La scomparsa di Pietro Ingrao è l’occasione
di fare una riflessione rimandata da tempo. Se ne va l’ultimo componente di
quella che fu la nomenklatura del Partito Comunista Italiano. Forse l’unico che
veramente non gli era sopravvissuto, pur avendo festeggiato in vita oltre 100
primavere.
Pietro Ingrao era diventato
testimonial di coloro che non cambiano idea. O perlomeno la cambiano una volta
sola. Prima della guerra era stato iscritto alla GUF, come la maggior parte dei
giovani italiani. Alcuni nel dopoguerra erano stati etichettati da Oriana
Fallaci come “fascisti neri” che erano diventati “fascisti rossi”. Per lui come
per altri la conversione era avvenuta attraverso la guerra partigiana. Da
allora per Pietro Ingrao erano esistite soltanto la falce e il martello. Nell’Italia
collocata nel campo occidentale lui non aveva avuto dubbi, schierandosi fino
alla fine dalla parte dell’ideale comunista fino alle estreme conseguenze,
quando a quell’ideale non aveva più corrisposto un partito.
L’uomo per la sua vita vissuta
merita indubbiamente rispetto. Le sue idee meritano un’analisi spassionata ed
approfondita, visto che per circa centocinquant’anni hanno determinato la
storia d’Europa prima e del mondo poi come nessun altra corrente di pensiero e
azione.
Lo spettro cominciò ad aggirarsi
per l’Europa nel 1848, l’anno in cui Karl Marx e Friedrich Engels con il loro Manifesto
diedero vita ufficialmente al Partito Comunista. La Prima Internazionale rivoluzionaria
arrivò nel 1864 e dopo una lotta iniziale per la supremazia contro gli
anarchici, i comunisti ebbero la meglio accaparrandosi il monopolio della lotta
per il sovvertimento dell’ordine vigente, quello uscito dalla Rivoluzione
Francese del 1789 e che faceva perno sulla classe sociale cosiddetta della
Borghesia.
La storia del Comunismo è la
storia delle migliori intenzioni che nella vita reale diventano il pavimento
dell’Inferno. Nel XIX secolo, il secolo delle rivoluzioni, l’ideale o utopia
socialista dette per la prima volta nella storia dell’umanità speranza di
emancipazione alla sterminata classe sociale che finalmente non venne più
definita come plebe, ma diventò popolo: la marea umana di coloro che non
avevano altra ricchezza che la propria prole, i “proletari”. Il Quarto Stato
che le rivoluzioni borghesi avevano ignorato, a cui Marx ed Engels avevano dato
speranza e strumenti di lotta, a cui Pellizza de Volpedo aveva fatto l’impareggiabile
e suggestivo ritratto che lo consegna alla storia della pittura.
Nel XX secolo, per l’appunto,
quando il tempo sembrò maturo per l’ingresso delle grandi masse sulla scena
della politica attiva, ci fu una sola vera rivoluzione, quella bolscevica del
1917. Sembrò il trionfo del Comunismo. Fu la sua dannazione.
La storia della Russia è fatta di
grandi tragedie, sofferenze inaudite subite da quel popolo. Il fatto che il
Comunismo prendesse il potere per la prima volta in quel paese fu da una parte
una conseguenza obbligata delle condizioni storiche: la tesi di Marx secondo
cui il socialismo si sarebbe affermato nei paesi industrialmente più avanzati fu
smentita dai fatti. In quei paesi il sistema si dimostrò più forte, reagendo –
se del caso, come in Italia e Germania – con dittature feroci. Il Comunismo
vinse dove lo stato, la società erano più deboli, l’economia più arretrata. Il
guaio era che dai tempi di Ivan il terribile i russi erano abituati a
spargimenti di sangue immani ad ogni svolta della loro storia. Quello purtroppo
fu il modello che si affermò con Lenin e che il suo successore Stalin esportò
fuori dai confini, nel resto del mondo caduto sotto il controllo dell’Armata
Rossa.
Il Comunismo era stato per la
Russia la fine del plurisecolare atroce dominio zarista, il Medioevo barbarico
portato fino ai giorni nostri. Per sopravvivere prima e per affermarsi poi a
livello internazionale dovette però incarnarsi in un regime assassino, non meno
spietato di quelli che si era fatto avanti a rovesciare. Dopo il 1945 poteva
venire il suo momento. Arrivò invece il momento della resa dei conti, il mondo
reagì con la paura di “Baffone”, dei suoi cosacchi, delle sue purghe e delle
sue “democrazie popolari”. Et pour cause.
La vita della mia generazione è
stata quella dei dissociati, divisi tra la repulsione per una ideologia che al
di là delle intenzioni produceva dolore e morte quanto e più del nazifascismo (non
foss’altro per il lasso di tempo avuto a disposizione) ed il fascino esercitato
da tante brave persone tra familiari e conoscenti che – ripeto, degnissime e
capacissime persone - apparivano
assolutamente convinte di quell’ideologia e di chi si dava da fare per farla
trionfare. Da un lato i racconti degli istriani sopravvissuti alle foibe di
Tito e dei rarissimi profughi dall’Est, dall’altro la buona fede di tanti
comunisti che in effetti con il loro stile di vita qualche messaggio in termini
di possibilità di convivenza migliore lo lanciavano.
Pietro Ingrao non ha cambiato
idea fino al suo ultimo giorno di vita. Per lui la politica attiva era finita
insieme al Partito Comunista Italiano. Lui era un uomo di un’altra generazione,
di un’altra epoca. Ma sono stati tanti quelli che attraverso le generazioni anche
successive hanno continuato a credere in ideali che probabilmente vanno al di
là delle incarnazioni che la storia ha concesso loro. Un po’ come confondere il
Cristianesimo con la sua attuazione pratica bimillenaria, il Cattolicesimo. Due
cose completamente diverse. Inevitabile però, per quanto sbagliata, la fatale
commistione.
Questa gente merita rispetto come
il vecchio partigiano a cui è stata data sepoltura pochi giorni fa. Anche se
non si può dimenticare il dolore che indirettamente le loro idee hanno
provocato. Ma mai quanto quello che provocherà la totale mancanza di idee, di
scrupoli degli eredi, quelli che nel 1991 si scoprirono “post” insieme ad
Achille Occhetto, con il loro spregiudicato laburismo all’italiana.
Si può avere rispetto per Pietro
Ingrao e per la sua generazione, almeno per la parte che non fu assassina. Del resto,
cambiare idea non è di per sé un pregio n senso assoluto, è semmai un dono che
ti viene o non ti viene dato. Una cosa è certa, nessuno avrà rispetto per la
generazione dei D’Alema, dei Mussi, dei Bersani, delle Finocchiaro, e infine
dei Renzi. Prima ancora della famiglia dello Zar, viene da pensare che
sarebbero stati proprio loro i primi bersagli delle epurazioni di Lenin e di
Stalin. Ed in quel caso con qualche fondata simpatia da parte del pubblico di
ogni ordine di posti.
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