grassa se un film ad effetti speciali ma tutto sommato abbastanza veritiero ed
accurato come quello di Michael Bay del 2001 ha istillato qualche fotogramma
nella memoria collettiva delle ultime generazioni. A cui nessuno insegna più
niente, lasciando il campo libero alle bufale complottistiche che infestano i
social network e quello che rimane di certi “circoli politici”.
Gli americani che nel 1941 “si bombardarono” nelle Hawaii sono gli stessi
che “si tirarono” giù le Torri Gemelle quasi 70 anni dopo. Sono gli stessi che
si creano i propri nemici ad arte, giusto per il piacere di mandare i propri
figli a farsi ammazzare in guerra (perché sono loro che mandano i propri figli a
morire nelle nostre guerre tutt’oggi, non noi europei che invece siamo così
saggi, avveduti, furbi, seri, lungimiranti, animati da buoni sentimenti e chi
più ne ha più ne metta). Sono il Grande Satana di cui parlava Khomeini, uno che
di mandare i propri figli a morire se ne intendeva. Sono quelli che hanno anche
stretto alleanza con gli Alieni stabilitisi nella base sul lato oscuro della
Luna. E che hanno affidato alla sapiente regia cinematografica di Stanley
Kubrick la ripresa del finto sbarco sulla stessa Luna.
Il complottismo ha un solo limite: la stessa mancanza di intelligenza che
lo alimenta. Gli U.S.A. costituirono la famosa e famigerata C.I.A. soltanto nel
1943, nella propria ambasciata a Grosvenor Square a Londra sotto la supervisione
e gli ammaestramenti del MI6 inglese. Fino a quel momento il suo servizio
segreto era stato costituito da mestieranti, come quelli che si fecero
sorprendere dall’attacco giapponese a Pearl Harbor, ignorando – per ignoranza,
appunto – i segnali premonitori, fossero in codice o meno.
74 anni dopo la C.I.A. – nonostante il vittorioso tirocinio della Guerra
Fredda – non può peraltro certo dire di essere diventata molto più abile di
quei pionieristici precursori, se è vero che i segnali lanciati da Al Qaeda
nell’estate 2001 sono stati ignorati più o meno come quelli dell’estate e dell’autunno
1941. Era una domenica quel 7 dicembre, la flotta americana era in stato di
allerta moderato. Gli Zero non trovarono resistenza, fu una strage. Come quella
delle Twin Towers.
Chi dice che fu il governo U.S.A. a rivolgere la mano contro il proprio
popolo allora come in seguito non conosce la storia. Che come tutte le maestre
di vita è molto meno affascinante della teoria dei complotti. Resta una
certezza, il secolo americano cominciò il 7 dicembre 1941, per andare in crisi
(almeno di certezze) l’11 settembre 2001. Un secolo breve, l’avrebbe definito Eric
Hobsbawm. Dopo di esso il mondo sta cercando, in modo assai caotico per non
dire rovinoso, un’alternativa. Se essa sia realmente possibile – oltre che
vantaggiosa per il genere umano – lo dirà la Historia Magister Vitae alle
generazioni future che avranno voglia di studiarla.
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