Eravamo un paese
di marinai, tra le altre cose, ma non certo di sciatori. Almeno a livello di
eccellenza. Questo malgrado la nostra penisola abbia come confine nord le Alpi,
che si estendono da ovest ad est per circa 1.200 chilometri,
e sia attraversata per tutta la sua lunghezza dagli Appennini, altri 1.200 chilometri
da Quarto fin quasi a Marsala.
Gustav Thoeni |
Ai Giochi Olimpici invernali,
avevamo gioito soltanto con Zeno Colò nello Sci Alpino e
con Eugenio Monti nel Bob. Due fuoriclasse usciti dal nulla,
malgrado avessero alle spalle un movimento sportivo non proprio da poco. Due
fulmini a ciel sereno. Mancava fino a tutti gli anni Sessanta una scuola, che
tenesse in pianta stabile l’Italia ai vertici del medagliere olimpico invernale,
così come lo eravamo stati per buona parte del dopoguerra in quello dei Giochi
Estivi.
Per uno di quei fenomeni difficilmente
spiegabili di cui vive lo sport, nel momento in cui gli Azzurri
andavano giù in Atletica e nelle altre discipline estive, in quelle invernali
arrivò finalmente la scuola vincente, la generazione dei fenomeni. Di più,
arrivò una Valanga. Azzurra.
Dopo aver organizzato brillantemente
l’edizione olimpica del 1964
a Tokyo, al Giappone toccò anche quella invernale nel
1972. Sapporo, capoluogo dell’Isola di Hokkaido,
è una località sciistica molto nota anche fuori delle isole nipponiche, e fu la
prima ad ospitare i Giochi d’Inverno al di fuori del binomio Europa –
Nordamerica.
Fu lì che si consacrò Gustav
Thoeni, a dispetto del nome, italiano di Trafoi, frazione dello
Stelvio. L’uomo che avrebbe dato il suo nome ad un’epoca dello sci, quella
compresa tra la carriera di Jean Claude Killy e quella di Ingemar
Stenmark. Nei primi anni Settanta c’era solo lui, Gustavo,
che quando parlava sembrava sempre sofferente di adenoidi ma quando sciava non
ce n’era per nessuno. Fu lui a dare il via alla scuola italiana, e alla Valanga
Azzurra che si portò dietro. Grazie a lui ed agli altri campioni
azzurri lo sci divenne nella nostra penisola uno sport di massa.
Dopo aver vinto due Coppe del Mondo
assolute e di specialità nel 1971 e 1972, a Sapporo Thoeni si mise al collo due
medaglie d’oro, nel Gigante e nella Combinata, e una
d’argento, nello Speciale vinto dal sorprendente spagnolo Francisco
Fernandez Ochoa e dove finì davanti al cugino Roland. Gli sfuggì solo
il podio nella Discesa Libera, all’epoca ancora territorio di caccia
di svizzeri ed austriaci.
Olympiapark Monaco di Baviera |
Si trattava per l’Italia di un successo
più che appagante, che avrebbe mitigato la parziale delusione costituita dalla
confermata tendenza al ribasso degli Azzurri alle Olimpiadi estive. Le
quali nel 1972 erano state affidate ad un’altra nazione che, al pari del
Giappone, aveva un conto in sospeso con la storia recente.
The Happy Games. Così la Germania
Ovest aveva intitolato i Giochi che le erano stati assegnati per il periodo
compreso tra il 26 agosto e l’11 settembre di quel 1972. Era la seconda volta
che la bandiera olimpica tornava a sventolare sul suolo tedesco. La volta
precedente, a Berlino era andata in scena la volontà di potenza del Terzo
Reich, e Leni Reifenstahl aveva documentato la superiorità
della razza ariana propagandata da Hitler e Goebbels.
La svastica aveva finito per fare ombra a qualsiasi simulacro della vecchia
Olimpia.
Stavolta no, la parte di Germania che era
ricaduta nella zona di influenza alleata alla fine della guerra mondiale aveva
proprio l’interesse a far dimenticare tutto ciò. Ad accreditarsi una volta per
tutte come un paese moderno, democratico, felice appunto. Come quattro
anni prima in Messico, ai Giochi Olimpici avrebbero fatto seguito i Mondiali di
Calcio. Con la speranza per lo sport tedesco di fare un en plein senza
più nessuna implicazione razziale, ma comunque con molte implicazioni politiche
anche se di segno diverso.
Olympiastadion Monaco di Baviera 1972 |
Le due Germanie erano avamposti di due
sistemi diversi, diametralmente opposti. Quella Ovest proiettava Oltrecortina
tutte le luci sfavillanti del capitalismo al massimo del suo splendore. Quella
Est rispondeva con l’impressionante dimostrazione di forza del dilettantismo di
stato. Una volontà di potenza in versione comunista che volente o
nolente aveva ereditato l’approccio propagandistico allo sport che era stato
del Nazismo. Entrambe le Germanie ripetevano in scala neanche tanto minore il
dualismo tra le superpotenze, USA e URSS.
Nel 1972, Berlino non era più capitale di
niente. Era una città divisa in due da un Muro costruito per chiudere l’ultima
porta di accesso e/o di fuga tra Est e Ovest. Un simbolo come pochi altri della
Cortina di Ferro calata giù a dividere a metà un continente
europeo senza più alcuna sovranità. La capitale sostanziale della
Germania Ovest era in quel momento Monaco di Baviera. Fu a lei che il C.I.O.
concesse di accendere il braciere olimpico il 26 agosto 1972. Fu lì che la
Nuova Germania invitò il mondo a giocare e a misurarsi pacificamente. Senza
immaginare che proprio lì la tregua olimpica stavolta sarebbe fallita nel modo
più drammatico.
Furono Olimpiadi di livello tecnico
eccellente, quelle tedesche. Alla fine l’URSS tornò a prevalere sugli USA nel
medagliere, e il simbolo di questo avvicendamento fu costituito proprio da quel
torneo di basket che dalle precedenti olimpiadi germaniche in poi era sempre
stato appannaggio della nazionale a stelle e strisce.
Alexander Belov segna il canestro decisivo per l'URSS |
In una partita di finale drammatica, i
sovietici superarono gli americani 51
a 50 a
tre secondi dalla sirena finale, con Ivan Edesko che
pescò Aleksander Belov sotto canestro direttamente dalla
rimessa laterale. Il leggendario giocatore russo non sbagliò, depositando a
canestro i due punti della vittoria proprio sulla sirena. Gli USA protestarono
a lungo per una ripetizione a loro dire discutibile di quella rimessa fatale e
infine non andarono a ritirare la medaglia d’argento, ne lo avrebbero fatto mai
in seguito. Kenny Davis, cestista statunitense membro di
quella squadra (all’epoca alle Olimpiadi per gli USA potevano giocare solo i
dilettanti universitari, non i professionisti dell’NBA) lasciò
scritto agli eredi che la sua medaglia non avrebbe mai dovuto essere ritirata
da nessuno.
Storie sportive drammatiche,
testimonianze di una Guerra Fredda che riprendeva quota, sfociando in uno dei
suoi momenti più virulenti. Ma non c’era solo lo scontro tra le superpotenze a
tenere banco. Se le Olimpiadi del Messico di quattro anni prima erano passate
alla storia extrasportiva per il massacro di Tratelolco,
quelle di Monaco sarebbero state ricordate per Settembre Nero
e la strage della squadra israeliana.
Dopo tre guerre arabo-israeliane, la
questione dell’esistenza o meno dello Stato di Israele era stata affidata ad un
nuovo attore internazionale, il terrorismo di matrice palestinese. Il gruppo
più famoso era quello di Al Fatah, diretto da Yasser
Arafat. Ma era molto attivo all’epoca anche il gruppo di fedayn
che portava il nome, estremamente indicativo, di Settembre Nero.
Un nome un programma, purtroppo.
La celebre foto del terrorista di Settembre Nero affacciato al balcone |
Il programma fu attuato il 5 settembre,
quando un commando fece irruzione nel villaggio olimpico e sequestrò
quasi tutti i componenti della squadra israeliana, chiedendo in cambio del suo
rilascio quello di oltre duecento propri guerriglieri detenuti a Tel Aviv.
Israele non era disposta a trattare, la salvezza degli atleti della Stella
di Davide era tutta nelle mani della polizia tedesca. I Giochi passarono
fatalmente in secondo piano, per tutti da quel momento l’immagine a cui
rimasero associati non fu quella di nessuno degli atleti in gara, ma piuttosto
quella del fedayn con il passamontagna affacciato al balcone di una
delle stanze dell’alloggio degli israeliani.
Era destino che, malgrado i tempi mutati,
per gli ebrei in terra di Germania non ci fosse salvezza. Mentre si preparavano
a salire insieme ai loro sequestratori su un aereo diretto in Medio Oriente per
gli sviluppi successivi della trattativa, la polizei tedesca aprì il
fuoco in pieno aeroporto di Monaco, falciando sia terroristi che ostaggi. Finì
così il Settembre Nero delle Olimpiadi che avrebbero dovuto essere le più
felici della storia. Con un nuovo olocausto, mille polemiche e la
consapevolezza che in questo mondo diventato così complicato e insanguinato
nessuna tregua, olimpica o meno, avrebbe più funzionato.
I Giochi, come ogni spettacolo che si
rispetti, andarono avanti, anche se tutti ormai avevano negli occhi soltanto il
fotogramma del terrorista con il passamontagna affacciato a quella finestra. A
fare giustizia per i 18 morti della squadra olimpica di Israele, ci pensò poi a
modo suo Israele stesso, e le relative vicende sono narrate esaurientemente nel
film Munich di Steven Spielberg.
Mark Spitz e le sue sette medaglie d'oro |
A Monaco intanto venivano battuti record
e consacrate nuove leggende. A cominciare da quella di Mark Spitz
nel nuoto, sette medaglie d’oro in otto giorni. Sempre nel nuoto, Novella
Calligaris vinse la prima storica medaglia della squadra italiana, un
argento nei 400 stile libero. Klaus Dibiasi confermò l’oro di
Città del Messico dalla piattaforma. Il russo Valery Borzov si
prese l’oro nei 100 e 200
metri piani, rimandando l’esplosione definitiva del
nostro talento emergente, Pietro Mennea. Il finlandese Lasse
Viren si prese invece 5.000 e 10.000 rinfrescando la leggenda di Paavo
Nurmi. Nei 400
metri piani, gli americani Vince Matthews
e Wayne Collett fecero primo e secondo, ma soprattutto fecero
il bis del saluto delle Pantere Nere di Smith e Carlos a
Mexico City. Solo che il clima era cambiato dopo l’avvento di Nixon,
e stavolta ricevettero molti fischi e l’esclusione dalla squadra olimpica
statunitense.
Il salto "d'oro" di Ulrike Meyfart |
Furono le Olimpiadi del fenomeno ugandese
Akii-Bua, fenomenale recordman nei 400 ostacoli,
della altrettanto fenomenale ginnasta sovietica Olga Korbut,
che finì in lacrime per un errore il concorso alle Parallele Asimmetriche ma si
rifece subito vincendo due ori negli attrezzi singoli. La più che fenomenale
tedesca Ulrike Meyfart a soli 16 anni sbaragliò le avversarie
nel salto in alto, la più giovane medaglia d’oro di sempre. Antonella
Ragno chiuse una brillante carriera con l’oro nel Fioretto, una delle
cinque medaglie d’oro che valsero agli Azzurri il decimo posto nel medagliere.
Tanti campioni e campionesse, tante
grandi storie sportive, tanti record battuti. Ma alla fine, una sola immagine
impressa negli occhi di tutti. Un uomo armato, con il volto nascosto da un
passamontagna, affacciato ad un balcone nella zona del villaggio olimpico
riservata alla squadra di Israele. Quella che non sarebbe tornata a casa.
L’illusione del mondo di poter giocare e
basta, almeno per quindici giorni, morì per sempre il 5 settembre 1972.
Nessun commento:
Posta un commento