A Roma, la storia antica e quella moderna si erano
riallacciate insieme, fondendosi in un’unica narrazione mitologica. Dai
sacerdoti del tempio di Zeus ad Olimpia a
quelli del Comitato Olimpico Internazionale a Losanna, dagli
eroi che cingevano corone di alloro a quelli che portavano al collo medaglie
d’oro, tutti avevano contribuito a fare della storia dei Giochi una grande
storia. Che adesso poteva guardare al proprio futuro con la consapevolezza di
non avere eguali e di poter affrontare traguardi sempre più importanti.
Complice anche la nuova era di prosperità in cui il mondo si era trovato catapultato
negli anni Sessanta.
La fiaccola aveva viaggiato per l’Europa, il
Nordamerica e l’Oceania. Era il momento di spostarsi nel quarto cerchio. Il C.I.O. aveva
assegnato all’Asia i Giochi Olimpici già nel 1940. Tokyo avrebbe dovuto
succedere a Berlino. Senonché il Giappone Imperiale aveva preferito
confrontarsi con le altre nazioni sui campi di battaglia anziché su quelli di
gioco. La dodicesima e la tredicesima Olimpiade rimasero nella mente degli Dei.
La bandiera dei cinque cerchi tornò a salire sul
pennone soltanto nel 1948 a Londra. Il Giappone tornò ad essere uno stato
sovrano e non più un paese sconfitto ed occupato militarmente dagli USA
soltanto nel 1952. Nel 1956 fu ammesso alle Nazioni Unite. Più o
meno nello stesso periodo il C.I.O. gli affidò i Giochi della XVIII
Olimpiade.
Al pari di Germania e Italia, anche il Giappone
conobbe alla fine degli anni cinquanta una crescita economica impetuosa
sfruttando le congiunture favorevoli degli investimenti americani e della
necessità di creare punti di forza e non di debolezza ai confini del blocco
occidentale con quello sovietico. Nel 1964, il mondo aveva perso quelle sue
illusioni circa la fine della Guerra Fredda che avevano
contribuito a rendere magici i Giochi di Roma. John Fitzgerald Kennedy aveva
incontrato il suo destino a Dallas. Giovanni XXIII lo aveva
preceduto di poco. Nikita Kruscev non sarebbe sopravvissuto a
quell’anno, almeno non come capo supremo dell’URSS.
Ma il Giappone ci teneva ad accreditare a livello
internazionale una nuova immagine di paese che cavalcava la modernità, dovunque
essa portasse. E ci riuscì alla grande. Con una spesa di circa 600 milioni di
euro, il paese del Sol Levante si presentò al mondo all’altezza della
situazione. Dopo Roma, Tokyo fu un’altra finestra aperta sul futuro. Dello
sport e di tutto ciò che vi aveva cominciato a ruotare intorno.
Yoshinori Sakai, il ragazzo di Hiroshima |
In Estremo Oriente si presentarono 94 nazioni,
dieci più che a Roma, per effetto della decolonizzazione che aveva preso il via
soprattutto in Africa. A fronte di ciò, oltre cinquemiladuecento atleti,
paradossalmente circa duecento in meno che a Roma. Meno di settecento le atlete
donne. Più di mille giornalisti, 600 fotografi e 500 cineradiooperatori. Per la
prima volta un satellite americano consentì la trasmissione in simultanea
dell’evento in tutto l’emisfero settentrionale del pianeta.
La cerimonia di apertura il 10 ottobre 1964 fu una
delle più suggestive e significative di sempre. L’ultimo tedoforo che entrò
nello stadio olimpico con la torcia in mano diretto verso il braciere era Yoshinori
Sakai, un ragazzo nato ad Hiroshima 19 anni prima, il 6 agosto
1945 alle ore 9,15 ora locale, esattamente un’ora dopo il lancio di Little
Boy, la prima bomba atomica della storia, da parte del bombardiere Enola
Gay. La bandiera dei cinque cerchi fu issata su un pennone che misurava 15
metri e 21 centimetri di altezza, esattamente la misura con cui ad Amsterdam
nel 1928 Mikio Oda aveva vinto nel salto triplo la prima
storica medaglia d’oro nipponica. Quando il braciere fu acceso, nello stadio si
levò un rullo di 10.000 tamburi, e 10.000 palloncini presero il volo, mentre
nello stadio si diffondeva il profumo del crisantemo – il fiore nazionale
giapponese – e nel cielo cinque jet dell’aeronautica militare lasciavano la
propria scia disegnando i cinque cerchi di Olimpia.
Le Olimpiadi di Tokyo riproposero vecchi eroi e ne
crearono di nuovi. Abebe Bikila bissò il successo nella
maratona, anche se in una cornice meno suggestiva di quella dei Fori Imperiali. Al
Oerter, il discobolo americano, fece sua la medaglia d’oro nella terza
Olimpiade consecutiva. Così come il canottiere sovietico Vlaceslav
Ivanov ed il cavaliere tedesco Hans Winkler nell’equitazione.
Esplosione – ovvia - del Giappone nel Judo, per la prima volta
ammesso ai Giochi, e nella lotta.
Cominciò a delinearsi una tendenza alla
specializzazione, secondo cui gli U.S.A. primeggiavano nell’atletica leggera e
nel nuoto, mentre l’U.R.S.S. raccoglieva allori nell’atletica pesante e in
tutte quelle discipline considerate minori perché meno
appetibili dallo sport professionistico che ormai la faceva da padrone in
Occidente. Nel nuoto, Don Schollander si laureò degno erede di Johnny
Weissmuller vincendo come lui quattro ori. Nel pugilato, se Roma aveva
fatto scoprire al mondo Cassius Clay nel frattempo diventato Mohamed
Alì, Tokyo gli trovò il più degno avversario del futuro, Joe
Frazier, capace di vincere la finale con la mano sinistra fratturata. Il
sovietico Valeri Brumel vinse per l’ultima volta il salto in
alto utilizzando il cosiddetto stile ventrale.
Eugenio Monti |
L’italiano Franco Menichelli cominciò
l’avventurosa storia della ginnastica italiana vincendo l’oro nel corpo libero. Mauro
Checcoli successe a Raimondo d’Inzeo nell’equitazione.
Il ciclismo azzurro fece strage di medaglie. L’Italia finì quinta nel
medagliere, confermando una tendenza del nostro sport che stava vivendo
un’epoca d’oro. Nei Giochi Invernali che erano stati assegnati
sorprendentemente ad Innsbruck, anziché alla località giapponese deputata ad
essi per eccellenza, Sapporo, l’Italia non aveva mietuto allori. Ma un successo
significativo l’aveva avuto. Eugenio Monti, atleta della squadra di
bob a due, aveva vinto il Premio Speciale de Coubertin per
aver compiuto un gesto di grande sportività. Aveva prestato un bullone al team
inglese Nash-Dixon, che poi aveva vinto la medaglia d’oro. Nella storia di
Olimpia si rimane anche così.
Quattro anni dopo, la fiamma olimpica si imbarcò in
una nuova avventura, dai contorni apparentemente improbabili. Dopo essere
andata ai confini del mondo, nell’Estremo Oriente, fu spedita in altura, là
dove non aveva mai gareggiato nessuno. Fino ad allora. Il Messico aveva già
avuto assegnati i Mondiali di Calcio del 1970. Per una volta prevalse il buon
senso, si decise che gli stessi impianti potevano servire anche ai Giochi
Olimpici. Fu una scelta che avrebbe fatto scuola, già dall’edizione successiva.
La XIX Olimpiade nacque sotto il
segno della perplessità. La medicina sportiva non era ancora così progredita da
conoscere gli effetti dello sforzo in altura. Un’altura di oltre 2.000 metri.
Scienziati pro o contro i Giochi messicani si dettero battaglia a colpi di
dossier fino a poche settimane prima della cerimonia di inizio. Quando eventi
ben più tragici e protagonisti assai più sinistri entrarono a rubar loro la
scena.
Tlatelolco, ottobre 1968 |
Dieci giorni prima dell’accensione del braciere
olimpico, in Piazza delle Tre Culture a Tlatelolco,
un quartiere di Città del Messico, la polizia aprì il fuoco su un
gruppo di manifestanti contro le ingenti spese sostenute dal governo per i
Giochi e i Mondiali. Fu un massacro, con una stima non ufficiale di oltre cento
morti, tra i quali per puro miracolo non venne ricompresa anche la nostra
giornalista Oriana Fallaci, inviata del Corriere della Sera.
L’impatto mediatico della strage fu tale da rischiare di far perdere al Messico
i suoi Giochi a ridosso della loro apertura. Il conservatore americano Avery
Brundage, lo stesso che trenta anni prima aveva avallato il titolo della
Germania nazista a disputare le prime Olimpiadi propagandistiche della storia,
salvò il Messico all’interno del C.I.O.
Il 12 ottobre 1968 a Mexico City si ritrovarono
oltre 5.000 atleti in rappresentanza di 112 paesi. Il movimento sportivo olimpico
cresceva con il progredire della decolonizzazione. Ma il mondo che si ritrovò
davanti alla televisione a vedere le immagini che provenivano dalla terra dei Maya era
un mondo assai cambiato rispetto a Tokyo.
La Primavera di Praga ed il suo
soffocamento da parte dei carri armati sovietici, gli assassinii di Martin
Luther King e Robert Kennedy in America, le barricate
del Maggio francese con l’avvio ufficiale della contestazione
del ’68, la recrudescenza dell’Apartheid in Rhodesia e Sudafrica,
il dramma del Vietnam e quello del Biafra facevano
sì che i Giochi Olimpici fossero carichi di angoscia e densi di significato al
di là di quello strettamente sportivo.
Tommie Smith e John Carlos |
Il segnale che il mondo era cambiato nuovamente e
per sempre lo si ebbe durante la premiazione dei 200 metri piani. Primo e
terzo, gli atleti di colore statunitensi Tommie Smith e John
Carlos. Al momento dell’inno americano, entrambi alzarono il pugno chiuso
guantato in segno di protesta – un segno ed una protesta che le Black
Panthers di Angela Davis stavano rendendo famosi in
tutto il mondo in quel periodo – e abbassarono la testa per non dover guardare
la bandiera a stelle e strisce. Chissà che cosa avrebbe provato ad una simile
vista il barone de Coubertin.
Lo stesso gesto, ma con valenza politicamente
opposta, fu ripetuto dalla ginnasta cecoslovacca Vera Caslavska,
che abbassò la testa al momento dell’inno e della bandiera sovietica. La
politica irrompeva nuovamente dentro il sacro recinto di Olimpia, con le sue
buone e imprescindibili ragioni. Non ne sarebbe uscita mai più.
Il leggendario salto di Bob Beamon |
Sportivamente parlando, furono le Olimpiadi dei
tanti record battuti, proprio grazie all’aria resa rarefatta dall’altura. Bob
Beamon fece quell’incredibile 8’90 nel salto in lungo che avrebbe
resistito come record del mondo per 23 anni, fino a Mike Powell.
Sulla pedana del salto in alto, si presentò un altro ragazzo americano
semisconosciuto, Dick Fosbury, che avrebbe dato il proprio nome ad
uno stile destinato ad ereditare il futuro, oltre che a
valergli l’oro. Fosbury saltò per la prima volta di schiena. Da quel giorno
l’Alto non fu più lo stesso.
Nei tuffi, l’altoatesino Klaus Dibiasi dette
il via alla grande scuola italiana vincendo l’oro nella piattaforma e l’argento
nel trampolino. Furono tra le poche medaglie di un’Italia precipitata giù nel
medagliere di diverse posizioni. Giuseppe Gentile illuse tutti
con il record del mondo nel salto triplo, che però in finale gli fu superato e
gli valse solo la medaglia di bronzo. Per fortuna, a Grenoble nei Giochi
Invernali, la sorte aveva ripagato Eugenio Monti del bel gesto di Tokyo
consegnandogli ben due medaglie d’oro nel bob a due e a quattro.
La Germania tornò a gareggiare in versione doppia
dopo tre olimpiadi come squadra unificata, con l’Est che superò l’Ovest nella
classifica finale. Non era più tempo di distensione. La Guerra Fredda era
tornata in pista. La tregua olimpica scricchiolava un po’ ovunque. A Mexico
City si era gareggiato in ottobre. Quattro anni dopo i Giochi sarebbero stati
anticipati a settembre. E sarebbe stato un settembre nero.
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