Compie oggi 75 anni, e tra tutti
i traguardi che ha tagliato nella sua lunga e gloriosa vita questo sembrava
diventato il più difficile, date le sue condizioni di salute. Invece eccolo
qua, sorridente come in quei giorni in cui entrò nell’Almanacco del calcio e
nel cuore degli appassionati di tutto il mondo alzando per tre volte la Coppa
Rimet con indosso la maglia verdeoro carioca.
Il suo nome é Edson Arantes do
Nascimento. La sua leggenda si chiama Pelé. Cominciò al Mondiale di
Svezia del 1958. Tutti aspettavano la vittoria dello squadrone scandinavo di
Liedholm, Nordhal, Gren, i fortissimi padroni di casa. Invece arrivò lui, il
gioiello più prezioso di un Brasile che
di gioielli era pieno. Gilmar, D. Santos, N. Santos, Zito, Bellini, Orlando,
Garrincha, Didì, Vavà, Pelé, Zagalo, era una formazione che i ragazzi
dell’epoca avrebbero imparato a memoria, come si conviene a quelle destinate ad
incantare la fantasia ed a passare alla storia.
Ogni epoca ha avuto il suo
“giocatore più forte di tutti i tempi”, ed è giusto che sia così, fino alla
fine del tempo e del calcio. Ma la perla nera, come l’avrebbero
soprannominato i suoi tifosi estasiati, aveva qualcosa in più. La sua eleganza,
le sue movenze quasi da ballerino classico anche nei gesti atletici più semplici
ne avrebbero fatto uno spettacolo vivente.
Per tutti, sarebbe rimasto
semplicemente O Rey, il Re del Calcio, anche dopo la fine della sua lunga
carriera. Tre titoli mondiali, 1958, 1962 (da infortunato), 1970, 18 anni (dal
1956 al 1974) e 1091 gol segnati con la maglia del Santos, la sua prima ed
unica squadra da professionista che dopo il suo addio vide bene di ritirare per
sempre la sua maglia, la numero 10. Altri 190 gol segnati tra nazionale carioca
e Cosmos di New York dove spese gli ultimi tre anni di attività agonistica
prima di appendere le scarpe al chiodo.
Numeri che quasi sminuiscono, a
snocciolarli, la leggenda della Perla Nera. Di sicuro non lo sminuisce il
confronto con un'altra leggenda, quella dell’argentino Diego Armando Maradona,
l’unico che nell’intera storia del calcio abbia potuto credibilmente insidiare
la corona di O Rey. Gli argentini del resto non hanno dubbi, e con loro molti
aficionados in tutto il mondo appartenenti alle generazioni più giovani: il Dio
del Calcio è Dieguito.
I due personalmente erano e sono
agli antipodi. Classe sopraffina in ogni suo gesto il brasiliano, genio e
sregolatezza l’argentino. Del primo si ricorda come episodio emblematico il gol
numero mille, per cui a San Paolo suonarono a distesa le campane. Del secondo
si ricorda la mano de Dios, il gol
segnato all’Inghilterra proditoriamente con una mano, ma subito perdonato
perché raddoppiato da uno dei gol più belli di tutti i tempi, al termine di uno
slalom fra l’intera squadra inglese.
Sono confronti che hanno poco
senso. Nel pantheon del Calcio c’è posto per numerosi Dei. E proprio oggi che
si festeggia la Perla Nera è giusto che il pensiero vada semmai a colui che
negli stessi anni venne soprannominato il Pelé
Bianco. Hendrik Johannes Cruijff, detto Johan, è stato la
risposta della razza caucasica a tanto ben di dio calcistico. Leader della più
grande Olanda di tutti i tempi e poi di un Barcellona che cominciò negli anni
settanta a fare incetta di stelle del calcio mondiale, fu soprannominato il Profeta del Gol perché il suo impatto
sul calcio dei suoi tempi fu se possibile ancora più devastante di quello di
Pelé e Maradona.
Cruyff, come si
scrive nel resto del mondo che mai verrà a patti con la lingua olandese, ha
insegnato al mondo stesso un modo nuovo di giocare. Dopo il calcio totale
predicato dai Lancieri dell’Ajax e
dagli Orange ai Mondiali del 1974
(che non vinsero per un soffio), il gioco non è più stato lo stesso. Non poteva
esserlo.
Adesso, il Profeta
dal cuore per sempre diviso tra i paesi Bassi e la Catalogna, deve lottare con
un avversario ben più insidioso di quella Germania che all’Olympiastadion di
Monaco di Baviera gli sfilò dalle mani quel titolo mondiale che sembrava suo di
diritto. Johann ha un tumore ai polmoni la cui gravità per il momento non è
accertata o dichiarata, ma che sembra altrettanto compromettente di quella dei
malanni che stavano per impedire a O Rey di spegnere le settantacinque
candeline odierne.
Fare gli auguri a
questi giganti del passato, a questi uomini che adesso combattono nuove
battaglie contro il tempo inclemente, è fare gli auguri a noi stessi, diventati
grandi con negli occhi le immagini del gioco più bello del mondo. Un gioco che
loro hanno reso leggendario.
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