Per abbracciare definitivamente la modernità, le Olimpiadi dovettero
fermarsi nei luoghi dell’Antichità. La fiamma olimpica partì dal cuore della
Grecia e arrivò nella Magna Grecia, a Siracusa, a bordo della motonave italiana Amerigo
Vespucci. Da lì, la solita staffetta di tedofori la portò
nella Città che l’attendeva da duemila anni, dove il braciere sacro a Zeus fu
acceso il 25 agosto 1960.
Roma, Stadio Olimpico, 25 agosto 1960 |
Roma era stata la capitale del mondo al tempo in cui gli
Dei erano scesi sulla terra per portare il fuoco sacro ad Olimpia. Tornò ad
esserlo per quindici giorni in un momento in cui il mondo stesso per la prima
volta tirava un sospiro di sollievo, credendo che la pace fosse arrivata una
volta per tutte e che la storia da quel punto in poi sarebbe stata lo scorrere
di una lunghissima tregua olimpica. Dopo Roma, le Olimpiadi non
sarebbero state più le stesse, trasformate definitivamente nel fenomeno
sportivo-mediatico che nel bene e nel male incanta il mondo ancora oggi.
La capitale di un’Italia che aveva appena concluso la ricostruzione
delle macerie della guerra sia in senso materiale che morale, che aveva
ristabilito una propria immagine internazionale positiva e dato avvio a quel
fenomeno che sarebbe passato alla storia come boom economico,
aspettava le Olimpiadi da sempre. Graecia capta ferum victorem cepit,
aveva cantato il poeta latino Orazio, significando che la più
raffinata civiltà ellenica aveva sì ceduto alle più potenti armi romane ma aveva
conquistato la società stessa dei vincitori, rendendola simile a sé. All’epoca
dell’Impero, i Giochi non si muovevano da Olimpia,
era un qualcosa che neanche l’Imperatore poteva ordinare. Roma si prendeva
tutto, ma le Olimpiadi no.
Ere geologiche più tardi, il tempo di Roma sembrava giunto nel 1908.
Il Regno d’Italia aveva vinto la lotteria delle designazioni da parte del C.I.O.,
ma il Vesuvio aveva eruttato e l’emergenza aveva sconsigliato
lo Stato italiano a dar corso alla manifestazione, che aveva ripiegato su
Londra. Da allora, tanta acqua era passata sotto i ponti sul Tevere.
Finché la mano del designatore del C.I.O. si era nuovamente posata su quel
punto della cartina geografica dove secondo Virgilio Enea
aveva sbarcato i suoi compagni superstiti di Troia.
Nel 1960, il mondo aveva bisogno di celebrare la propria festa in una
cornice adeguata quanto poteva esserlo la città d’arte più grande e più antica
del mondo, la Hollywood sul Tevere dove la vera Hollywood appena
poteva si trasferiva. La Guerra Fredda sembrava finita, con
l’Unione Sovietica in mano al destalinizzatore Nikita
Kruscev, il Vaticano nelle mani del Papa Buono Giovanni
XXIII e gli Stati Uniti dove stava facendo campagna elettorale
presidenziale un ragazzo di origine irlandese che parlava di nuova generazione, Nuova
Frontiera, nuove opportunità per tutti, John Fitzgerald Kennedy.
L'arrivo di Livio Berruti nei 200 metri |
Nel 1960, le Olimpiadi avevano bisogno di fare un salto di qualità,
diventando veramente la manifestazione sportiva più importante di un mondo che
cominciava a preferire il confronto sulle sue piste, le sue vasche, i suoi
campi da gioco in luogo di quelli di battaglia. Sovietici e americani stavano
prendendo gusto alla corsa alle medaglie d’oro, piuttosto che a quella alle
testate nucleari, per dimostrare comunque la superiorità del proprio sistema su
quello degli altri. Il sogno di de Coubertin stava morendo,
eppure era più vivo che mai. A Roma arrivarono ottantaquattro nazioni, quasi la
metà di quelle presenti allora sul mappamondo. Circa cinquemilaquattrocento
atleti, il doppio di quelli che avevano partecipato alle più fortunate tra le
edizioni precedenti. Il barone sarebbe stato felice di questo, un po’ meno del
fatto che la maggior parte di questi atleti erano dichiaratamente professionisti,
o in procinto di diventarlo. Magari nella variante comunista del dilettantismo
di stato.
Nel 1960, Roma era la splendente capitale di un paese invidiato,
studiato e imitato. Il modello di sviluppo economico italiano, dopo la fase
degli anni 30 in cui aveva affascinato i regimi dittatoriali di Germania e
Unione Sovietica, adesso si poneva come un faro per tutti quei paesi del
Mediterraneo e dell’America Centromeridionale che volevano uscire rapidamente
da una condizione di agricoltura arretrata verso una industrializzazione a
tappe forzate e dirette dallo stesso Stato.
Wilma Rudolph la Gazzella Nera |
In un’epoca in cui l’ottimismo diffuso nella società e la sostanziale
assenza di grossi scandali (o forse magari attenuati nelle conseguenze dal
diffuso benessere sociale) portavano a vedere soprattutto il lato positivo
delle cose, Roma e la giovane repubblica italiana si buttarono a capofitto
nell’impresa olimpica, consapevoli che era un potentissimo motore di ulteriore
progresso e modernità. La Capitale fu trasformata dai lavori di realizzazione
di strutture e infrastrutture necessarie alle Olimpiadi ma che poi sarebbero
rimaste in dote alla cittadinanza. Già nel 1954, con la nascita del Comitato
Costruzioni Olimpiche, si era iniziata in città la campagna di lavori
pubblici che le avrebbe dato il suo volto definitivo ed attuale.
Il governo fascista aveva iniziato la costruzione di una metropolitana per
mettere la capitale italiana al pari di quelle europee più avanzate. Iniziata
nel 1938, era stata interrotta più volte a causa della guerra; il primo tratto
– di superficie - fu terminato a metà anni cinquanta, mettendo in collegamento
la Stazione Termini con il quartiere dell’Esposizione
Universale Romana del 1937, rimasto poi come centro
direzionale appunto denominato EUR. In questa zona furono
costruite numerose strutture olimpiche, come il Palazzo dello Sport,
il Velodromo, la Piscina delle Rose e i campi del Tre
Fontane. Ma il fulcro principale di esse fu concentrato a nord dello Stadio
Flaminio, con la costruzione del nuovo Stadio Olimpico.
Le Olimpiadi di Roma furono le prime in mondovisione. La
capitale italiana rimessa a nuovo entrò in tutte le case in tutti gli emisferi
del pianeta. In Italia, il primo boom di vendita di apparecchi
televisivi in bianco e nero si registrò allora. Gli appassionati poterono
seguire l’Olimpiade per la prima volta senza recarsi allo stadio o agli
impianti. Furono doppiamente fortunati, perché quella di Roma fu una grande
Olimpiade.
Nino Benvenuti |
Mentre USA e URSS si disputavano i vertici del medagliere, con la
vittoria finale dei sovietici, l’Italia era destinata a finire terza con 13 ori
(che eguagliavano il successo di Los Angeles) e con altrettante figure che
hanno lasciato il segno nella storia e nella leggenda dello sport italiano e
mondiale. Adolfo Consolini, il discobolo oro a Londra che aveva
pronunciato il giuramento olimpico, celebrò la sua quarta
olimpiade. Edoardo Mangiarotti, lo schermitore, fece altrettanto,
con l’aggiunta di una medaglia d’oro di squadra nella spada, che lo portò a
superare il record storico di Paavo Nurmi, per 13 medaglie a 12.
Poi furono giorni di gloria per Livio Berruti, che nei 200
metri interruppe un dominio statunitense che durava da 30 anni. Per Nino Benvenuti,
campione olimpico nel pugilato categoria pesi medi, e per Francesco
De Piccoli e Francesco Musso campioni nei piuma e
nei massimi. Per Raimondo e Piero d’Inzeo,
i fratelli primo e secondo nel concorso di equitazione a
ostacoli. Per lo schermitore Giuseppe Delfino nella spada
individuale. Per il ciclista Sante Gagliardoni (2) e per le
squadre a cronometro, inseguimento e tandem.
Per il Settebello che ripeté l’impresa di Londra 1948
riconquistando una insperata medaglia d’oro.
Il mondo, dal canto suo, non stette a guardare. Furono le Olimpiadi di
un ragazzo di colore che iniziò a stupire la platea e gli addetti ai lavori con
la sua tecnica che sembrava mutuata dal volo di una farfalla. Cassius
Clay cominciò la sua leggenda sportiva e umana a Roma, anche se -
incredibile a dirsi – quella volta non vinse il premio speciale della giuria
per il pugile dotato di miglior tecnica, che andò al nostro Benvenuti.
Cassius Clay al villaggio olimpico |
Furono le olimpiadi della Figlia del Vento. A Wilma
Rudolph, l’atleta di colore che gareggiava con un piccolo apparecchio di
correzione ortopedica, mancò solo il salto in lungo per ripetere al femminile
l’impresa di Berlino di Jesse Owens. Vinse 100, 200 e staffetta
4x100, e soprattutto incantò il mondo con la sua prestanza fisica che le
valse il soprannome di gazzella nera.
Furono le Olimpiadi dell’etiope scalzo. Abebe Bikila era
un sergente dell’esercito del Negus Hailé Selassié. I
romani l’avevano visto allenarsi al di fuori del villaggio olimpico
familiarizzando con la figura smunta di questo atleta degli altopiani africani
che correva come correva la sua gente, senza scarpette. E che quando tagliò il
traguardo della maratona, posta sotto la suggestiva cornice dell’Arco di
Costantino, stabilì il nuovo record olimpico in 2h15'16".
Furono le Olimpiadi del primo caso di doping accertato.
O quasi. Durante la cronometro a squadre di ciclismo, il danese Knud
Enemark Jansen si accasciò privo di vita. La colpa ufficiale fu data
ad una insolazione. I rumors parlarono da subito di qualcosa
di diverso. E per la prima volta quella parola del vocabolario inglese entrò
nell’uso comune, oltre che nelle cronache sportive.
L'arrivo di Abebe Bikila sotto l'Arco di Costantino |
Quando l’11 settembre 1960 il braciere olimpico si spense, rimasero
comunque negli occhi degli spettatori di tutto il mondo le immagini di una
grande kermesse sportiva senza precedenti. Eroi di cui la
stampa avrebbe cantato a lungo le imprese. Ma soprattutto rimasero negli occhi
di tutti le immagini di una città di cui forse nessuno, che non avesse fatto
studi classici, sospettava l’esistenza, passata o presente.
Roma riprese il suo posto nel mondo e nella storia grazie alle
Olimpiadi del 1960. L’Italia si avviò ad un decennio di sviluppo e prosperità
grazie all’impulso economico ed all’ottimismo instillati nel suo corpo sociale
dalle Olimpiadi. Gli italiani cominciarono a credere che si poteva vivere, e
vincere, anche senza un regime. La nostalgia di quegli anni e di quell’ingenuo
ottimismo non si è mai spenta. E non sono mai stati abbastanza rimpianti.
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