Con quella faccia un po’ così,
che abbiamo noi quando giochiamo con Genova. Scomodare Paolo Conte per la terza
giornata di campionato può sembrare un’eresia, eppure come sempre i grandi
artisti con due versi riescono a sintetizzare stati d’animo e situazioni che
altrimenti richiederebbero voluminosi trattati.
Genova per noi, è sempre
sofferenza. Da tanto tempo. Forse da quella maledetta domenica in cui i viola
di Giancarlo Antognoni conquistarono drammaticamente all’ultimo minuto di
campionato la permanenza in serie A proprio a spese dei rossoblu di Roberto
Pruzzo. Forse ancor più da quando – era l’anno di disgrazia 2002 – Leonardo
Domenici sindaco pro-tempore di Firenze ed Eugenio Giani assessore allo sport
(proprio lui, quello che dopo tante poltrone adesso siede su quella di
Presidente del Consiglio Regionale e si distingue principalmente per dare del
“gobbo” a tutti coloro si dimostrino critici verso l’attuale oggettivamente
problematica gestione della maggiore società calcistica fiorentina) andarono a
consegnare il titolo sportivo di Firenze al semisconosciuto Diego Della Valle,
snobbando quell’Enrico Preziosi già conosciuto imprenditore del settore
giocattoli ed aspirante patron del calcio che conta che aveva già posseduto il
Como, ma sognava di entrare nel grande giro proprio raccogliendo le spoglie
della defunta Fiorentina di Cecchi Gori.
Preziosi se la legò al dito per
l’eternità, e da allora pretende che il suo Genoa, comprando il quale si
consolò pochi anni dopo dello sgarbo fiorentino, quando vede viola veda rosso
come i tori. Tanto più dopo quel 2009 in cui Adrian Mutu rimontò a Marassi i
tre gol di Diego Milito e spense in maniera cocente le velleità di Champion’s
dell’imprenditore avellinese.
Con il Genoa è guerra, in campo
sono botte e spigoli acuminati, fuori sono parole al vetriolo. L’allenatore
rossoblu Gasperini, ogni volta che viene a Firenze, a parte i discorsi imposta
la partita su catenaccio e contropiede, botte da orbi, tutti dietro e stiamo a
vedere. L’anno scorso gli andò bene, in porta aveva quel Mattia Perin che
anch’egli quando vede viola diventa Lev Jascin o Rinat Dasaev. I viola
sprecarono lo sprecabile, Montella impostò la partita alla sua maniera,
possesso palla a girare, tiki taka. Anche Gasperini impostò la partita alla sua
maniera, pedatoni, palla lunga e pedalare. Finì 0-0, e su quel brutto pareggio
casalingo si impantanò l’avvio di campionato di una Fiorentina comunque
brillante, ma destinata alla fine ad un quarto posto che col senno di poi
qualcuno sorbì come minestra riscaldata.
Venendo al presente, i “grifoni”
(che proprio in questi giorni hanno festeggiato il loro centoventesimo
compleanno, la più antica società d’Italia, la prima a vincere lo scudetto,
erano i tempi dei marinai inglesi alla fonda nel porto di Genova) si sono
presentati a Firenze dopo una campagna acquisti moderatamente ambiziosa, con
l’intento di ripetere la fortunata partita di un anno fa e di vedere di
costruirci sopra qualcosa. I viola li hanno attesi dopo una campagna acquisti
(si fa per dire) moderatamente avvilente, con l’intento di non impantanarsi
subito di fronte ad una presunta “pari grado” come un anno fa, o peggio ancora
come in quel terribile 1977-78.
Paulo Sousa era alla sua prima
esperienza contro Gasperini. Credeva di potersela giocare a viso aperto, dando
tra l’altro la centesima fascia da capitano della sua carriera all’ex terzino
Manuel Pasqual, dando l’occasione a Giuseppe Rossi di ripresentarsi titolare al
Franchi dal primo minuto. Dando ai propri tifosi la sensazione di voler giocare
sempre e comunque in attacco, anche se le prime due uscite sono state, diciamo
così, contraddittorie. E così ecco una linea difensiva dove ai probabili
squilibri offensivi creati da Alonso e Pasqual contrappone la presenza di
Tomovic ed Astori, due che comunque fermi dietro ci restano il meno possibile.
Ecco un centrocampo dove Badelj e Vecino devono rompere il gioco altrui e
ricostruire il proprio immediatamente, con avanti un Borja Valero trequartista
avanzatissimo a ridosso delle punte. Che sono un inedito tridente Bernardeschi,
Babacar, Rossi. Roba, sulla carta, da leccarsi i baffi.
Tutto bello, tutto giusto. E
allora perché quella gran fatica a fare gioco nel primo tempo, e quel calo clamoroso
nel secondo pari pari come contro il Milan ed a Torino, con l’aggravante
oltretutto dell’espulsione di Badelj, una delle più stupide e inutili che
l’intera storia del calcio ricordi?
Nella gabbia di Gasperini i viola
lottano ed annaspano con cuore impavido e scarsa lucidità. Malgrado i propositi
bellicosi della vigilia, il Genoa non arriva quasi mai dalle parti di
Tatarusanu e mostra chiaramente di essere aggrappato solo al vecchio Pandev per
le sue velleità offensive. I ragazzi di Sousa invece davanti a Lamanna,
sostituto di Perin dai piedi da visita ortopedica, ci arrivano in diverse
circostanze, malgrado la fatica immane a superare la trequarti difensiva
genoana. Sono altrettante ciabattate, ad eccezione di un gran tiro di Babacar
appena deviato sopra la traversa da un difensore rossoblu. Nkouma scalpita dalla
voglia di riprendersi la maglia di centravanti titolare, e di dimostrare che i
suoi gol dell’anno scorso non erano casuali.
Il problema è che nel suo spazio
convergono fatalmente sia un Bernardeschi che è tutt’altro che un’ala destra,
sia un Giuseppe Rossi che affronta con coraggio i pedatoni rossoblu ma trova
poco spazio per i suoi micidiali cambi di direzione. Appiccicato a loro, Borja
Valero si perde spesso nelle sue esitazioni, dimostrando di non essere proprio
un rifinitore da limite dell’area, né tantomeno una mezza punta.
Si va al riposo interdetti. Non
gioca nemmeno malaccio la Fiorentina, ma ha poco peso, ed ancor meno idee, in
mezzo al campo. E questo vanifica un po’ tutto il resto. Vecino forse non vale
i dodici milioni offerti dal Napoli, che forse andavano accettati al volo.
Badelj non vale Pizarro, e questo si sapeva. La colpa è di chi l’ha lasciato
solo lì in mezzo a fare il Pizarro.
Nella ripresa Borja arretra un
po’, e finalmente nella nuova posizione comincia a giocare all’altezza del suo
talento. Volano più cartellini gialli che azioni da rete. Pepito Rossi comincia
a boccheggiare e Sousa fa togliere la tuta a Kalinic. Questo Genoa è da
battere, per questa Fiorentina che però si sta perdendo nelle sue attuali
contraddizioni. Se qualcosa deve succedere, è il momento che succeda. E’ il
quarto d’ora del secondo tempo quando Borja crossa per Nkouma El Babacar, che
come a Verona un anno fa si fa trovare al posto giusto. Lamanna raccoglie il
pallone in fondo alla rete, la Fiorentina si dispone ad una partita molto meno
angosciosa di quella fin lì disputata.
O per meglio dire, vi si
disporrebbe se quel buontempone di Badelj non facesse la madre di tutte le
sciocchezze, falciando – già ammonito – un avversario più o meno alla riga di
centrocampo. Doveri forse ha sorvolato fino a quel momento su qualche
spigolosità di troppo dei rossoblu, ma sul rosso da sventolare in faccia al
croato non ha e non può avere esitazioni.
Da quel momento, al consueto calo
viola che dobbiamo abituarci a considerare fisiologico in questo scorcio di
stagione si somma l’uomo in meno. Ne viene fuori uno sterile ma non meno
preoccupante assedio di Fort Apache da parte del Genoa, a cui non possono
evidentemente porre rimedio neppure i cambi di Sousa: Kalinic per Rossi, Suarez
per Babacar, l’ultimo acquisto Blaszczykoski per Borja Valero. Il polacco ha
tempo di dimostrare poco se non una certa personalità in campo, coadiuvando un
Bernardeschi peraltro oggi meno brillante di quello apprezzato in Nazionale nel
tentativo di far trascorrere i minuti con astuzia e mestiere.
E i minuti trascorrono, compresi
i cinque di recupero, senza che succeda più niente da annotare sul taccuino.
L’episodio più eclatante è l’abbandono della tribuna anzitempo da parte di un
Andrea Della Valle che riferiscono essere amareggiato dalle critiche che
cominciano a salire verso il cielo dagli spalti di un Franchi attanagliato
dalla preoccupazione di veder la Fiorentina soccombere ancora una volta.
Caro signor padrone, per fortuna
la Fiorentina non soccombe alla fine, ma i suoi tifosi sono più amareggiati di
lei. Che ha disfatto un giocattolo che alla fine dell’anno scorso funzionava
alla grande per elargirci al suo posto un altro che francamente sembra – per
ora – quello della Befana dei Poveri. Che manda in giro i suoi dirigenti a
parlare di “clienti” o di “foi tifosi di Fiorentina” senza che si capisca cosa
volete fare da grandi. Se ancora volete fare qualcosa.
Le sortite del presidente Giani,
che di sicuro continueranno imperterrite nel tempo a venire finché ci sarà una
poltrona da cui declamarle, sono una ben magra consolazione per chi voleva
riformare il calcio e vincere. Ma chi si contenta, com’è noto, gode. Di
inquietante, caro Della Valle, c’è solo il tempo che passa, uguale a se stesso.
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