“Non faremo le primarie. Il nome
per il dopo Marino lo scelgo io.” Con quella faccia un po’ così, a metà tra la
Rificolona che anima una delle feste più celebri della città il cui hinterland
gli ha dato i natali e Gasperino il carbonaio, uno tra i personaggi più
riusciti tra le centinaia interpretati dal compianto Alberto Sordi (qualcuno
aggiunge anche Mister Bean, il celeberrimo character interpretato da Rowan
Atkinson), Matteo Renzi pone fine alla breve stagione di Ignazio Marino quale
Sindaco di Roma, nonché all’altrettanto breve stagione del sogno veltroniano
del partito democratico di assomigliare un giorno – nei comportamenti se non
nei programmi – all’omologo americano, the Donkey Party dei Kennedy e dei
Clinton.
Marino si è dimesso, non era più
vita la sua al Campidoglio. All’opinione pubblica si era aggiunta tra i suoi
acerrimi nemici anche la maggioranza del suo partito, quello per cui aveva
corso le primarie prima e le amministrative capitoline poi. Chi è causa del suo
mal pianga se stesso, dicono molti, soprattutto romani che l’hanno sperimentato
come amministratore privo di un po’ di tutto ciò che serve, dal carisma alle
idee alla cultura della burocrazia e della legalità. Altri invece sottolineano
(a voce sommessa, non è il momento di farsi nemici potenti) che i guai per il
medico-sindaco sono cominciati il giorno in cui si mise pubblicamente in urto
con il neo-presidente del consiglio a proposito dei fondi speciali richiesti
per il risanamento di Roma Capitale.
Può darsi. Con quella faccia un
po’ così, Matteo Renzi non è quel bravo ragazzo un po’ cresciuto che sembra a
prima vista. Non è generoso, e non perdona ai suoi nemici. C’è voluto un po’ di
tempo, ma il conto è stato presentato, con l’aiuto delle sciocchezze fatte dal
diretto interessato. Adesso un capo del governo che nessun cittadino italiano
avente diritto al suffragio ha potuto mai votare ha finalmente spazzato via un
sindaco (oppositore interno al suo partito) che invece era stato eletto a
maggioranza in elezioni regolari, quelle di Roma 2013.
Matteo Renzi conosce la storia,
ed ha – a modo suo – gran fiuto politico, oltre a potenti appoggi nazionali ed
internazionali. Sa di avere forse in questo momento una base di consenso, sia
tra i cittadini che tra i poteri forti, che forse non aveva nemmeno Benito
Mussolini in quei primi anni del secondo decennio del ventesimo secolo in cui
trasformò lo stato liberale in un regime autoritario. Di sicuro il futuro Duce
qualche cautela almeno dialettica la osservava nelle sue pubbliche
esternazioni. Il ragazzo di Rignano può permettersi sicuramente maggiore
disinvoltura.
E’ cambiata l’Italia, sono
cambiati i tempi. Non è cambiata purtroppo l’idiosincrasia italiana di chi
amministra o subisce la cosa pubblica verso una cultura amministrativa, diremmo
in generale verso una educazione civica che ci possano far sperare di diventare
un giorno una vera democrazia europea. Un
paese normale, almeno secondo gli standard occidentali, come scriveva
qualche anno fa un altro segretario del PD, e pazienza se poi è stato quello
che ha le maggiori responsabilità circa i pessimi connotati assunti negli
ultimi tempi dal suo partito.
Massimo D’Alema apparteneva ed
appartiene a quella generazione che fece il Salto della Quaglia da un Partito
Comunista che non era compatibile nemmeno con un mondo occidentale in cui
stavano venendo giù i Muri ad una Quercia dai vari nomi che avrebbe cercato di
coniugare il Trasformismo italico di vecchia data con i sogni più o meno
avveniristici di chi sognava democrazie all’americana.
Pietro Ingrao, recentemente
scomparso, aveva deciso già di non cambiare idea restando fedele alla Falce e
Martello, ma si alzò tuttavia per andare a stringere la mano ad un affranto ed
esausto Achille Occhetto, probabilmente per rincuorarlo in vista di quello che
doveva apparirgli un compito immane (come poi si rivelò), ostaggio dei D’Alema,
dei Mussi, dei Fassino, dei Veltroni. La negazione di una vera classe dirigente
politica, come già aveva potuto intuire in tenerà età chi li aveva avuti come
compagni di studi ai tempi eroici della F.G.C.I. e del Movimento Studentesco.
Con i comunisti potevi scontrarti
e combattere per una vita, certo che ti avrebbero almeno affrontato a viso
aperto e con ideali alternativi anche se non compatibili. Gente di principi,
insomma, con la quale potevi almeno scrivere assieme una delle migliori Carte
Costituzionali che la storia moderna ricordi. Con i post-comunisti potevi solo
farci affari, o soccombere. Eredi inconsapevoli (perché ai tempi del Movimento
Studentesco avevano fatto tutto fuori che studiare) di due partiti
fondamentalmente anti-Stato ed anti-nazione, il Comunista spalleggiato
dall’U.R.S.S. ed il Democristiano spalleggiato dalla Chiesa cattolica (due
nemici mortali da sempre del nostro paese), avevano ereditato anche un panorama
politico assai “semplificato”, per non dire decimato, da Tangentopoli.
Avevano ereditato anche la
mancanza di scrupoli e di ideali tipica di una generazione, quella
post-sessantottina, nata e cresciuta nella mancanza assoluta di bisogni e di
difficoltà. Quella che aveva portato un profetico Pier Paolo Pasolini, ai tempi
dei fatti di Valle Giulia, a schierarsi di fatto dalla parte dei veri
“proletari”, i poliziotti della Celere reclutati tra i poveracci del sud e
delle campagne, contro i “figli di papà” che giocavano a fare i rivoluzionari.
Quando crollò il Muro di Berlino
e l’establishment comunista e democristiano apparvero ormai come superati dai
tempi per limiti di età, questo nuovo establishment si ritrovò a gestire il
patrimonio ideale e materiale del centro-sinistra senza avere più da rispondere
a niente ed a nessuno. E la discesa in campo di Berlusconi semplificò loro
ulteriormente il compito. Non c’era più bisogno di elaborare un progetto o un
programma politico. Bastava essere contro
il Cavaliere.
Era difficile immaginare una
generazione successiva ancor più priva di scrupoli, di ideali, di memoria
storica ed in ultima analisi di freni giuridici inibitori. E’ quella dei Renzi,
dei Nardella, delle Serracchiani, delle Boschi, delle Boldrini (tecnicamente
non in quota al PD, ma pronta – c’è da giurarci – a fare il salto della Quaglia
anch’essa, ora che il suo mentore Vendola si avvia verso un dorato
pensionamento).
Una generazione che sta riuscendo
a scardinare un assetto costituzionale (ed il modello di convivenza sociale che
vi è sotteso) senza bisogno di squadracce. Bastano altri tipi di appoggio,
nelle opportune sedi istituzionali e non. Basta fare leva formalmente sul
malcontento popolare che si traduce in astensionismo. Se hai una legge
elettorale come quella della Toscana che da un premio di maggioranza
spropositato a chi ottiene una semplice maggioranza dei voti (altro che Legge
Acerbo o Legge Truffa), non ti devi preoccupare di nulla. Ed infatti a Firenze
come a Roma (dove verrà adeguata la legge elettorale per tutto il Paese) non si
preoccupano di nulla.
Al punto che un governatore di
Regione a tempo perso come Debora Serracchiani può permettersi di dichiarare in
pieno senato al suo Presidente Grasso: “Si ricordi che lei è stato eletto alla
sua carica con i voti determinanti del PD”. Ed il Presidente Grasso, di fronte
ad un simile oltraggio (all’istituzione, prima ancora che alla sua persona)
invece di dimettersi immediatamente china la testa ed obbedisce. Chissà quanti Padri
della nostra Patria si stanno rivoltando nella tomba.
Di sicuro non si sta rivoltando
Matteo Renzi. Da oggi, decide tutto lui. Un altro record di Mussolini mandato
in soffitta anzitempo per il più giovane ed il più spregiudicato demiurgo della
Storia d’Italia.
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