Le preghiere di de
Coubertin erano state ascoltate. Londra aveva salvato le Olimpiadi nel
1908. Quattro anni dopo, Stoccolma le avviò a diventare definitivamente la più
grande manifestazione sportiva mondiale di sempre, senza possibilità di
confronti.
Al principio del ventesimo secolo, la
Svezia era già una nazione tra le più benestanti ed avanzate d’Europa. Una
nazione che aveva tra l’altro imboccato la strada del pacifismo e della
neutralità da circa un secolo, scelta che avrebbe mantenuto anche nelle due
guerre mondiali che sarebbero scoppiate di lì a poco. Lo spirito di Olimpia
si confaceva dunque alla più ricca delle nazioni del Grande Nord scandinavo
perlomeno quanto alla Grecia, paese dove era sorto.
Gli svedesi si erano recati a Londra
anche per studiare la macchina organizzativa britannica. Nei quattro anni a
loro disposizione non tralasciarono alcun dettaglio. I Giochi che si aprirono
il 5 maggio 1912 a
Stoccolma alla presenza di Re Gustavo V e della intera famiglia reale erano
destinati a passare alla storia come un successo senza ombre.
Anzitutto, non furono ancorati ad alcuna
esposizione o comunque manifestazione di taglio politico-economico. La durata
di oltre due mesi e mezzo (si conclusero il 22 luglio) fu dovuta a motivazioni
squisitamente organizzative, e non a fattori extra-sportivi come in passato.
Inoltre, beneficiarono del clima particolarmente propizio che si respirava al
tempo nella nazione scandinava.
Se da un lato furono tolti dal programma
sport come il Pugilato e la Lotta che erano proibiti dalle leggi svedesi,
dall’altro fu favorita la partecipazione femminile senza più limiti di sorta
(ancora a Londra alle donne erano state riservate soltanto discipline come il
tennis ed il tiro con l’arco), nonché la partecipazione degli atleti in
generale, in qualità e quantità.
Il numero degli scritti salì ad oltre
2.400, ripartiti tra 26 discipline. Tra essi, emerse significativamente una
figura destinata a diventare leggendaria pur non appartenendo alla razza bianca
allora predominante. In luogo degli sport soppressi o accantonati, il C.I.O.
aveva acconsentito all’introduzione di nuove specialità, quali il decathlon
ed il pentathlon moderni.
Wa-Tho-Huk (Sentiero Lucente) Jacobus Franciscus Thorpe, detto Jim |
In entrambe, risultò vincitore un atleta
americano, o per meglio dire nativo americano, il pellerossa Jim
Thorpe. Re Gustavo di Svezia, nel premiarlo, lo definì senza mezzi
termini il miglior atleta del mondo.
Thorpe è una delle figure leggendarie
della moderna Olimpia. Nel volgere dei pochi anni intercorsi dall’Olimpiade di
Saint Louis a quella di Stoccolma, trasformò con i propri successi la kermesse
olimpica dal fenomeno da baraccone che aveva ospitato le Giornate
Antropologiche in una competizione seria e realmente sportiva, in cui
per giunta la razza bianca non era più sicura di eccellere.
L’atleta indiano fu poi oggetto di una
brutta vicenda, ascrivibile all’ipocrisia olimpica dell’epoca e non a sue
scorrettezze. Pochi mesi dopo Stoccolma, le medaglie d’oro gli furono ritirate
perché fu scoperto che prima dei Giochi aveva partecipato al campionato di baseball
nazionale statunitense come membro (remunerato) della squadra del North
Carolina. I 100 dollari al mese percepiti avevano fatto di lui un
professionista, peccato considerato allora peggio che mortale dal
decoubertiniano Comitato Olimpico Internazionale.
La squalifica precipitò Thorpe in uno
stato di depressione che accomunò il suo destino a quello di molti esponenti
della sua razza. Cominciò a bere, precipitando nell’alcoolismo e finendo per
spegnersi nel 1953 a
soli 56 anni per un infarto che lo colse nella roulotte dove viveva, nei
sobborghi di los Angeles. La sua memoria fu riabilitata – e le medaglie
restituite agli eredi - soltanto 30 anni più tardi, alla vigilia delle seconde
olimpiadi proprio di Los Angeles, quando ormai il professionismo olimpico era
stato ammesso da tempo.
Duke Paoa Kahinu Mokoe Hulikohola Kahanamoku, detto The Big Kahuna (Uomo Molto Importante), bicampione olimpico e inventore del surf moderno |
Altri nomi celebri di quelle Olimpiadi
furono un giovane capitano dell’esercito statunitense, un certo George
S. Patton che purtroppo in seguito avrebbe avuto occasioni ben più
tragiche per distinguersi. Patton arrivò quinto dietro Thorpe ed un manipolo di
fortissimi atleti di casa. Dopo la squalifica dell’indiano, risultò il primo
dei non svedesi. Per noi italiani, quelle furono le olimpiadi della
prima medaglia d’oro di Nedo Nadi, il leggendario fiorettista
che dette il via alla celeberrima scuola italiana. Nel nuoto, invece,
l’hawaiano Duke Kahanamoku vinse i 100 s.l. brevettando lo
stile crawl in quello che fu l’atto di nascita del nuoto
moderno.
Altra innovazione importante fu
l’introduzione del primo rudimentale fotofinish usato per
misurare l’ordine d’arrivo nelle gare di atletica o di nuoto. Sempre in tema di
novità, tra le nazioni che partecipavano per la prima volta ci fu la Russia, e
data l’importanza politica di quel paese parve subito una acquisizione
importante per il movimento olimpico. In realtà, atleti di quel paese sarebbero
ritornati a gareggiare alle Olimpiadi soltanto 40 anni dopo, nel 1952.
Alla cerimonia di chiusura, un raggiante
de Coubertin dette appuntamento al mondo a Berlino nel 1916, secondo le determinazioni
del C.I.O.. In realtà, il mondo aveva davanti a sé ben altro appuntamento. Il
25 giugno 1914 a
Sarajevo il tiro a segno di cui fu fatto oggetto l’arciduca Francesco
Ferdinando d’Asburgo, erede al trono imperiale di Austria-Ungheria,
precipitò l’Europa prima ed il pianeta poi in una competizione che sarebbe
passata alla storia come Prima Guerra Mondiale.
Il mondo che si ritrovò ad Anversa otto
anni dopo era profondamente cambiato. Le macerie del conflitto mondiale erano
ancora presenti, soprattutto in quel Belgio che aveva subito il primo,
durissimo attacco dell’esercito prussiano teso ad aggirare le difese
anglo-francesi che erano state disposte ad evitare una nuova rotta come quella
dei tempi di Napoleone III.
De Coubertin poté constatare che la gioventù
francese questa volta si era comportata con maggiore saldezza morale e di
carattere, ma che del mondo che aveva sognato lui in quel lontano 1894 in cui aveva ridato
vita alle Olimpiadi rimanevano poche tracce. Lungi dal funzionare come sacro
deterrente come nella Grecia Antica, la tregua olimpica era
fallita miseramente. Le nazioni si erano scannate con le armi e il campo di
battaglia era stato l’unico terreno di gioco.
Restavano solo, a far ben sperare per il
futuro, i traumi di una inutile strage, come la definì il Papa Benedetto
XV, che perlomeno nessuno sembrava aver voglia di rivivere in un
futuro ragionevolmente prossimo. La Società delle Nazioni
voluta dal presidente americano Woodrow Wilson sembrava sul
momento un comitato assai più potente di quello olimpico nell’assicurare
serenità al futuro della razza umana.
Per onorare comunque lo spirito di
Olimpia, fu stabilito che quella di Anversa sarebbe stata la settima Olimpiade,
mentre la sesta, quella di Berlino, sarebbe rimasta come non disputata. Olimpiade
era definito anche il lasso di tempo di quattro anni che intercorreva tra una
edizione dei Giochi e la successiva. Quel tempo era trascorso regolarmente, e
se alla fine anche inutilmente, ciò restava a perpetuo disdoro delle nazioni
che avevano provocato la guerra. E che l’avevano persa, tra l’altro, finendo
per sedersi al tavolo della pace a Versailles come sconfitti.
Come conseguenza di quella pace, fu
deciso che le potenze sconfitte (Germania, Austria, Ungheria, Bulgaria e
Turchia) non sarebbero state ammesse ai giochi del 1920. La Russia, nel
frattempo precipitata nella Rivoluzione Bolscevica e diventata
Unione Sovietica, si autoescluse in segno di rifiuto verso
istituzioni borghesi in cui non si riconosceva più e con le quali si era
trovata in guerra fino a poco tempo prima per effetto del cordone sanitario
e della reazione anticomunista.
Il Belgio semidistrutto fece salti
mortali perché il giorno della cerimonia di apertura, il 20 aprile 1920, tutto
fosse pronto ed all’altezza delle Olimpiadi che tornavano a fermare il mondo e
a portarlo pacificamente in gara.
Ad Anversa, come esigenza evidentemente
sentita a causa delle recenti tragiche esperienze, fece la sua comparsa il Giuramento
Olimpico. Altra novità, il lancio delle colombe durante la
cerimonia d’apertura, particolarmente suggestivo per una opinione pubblica
mondiale che inclinava decisamente al pacifismo in quel momento. Anche la bandiera
dei cinque cerchi fu issata per la prima volta sopra il braciere
olimpico ad Anversa.
I Giochi compresero, per la prima ed
unica volta, una sezione di sport invernali che poi sarebbero
stati disputati a parte, a decorrere dall’edizione successiva. Le gare di tiro
ebbero una preponderanza tale da far dire: si è sparato più ad Anversa che
durante la Guerra.
Il livornese Nedo Nadi, leggenda della scherma azzurra |
Gli atleti italiani sfoggiarono per la
prima volta la maglia azzurra. Tra di essi, il portabandiera Nedo
Nadi entrò nella leggenda confermandosi medaglia d’oro nel fioretto e
aggiungendoci anche quelli della spada e della sciabola, sia individuali che a
squadre.
Altri personaggi carismatici di quelle
Olimpiadi furono l’hawaiano Duke Kahanamoku, che confermò la
sua vittoria di Stoccolma nei 100 s.l. migliorando di tre secondi il proprio
record. E il finlandese Paavo Nurmi, vincitore del 10.000 metri piani e
dei 10.000 di corsa campestre, ritenuto uno dei più grandi fondisti di sempre.
Il campo di regata nella vela fu posto in
acque olandesi. Per questo motivo i Giochi di Anversa sono considerati i primi
della storia organizzati da due nazioni in collaborazione. La cerimonia di
chiusura presieduta da Re Alberto I del Belgio il 12 settembre 1920 pose
termine ad una edizione delle Olimpiadi che aveva avuto successo, nonostante
l’eco dei cannoni si fosse spenta da poco e da ancor meno fossero state rimosse
le macerie insanguinate della Grande Guerra.
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