Il piccolo "guardiano" del Gran Bazaar |
Diceva Gandhi, la grandezza di
una nazione ed il suo progresso morale si possono giudicare dal modo in cui
tratta gli animali. A Istanbul, la prima cosa che colpisce è proprio questa, il
modo in cui i Turchi trattano gli animali è tale da far arrossire di vergogna
la maggior parte dei turisti provenienti da ogni parte del mondo. Soprattutto
gli italiani, che non trattano bene più niente, figuriamoci i propri animali, e
che assistono non si sa quanto consapevoli alla distanza che ormai intercorre
tra la vecchia capitale di svariati imperi e una qualunque delle nostre città,
anche quelle consegnate alla fama immortale da un passato glorioso mai più
eguagliato.
Per le strade dell’immensa
metropoli distesa sulle rive del Bosforo, prima ancora che le vestigia di millenni
di grande storia o le conquiste di una modernizzazione che forse nemmeno lo
stesso Kemal Ataturk poteva immaginare o sognare, la prima cosa che si ammira è
l’affetto, la cura che quasi ogni abitante di questa città ormai fuori da ogni
tempo porta per cani e gatti. Non c’è area verde o strada abitata dall’uomo che
non abbia le sue brave casette adibite a cucce, dove i migliori amici di quello
stesso uomo possono ripararsi dalle intemperie, allevare i propri cuccioli e
attendere che qualche cittadino di buon cuore (che forse soltanto qui guadagna
alla razza umana il titolo corrispondente di miglior amico degli animali)
scenda giù dalla sua casa a portar loro del cibo, o a prendersi cura di loro
portandoli dal più vicino veterinario, se ne hanno bisogno.
Un negozio di lusso ed un commesso "inusuale" |
Perfino al gabbiano che
accompagna il traghetto che il turco di Istanbul adopera quotidianamente per
spostarsi da una riva all’altra della sua città non manca mai il nutrimento
offerto da qualche passeggero che accetta di dividere con lui la sua colazione.
Gli animali sono parte di loro, delle loro anime. Per le strade che si snodano
su quelle rive, mai un gesto di cattiveria, crudeltà o anche soltanto
insofferenza da parte degli esseri umani locali verso i loro coinquilini
animali. Chissà se il Mahatma si
sarebbe sorpreso di scoprire che nella speciale classifica delle nazioni
aspiranti al progresso morale e civile secondo i suoi parametri la Turchia
occupa uno dei posti più alti, se non il più alto.
I Turchi sono un popolo senza
simili. Chi conosce la loro storia può raccontarvi di come la gente nomade che
arrivò dalle pianure dell’Asia in un’epoca in cui Gengis Khan e Marco Polo
erano ben al di là da venire, e che era destinata a diventare come nazione una
delle grandi potenze mondiali dell’età moderna, ha sempre avuto nel suo
patrimonio ancestrale uno speciale rapporto con la natura e le sue creature.
Del crogiuolo di tribù provenienti dagli altopiani altaici dell’Asia Centrale,
oltre all’anima guerriera i Turchi conservano l’istinto atavico a trattar bene
le bestie e le bestiole che li affiancano nella vita di tutti i giorni, perché
ricordano – a differenza di tanti altri popoli con pretesa di civiltà – che da
esse e dal loro benessere dipende essenzialmente la stessa qualità di questa
loro vita.
Chi conosce la storia del popolo
che arrivò a sottrarre la guida dell’Islam agli stessi Arabi tra cui quella
religione si era sviluppata può spiegarvi come in realtà lo stesso Islam è
stata una sovrastruttura culturale e religiosa innestatasi per vicende storiche
sopra lo spirito originario e più genuino di questo popolo, lo Sciamanesimo, che li accomunava agli
Indiani d’America nel rispetto di tutti gli esseri e di tutte le cose, nell’ossequio
profondo allo Spirito che governa e pervade il Mondo. L’occhio beneaugurante
che vi vendono ad ogni angolo di strada non è quello di Fatima, come vorrebbe
la tradizione islamica che lo fa risalire alla figlia del Profeta Maometto, ma
è un portafortuna, un simbolo di prosperità e benessere che risale ai vecchi saman, gli sciamani, del popolo che
cavalcava nelle steppe asiatiche, prima di incontrare il suo destino imperiale.
L’Islam non basta a spiegare i
Turchi e la Turchia. Secondo la tradizione, il gatto era l’animale prediletto
del Profeta, al contrario del cane che era ritenuto impuro, infimo. A Istanbul
cani e gatti sono oggetto della stessa venerazione, di pari affetto e
benevolenza. Alzare una mano contro di essi è come alzare una mano contro un
proprio simile, è una violazione del diritto naturale preesistente al Corano,
alla conversione delle tribù turche alla religione nata in Arabia, alla loro
riconversione da orda nomade a nazione stanziale sulle fatidiche rive del
Bosforo.
Si arriva a Istanbul dall’Europa
o dall’Asia, in entrambi i casi senza sapere bene cosa ci attende. Con il Medio
Oriente qui non corre buon sangue, da sempre. La comunanza religiosa non ha mai
significato fratellanza. I Turchi passarono da milizia mercenaria degli Arabi a
loro padroni senza che in nessun momento della loro lunga storia comune si stabilisse
un minimo di feeling. Nel mondo islamico, i Turchi sono rispetto ai
correligionari di altre etnie quello che i Tedeschi sono più o meno nel mondo
cristiano (e non a caso i due paesi, le due nazioni hanno avuto in epoca sia
imperiale che moderna relazioni privilegiate). Come i popoli di lingua
germanica in Europa, quelli di lingua altaica rispetto all’Asia sono fatti di
tutt’altra pasta, peraltro difficilmente comprensibile proprio a chi professa la stessa
confessione religiosa prima ancora che agli altri. E oggetto dello stesso misto
di sentimenti, oscillanti tra l’invidia per l’efficienza e l’incomprensione per
quella che viene vissuta come il contrario dell’elasticità mentale tanto cara
ai popoli mediterranei.
Piazza Taksim |
Per chi viene dall’Europa,
l’impatto è diverso. Ci separano dai Turchi secoli di “scontri di civiltà”,
cominciati proprio quel 29 maggio 1453 in cui Costantinopoli cadde nelle mani di Fatìh Sultan Mehemet, Maometto II il Conquistatore, e divenne Istanbul.
Ci separa, ancestralmente parlando, quel “mamma li Turchi” che non abbiamo
sentito risuonare lungo le nostre coste come invece succedeva ai tempi di quel
Barbarossa che a Besiktas, il quartiere storico della ex capitale
ottomana dove l’ex pirata divenuto ammiraglio si ritirò a vivere i suoi ultimi anni, è celebrato adeguatamente dai suoi connazionali come un eroe nazionale al pari di un Francis Drake o di un Horatio Nelson.
Non abbiamo sentito quel grido, ma pervade tutte le storie che ci raccontavano
nell’infanzia, provenienti da un mondo lontano in cui Cristianesimo e Islam non
riuscivano a parlarsi, ma solo a confrontarsi con tutta la ferocia e la
crudeltà di cui la razza umana era capace nei secoli passati, e di cui
probabilmente è capace ancora se opportunamente sollecitata.
Sottopassaggio Ponte di Galata |
Si arriva dall’Europa avendo
studiato a scuola (quando ancora a scuola un po’ di storia bene o male si studiava) che il 7
ottobre 1571 a
Lepanto la Cristianità ottenne la sua più grande vittoria sugli Infedeli,
salvando il nostro stile di vita attuale e l’ombra della Croce sul continente
europeo insidiata dalla Mezzaluna. Il 7 ottobre è stato anche il giorno in cui
ho ripreso l’aereo per tornare in Italia, e riuscivo a provare solo nostalgia
per questa straordinaria metropoli di sedici milioni di abitanti (stimati) dove
tutto sommato ci sono molto meno confusione e cialtroneria rispetto alla città da cui provengo, quella
Firenze in cui il suo milione scarso di cittadini ha perso da tempo ogni
orgoglio e ogni consapevolezza di dove – e di come – vive.
Riuscivo solo a provare sentimenti positivi per questa gente che in cinque giorni non ha mai avuto il minimo accenno di intenzione di rifilarmi una fregatura o comunque un atteggiamento che non fosse amichevole o rispettoso. E che mi ha fatto inevitabilmente riflettere sul fatto che vivo invece in un paese dove il livello di convivenza civile si misura su una scala graduata su cui ad ogni tacca corrisponde una delle nostre città, posizionata in ordine di degrado, se mi si perdona il bisticcio di parole
Riuscivo solo a provare sentimenti positivi per questa gente che in cinque giorni non ha mai avuto il minimo accenno di intenzione di rifilarmi una fregatura o comunque un atteggiamento che non fosse amichevole o rispettoso. E che mi ha fatto inevitabilmente riflettere sul fatto che vivo invece in un paese dove il livello di convivenza civile si misura su una scala graduata su cui ad ogni tacca corrisponde una delle nostre città, posizionata in ordine di degrado, se mi si perdona il bisticcio di parole
Pescatori sul Ponte di Galata |
Abbiamo vinto a Lepanto, in
un’epoca in cui non era possibile comprendersi tanto diversi eravamo, ma poi
abbiamo disperso tutto il frutto di questa vittoria. E oggi la Turchia ci
guarda, a noi discendenti delle gloriose Repubbliche Marinare di Genova e
Venezia che ormai affogano sotto le alluvioni e gli scandali, dall’alto delle
colline di questa metropoli immortale dove risplendono i simboli di una
modernità che il genio di Ataturk ha potuto forse solo intravedere e che si
fondono (forse ancora per poco) con le vestigia di un passato che definire
straordinario è riduttivo.
A Istanbul passato e presente si
incontrano del resto da sempre in modo suggestivo. Qui arrivava l’Orient Express, il treno favoloso che
nell’Ottocento trasportava ricchi e nobili a giro per l’Europa dalle capitali
della modernità Londra e Parigi fino alla Porta dell’Oriente, dal Tamigi alla
Senna al Bosforo, correndo lungo il Danubio su cui ancora era posto il confine
tra due religioni, due mondi che cominciavano allora a incontrarsi e a
comprendersi un po’ meglio.
Sirkeci Station |
La vecchia stazione ferroviaria
di Sirkeci, una delle più antiche del mondo, testimonia ancora di quella Belle Epoque che ha ispirato al meglio
scrittori e cineasti. Entrarvi dentro significa ancora ritrovarsi tra le pagine
di un capolavoro di Agatha Christie, avvolti da un’atmosfera mantenuta alla
perfezione dalla musica anni venti e dall’architettura ottomana ottocentesca
conservata alla perfezione, quasi che l’edificio fosse stato costruito pochi
anni fa.
Il monumento ad Ataturk separa
simbolicamente ed efficacemente la parte vecchia della stazione da quella
nuova, da cui partono ancora treni per l’Europa. Fuori, una vecchia locomotiva
di fabbricazione tedesca sta lì a testimoniare un altro pezzo di storia del
paese, nonché di quel continente che termina sulle rive del Corno d’Oro.
Racconta di quell’epoca in cui due imperi sognarono di unirsi per dominare il
mondo, finendo invece per catapultarlo in una guerra sanguinosa a cui loro
stessi per primi non sarebbero sopravvissuti.
Locomotiva a carbone di fabbricazione tedesca |
Da Istanbul avrebbe dovuto
passare quella ferrovia Berlino – Baghdad che avrebbe dovuto unire occidente ed
oriente in modo da sancire la grandezza definitiva del Kaiser e del Sultano. La ferrovia mosse tali interessi economici da
precipitare il mondo nella Prima Guerra Mondiale con la velocità di un lampo,
nel 1914. La Serbia era l’ostacolo da abbattere per tedeschi, austriaci e
turchi in quei Balcani in cui il nuovo Cavallo di ferro avrebbe dovuto
galoppare a briglia sciolta. A Sarajevo non solo l’Arciduca Francesco
Ferdinando andò incontro al suo destino, ma anche e soprattutto imperi che
erano sopravvissuti al Mondo Antico, con le loro teste coronate ed i rispettivi
sogni di grandezza.
Di tutto questo rimane una
stazione e una locomotiva costruita nelle acciaierie Krupp. E rimane anche
l’incontro da due popoli che hanno molto in comune, a dispetto di cultura e
religione. Ci sono interi quartieri di Istanbul che al giorno d’oggi
assomigliano a città svizzere o tedesche. L’efficienza dei servizi e il buono
stato di edifici e aree pubbliche, lo stesso comportamento di tantissimi
cittadini fanno pensare più al Nord Europa che al Vicino Oriente. E’ in
Germania peraltro che si è diretta storicamente l’ondata migratoria turca, e
c’è da pensare che ciò non sia dipeso solo dalle migliori prospettive
economiche rispetto ad altri paesi europei, ma anche da una certa affinità
caratteriale.
Quando Costantino volse lo
sguardo in giro per lo sterminato Impero Romano per trovare una location per la Nuova Roma in cui
trasportare la capitale dalla vecchia, ormai avvelenata dalla politica da Basso
Impero e penalizzata dalla lontananza dalle aree “calde”, conflittuali, il
Medio Oriente tanto per cambiare, era inevitabile che il suo sguardo si
fermasse sulle rive del Bosforo, dove la Magna Grecia aveva già da tanto tempo
eretto una delle sue capitali commerciali, Byzàntion.
Galata Sarayi |
La città fu ribattezzata Costantinopolis, e per i successivi
millecento anni sarebbe stata la capitale dell’Impero Romano, anche se soltanto
di quella parte orientale che si era salvata dalle invasioni barbariche.
Tagliata fuori da Roma e dal mondo latino, la sua lingua era diventata presto
il greco e i suoi sudditi si chiamavano Bizantini, non Romani. La sua più
imponente Basilica, costruita nel 532 d.C. dal più grande degli Imperatori
d’Oriente, il basileus Giustiniano,
si chiamava Hagia Sophia, che in
greco vuol dire Santa Sofia e in Turco sarebbe diventata Aya Sofya, dopo la conquista ottomana.
La splendida cattedrale che una
volta era stata il centro della Cristianità ortodossa divenne nel 1453,
allorché Costantinopolis fu ribattezzata Istanbul, uno dei centri dell’Islam e
insieme il paradigma della conquista turca di territori una volta cristiani. Il
29 maggio di quell’anno, una volta sfondate le mura bizantine dalle parti della
Torre di Galata, i Turchi Ottomani dilagarono nelle strade della capitale di un
impero che non esisteva più massacrandone completamente gli abitanti. A
quell’epoca funzionava così, i Cristiani avevano fatto la stessa cosa il 15 luglio 1099
a Gerusalemme, in ottemperanza al Dio lo vuole! di papa Urbano II non era rimasto un musulmano vivo in
tutta la cosiddetta Città Santa.
Ma se non ci fu pietà per i cristiani
superstiti, ci fu rispetto per le loro vestigia. Come qualsiasi monumento di
Costantinopolis, a Aya Sofya venne solo sostituita la Croce sulla cupola con la
Mezzaluna e gli arredi cristiani con quelli islamici, e divenne – mantenuta
splendida come era stata fino ad allora nei secoli dei secoli – la più
importante Moschea della Istanbul ripopolata di famiglie turche ed eletta
capitale del neonato Impero Ottomano, almeno fino alla edificazione della
Moschea Blu.
Sultan Ahmet Camii (Moschea Blu) vista dalle finestre di Aya Sofya |
Nello skyline di Istanbul, Aya
Sofya, la Torre di Galata, la Sultan
Ahmet Camii (o Moschea Blu) rivaleggiano ormai con quei nuovi minareti che
sono i grattacieli, inventati dalla razza umana per rivaleggiare con la Torre
di Babele e destinati ad affascinare tutti i credenti – o miscredenti – di tutte
le religioni. Eppure riescono ancora a dare il senso dello scorrere maestoso
della storia in questo epicentro della civiltà umana, che non è più la capitale
di niente da quando Kemal Ataturk spostò il centro della politica della nuova
nazione turca nella più funzionale Ankara, ma che è e resterà ormai per sempre
il Luogo. Dove si incontrano Oriente ed Occidente, Cristianesimo e Islam, Nord
e Sud, Est e Ovest, Europa ed Asia, Passato e Presente, Imperi e Orde
barbariche, Terra e Mare, Cielo e Terra.
Mylion |
La milestone di Costantinopoli, il Milyon
voluto da Costantino a imitazione di quello di Roma, simboleggia una realtà che
è propria dello spirito, prima ancora che della geografia. Tutte le strade
portano a Istanbul, da qualunque parte del mondo si provenga. Qui, lungo lo
stretto che collega il Mar Nero al Mar di Marmara, dove il Bosforo fa scorrere
impetuose le sue acque verso i Dardanelli ed il Mediterraneo, si può trovare –
e si trova, se si guarda con occhi aperti – una risposta a molte cose, se non a
tutto.
La più profonda giace sottoterra.
A Yerebatan, Giustiniano volle dotare la sua capitale imperiale di un
acquedotto che non avesse nulla da invidiare a quello di Roma, che aveva
consegnato alla posterità l’arte (mai più eguagliata) dell’idraulica. Quello
che non immaginava era di aver edificato uno dei luoghi più suggestivi
dell’intero pianeta, mantenuto poi intatto da oltre cinque secoli di
amministrazione turca.
Nella Cisterna Basilica si
avverte la sensazione di essere arrivati alla fine di qualcosa, una emozione
ineguagliata dalla vista di qualsiasi altro monumento. Lì il tempo si ferma, i
battiti del cuore anche, la propria anima viene fuori sospinta da spiriti per
comprendere i quali forse non c’è altro da fare che abbandonare se stessi a
quello sciamanesimo ancestrale che ognuno di noi ha abbandonato da troppo tempo
per convertirsi alla lettura di uno del Libri Sacri, che di natura non potevano
parlare perché niente ne sapevano.
Non è un caso che Dan Brown fa
terminare il suo apocalittico Inferno proprio qui a Yerebatan Sarayi. Qui
la testa di Medusa, il mostro
mitologico capace di pietrificare chi osava guardarla, vi attende per
suggestionarvi e liberare i vostri sentimenti più riposti. La Cisterna sembra
un luogo sepolto, con la sua luce soffusa e la sua profondità claustrofobica.
In realtà è un luogo dove tutto finisce e tutto ricomincia, rinasce. Dove si
discende soltanto per riemergere, forse con un po’ di consapevolezza in più.
Se Istanbul è uno dei centri del
mondo, la Cisterna di Yerebatan è uno dei suoi centri. Può essere un viaggio
breve o lungo a portarvi qui, ma questo posto da solo vale il prezzo di
qualunque biglietto. E prima o poi vi si torna, senza bisogno di gettare
soldi nella fontana.
Besiktas, mercato del pesce |
"Coloro che sono inclini al compromesso non potranno mai fare rivoluzioni"
(Mustafa Kemal Ataturk)
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