Il faccione di Maria Elena
Boschi, con quell’espressione un po’ da Vispa Teresa, campeggia da ieri sulle
prime pagine di tutti i quotidiani. La signora ministro delle riforme coistituzionali
è entrata nella storia d’Italia, lasciamo fare per quale porta o finestra, ma
c’è entrata. Il Senato, quell’aula sorda e grigia al cui Presidente qualcuna
aveva ricordato tempestivamente quando e come era stato eletto a quella carica,
ha fatto il suo dovere. La riforma costituzionale
Renzi-Boschi-Verdini-Finocchiaro è passata a Palazzo Madama. La Repubblica nata
dalla Resistenza e prodotto dell’ingegno dell’Assemblea Costituente del 1946
non esiste più. Dimenticate i nomi di Terracini, Parri, De Gasperi, Togliatti,
De Nicola. Da oggi i nomi da mandare a memoria da parte di quei pochi scolari
che continuano a togliere il cellophane ai libri di scuola sono quelli elencati
più sopra.
Addio al bicameralismo perfetto
del 1948, che forse aveva fatto il suo tempo favorendo ormai soprattutto
ostruzionismi parlamentari e manovre di sottogoverno. Ma addio anche al sogno
di riformare quella che a giudizio pressoché universale è stata una delle
migliori carte costituzionali della storia mondiale attraverso un procedimento
che almeno nella forma se non nella sostanza rendesse omaggio a quella stessa
carta e a chi – in quell’anno e mezzo di lavoro ispirato e di prodigiosa solidarietà
tra le pur eterogenee forze politiche rinate durante la sanguinosa lotta al
fascismo – l’aveva redatta facendone dono alla neonata Repubblica.
La generazione dei D’Alema aveva
illuso con il sogno della Bicamerale, una Fiera delle Vanità che almeno aveva
fatto discutere dentro e fuori di essa, coinvolgendo anche quel popolo in nome
di cui diceva di operare. Poi era venuto l’oltraggio della Riforma Bassanini - D’Alema
del Titolo Quinto, con un potere esteso ad una rappresentanza popolare – quella
che si sostanzia nei Consigli regionali – tra le più modeste mai espresse da
quando esiste la democrazia assembleare. In queste maggioranze è stata allevata
la generazione dei Renzi e delle Boschi, che alla fine aveva in testa una cosa
sola, e l’ha ottenuta: perpetuare all’infinito il proprio potere.
Il testo della Renzi - Boschi –
viene da sorridere, ce ne rendiamo conto, ma da oggi sarà conosciuta così –
prevede una Camera Alta sul modello malamente imitato di quella americana: 74
consiglieri regionali, 21 sindaci, 5 senatori nominati dal capo dello Stato per
7 lunghi anni. Competenze ridotte, a cominciare dalla perdita dell’espressione
della fiducia al governo, per un totale di 100 senatori contro i 315 attuali.
Peccato che non sarà il singolo elettore a spedire alla lontana capitale il
“proprio senatore”, come succede oltre oceano. Saranno i consigli regionali a
decidere chi mandare alla nostrana Capitol Hill, e il popolo non avrà altra
occasione di metterci bocca se non nel referendum confermativo o meno che andrà
in scena – per l’ultima volta, crediamo – nell’autunno del 2016. Sarà
presumibilmente il canto del cigno della vecchia costituzione.
E’ il secondo tassello di una
architettura costituzionale che il partito democratico sta consapevolmente
allestendo da tempo. Il modello è la legge elettorale della Toscana, che ha
permesso al governatore uscente Enrico Rossi di riconfermarsi con meno del 25%
dei voti degli aventi diritto, in virtù di un premio di maggioranza
spropositato, che nemmeno Acerbo e Scelba avrebbero mai sognato di conferire.
Il modello è apparso peraltro esportabile sia in Italia che all’estero.
L’Italicum, se e quando il presidente del consiglio concederà graziosamente al
popolo di tornare a votare, farà di lui un Rossi nazionale, con le stesse
percentuali di votanti e di premialità. Nel frattempo non è un caso se della
vittoria di Pirro di Alexis Tsipras in Grecia i primi e più convinti a
congratularsi siano statti proprio Rossi e
Renzi. Il giocattolo, almeno per loro, funziona.
Queste innovazioni che segneranno
la nostra vita politica e civile (e che allestiranno a parere di chi scrive un
vero e proprio regime, senza bisogno
almeno in apparenza di nessun connotato di esplicita violenza come in occasioni
precedenti) vengono approvate da un parlamento che la Corte Costituzionale ha
da tempo dichiarato illegittimo, perché eletto in virtù di una legge – il
Porcellum – incompatibile con la Costituzione ancora in vigore per pochi mesi
in questo paese. Ma pazienza, Anna Finocchiaro può irridere una volta di più il
popolo che almeno formalmente rappresenta invitandolo a “prendersi le sue
responsabilità”, mentre va ad abbracciare la ministra Boschi esplicitando un
connubio tra i più improbabili e letali della storia d’Italia.
Poi arriva non meno importante l’imprimatur
di Giorgio Napolitano, presidente emerito e senatore a vita. Uno che sa bene
che direzione ha preso la storia del nostro paese, perché era presente
all’imbocco di questo binario e ne ha azionato lo scambio decisivo. Non è un
caso che all’annunciarsi del suo discorso escano dall’aula non solo i Cinque
Stelle ma anche la pattuglia residua di Forza Italia, guidata dal loro
disgustato e stanco ma ancora non domo condottiero, Silvio Berlusconi. Il botta
e risposta tra l’ex presidente della repubblica e l’ex presidente del consiglio
dice tutto, ed anche qualcosa di più.
“Entriamo nel campo della
psicologia – attacca Napolitano -. E io non voglio fare commenti politici,
figuriamoci quelli psicologici. Ho letto attribuite a Berlusconi parole
ignobili, che dovrebbero indurmi a querelarlo, se non volessi evitare di
affidare alla magistratura giudizi storico-politici; se non mi trattenesse dal
farlo un sentimento di pietà verso una persona vittima ormai delle proprie
patologiche ossessioni”.
Non si fa attendere la risposta
di Berlusconi. Dopo aver invitato tutti a leggere il capitolo del libro di
Friedman sul “golpe del 2011”
ed aver citato l’inchiesta di Trani sulle agenzie di rating che a suo dire
confermerebbero la regia dell’ex presidente e appunto lo stesso golpe, affonda:
“Io sono stato condannato a tre anni per molto meno. A chi si è macchiato di
golpe vogliamo dare meno di quattro anni? Si, è il minimo protestare quando
prende la parola Napolitano”.
Questa è la colonna sonora
ufficiale della riforma della nostra Costituzione. Mentre a Palazzo Madama Napolitano
conclude il suo discorso e va a congratularsi anch’egli con la Boschi, a
Montecitorio si salda intanto l’ultimo tassello della riforma istituzionale a
cura del partito democratico.
Lo ius sanguinis è uno dei
fondamenti del nostro ordinamento giuridico fin da quando l’evolversi di un
diritto romano fece della nostra penisola la “patria del diritto”. La Repubblica
e l’Impero romani conferivano la cittadinanza, con tutti gli onori ed oneri che
ne derivavano, a chi nasceva da genitori romani. Sulla base del sangue. E’ vero
che nel Basso Impero per finanziare la propria economia e la stabilità sociale era
invalso l’uso di vendere la cittadinanza ai cosiddetti barbari, e che il
Bassissimo Impero aveva trasformato quest’uso in un abuso. Ma il principio era
rimasto invariato, dai tempi di Giustiniano fino a ieri mattina, quando la
Camera dei Deputati ha dato l’ultimo colpo alla società civile così come l’abbiamo
finora conosciuta approvando il disegno di legge che introduce in Italia lo ius
soli.
Il diritto anglosassone
conferisce la cittadinanza sulla base del “dove” e non sul “da chi”. Conta nascere
sul territorio, non importa da quali genitori. E’ una nozione al di fuori della
nostra cultura, e per di più pericolosissima in una realtà come la nostra che
subisce l’aggressione quotidiana fisica e massiccia da parte di torme di
migranti travestiti da profughi, di fronte alla quale le istituzioni stanno
mostrando la loro impotenza o peggio la loro connivenza. Matteo Renzi canta
vittoria su Twitter: “Si può essere o meno d'accordo su ciò che stiamo facendo,
ma lo stiamo facendo: la lunga stagione della politica inconcludente è
terminata. Le riforme si fanno, l'Italia cambia. Avanti tutta, più decisi che
mai”.
Chi tra i suoi cittadini ha
minori interessi personali ma sicuramente più cultura o forse anche soltanto
educazione civica preferisce mettersi le mani nei capelli, e non su un social
network ma nella realtà. Conoscendo il pollaio italiano, per avere la
cittadinanza di questo paese (e quindi anche della Comunità Europea) basterà
che le madri vengano a partorire i loro figli sul nostro suolo. Cosa ne
conseguirà poi è facile immaginare. Ricongiungimenti familiari allargati
obbligatori. Voti al partito democratico altrettanto obbligatori.
Le temperie introdotte allo ius
soli dalla legge approvata, il possesso cioè da parte di uno dei genitori del
permesso di soggiorno UE di lungo periodo ed il cosiddetto ius culturae (l’aver
frequentato un ciclo scolastico di almeno cinque anni nel nostro sistema di
pubblica istruzione) si riveleranno inefficaci per quanto appaiono al presente
ridicoli. E’ una legge ad hoc, per regolarizzare ed avviare alle urne
elettorali la gran massa di persone che da Lampedusa transiteranno sul nostro
territorio per restarvi. Ironia della sorte, o della legge, nessun cittadino
europeo potrà diventare cittadino italiano. I nostri partners non hanno bisogno
del permesso di soggiorno in Italia, quindi per loro restano paradossalmente i
canali tradizionali.
Abbiamo aperto con la ministra
Maria Elena Boschi. Chiudiamo con un'altra signora il cui nome resterà sicuramente
negli annali di storia italiana. E che commenta euforica l’esito della
votazione avvenuta nella Camera che presiede. “Montecitorio fa cadere la
barriera che per troppo tempo ha tenuto separati tanti giovani e giovanissimi nuovi
italiani dai loro compagni di scuola e di gioco”. Firmato Laura Boldrini.
I bambini ci guardano, insomma.
Chissà se capiscono, o capiranno mai anche da grandi, che cosa abbiamo fatto.