domenica 29 giugno 2014

1914

La macchina scoperta stava per imboccare il Ponte Latino sulla Miljacka. Sopra di essa viaggiava l’erede al trono imperiale d’Asburgo, Francesco Ferdinando e sua moglie la contessa Sophie von Chotkowa. All’angolo tra il lungofiume ed il ponte li aspettava il loro destino. E quello del mondo. 
Si chiamava Gavril Princip il giovane irredentista serbo che aprì il fuoco contro le loro altezze imperiali, autore di uno dei due attentati più famosi, drammatici e carichi di conseguenze del ventesimo secolo. E destinato, al pari di Lee Harvey Oswald, a portarsi nella tomba la verità vera su ciò che successe quel giorno a Sarajevo. E perché.
Era Vidovdan, San Vito, la festa nazionale serba, l’anniversario della battaglia della Piana dei merli, Kosovo Poljie, la fatale sconfitta contro l’Impero Ottomano in cui il paese balcanico aveva trovato per sempre la sua identità nazionale. Il capoluogo della Bosnia-Erzegovina, sottoposta dal Trattato di Berlino del 1878 all’Impero Austro-Ungarico, si era preparato a ricevere l’erede al trono imperiale in un giorno di festa, come Dallas il 22 novembre 1963 aveva atteso il presidente americano John Fitzgerald Kennedy. Senza sapere che la tragedia esplosa quel giorno sarebbe stata il preludio di una tragedia ancora più grande.
Princip era un patriota serbo, appartenente alla fazione irredentista Mlada Bosnia (Giovane Bosnia), l’equivalente della nostra organizzazione mazziniana per il paese che si riprometteva di riunire in un’unica nazione indipendente tutti gli Slavi del Sud. Quella che un giorno sarebbe diventata la Jugoslavia. Ma Princip era anche un affiliato della Mano Nera, Crna Ruka, una organizzazione che aveva scelto il terrorismo come forma di lotta. Come il mazziniano Felice Orsini con il fallito attentato a Napoleone III, aveva scelto di colpire direttamente il tiranno, individuato nell’erede al trono d’Austria. E a differenza di lui non fallì.
Il suo obbiettivo era l’unico erede superstite al trono imperiale asburgico. Francesco Ferdinando era l’unico superstite della linea di successione austriaca. Rodolfo, l’unico figlio dell’Imperatore Francesco Giuseppe e della leggendaria imperatrice Sissi, era scomparso nella tragedia di Mayerling. Lui e l’amante Maria Vetsera erano stati rinvenuti morti. La versione ufficiale era suicidio, causato dall’infelicità di una liaison osteggiata dalla famiglia reale e dall’opinione pubblica. Ma c’erano voci insistenti, che gli studi storici non hanno mai potuto confermare ma neanche smentire, che il figlio di Franz Joseph e di Sissi fosse stato eliminato (insieme alla scomoda amante, involontario pretesto) perché troppo “progressista”.
A quanto pare, il cugino Francesco Ferdinando seguì la stessa sorte di Rodolfo. Dalla metà dell’Ottocento l’Impero Asburgico era una anacronia sopravvissuta al Medioevo, contro la quale confliggeva la realtà sempre più esplosiva degli stati nazionali. Italia e Germania avevano dovuto costituirsi a prezzo di lotte sanguinose contro Vienna. L’Ungheria, dopo un tributo di sangue pesantissimo, era stata riconosciuta come autonoma nell’ambito dell’Impero. Dalla crisi e dallo smembramento dell’Impero ottomano era emersa l’aspirazione nazionale serba, solo parzialmente soddisfatta a Berlino nel 1878. I serbi volevano tutta la penisola balcanica, comprese le etnie croate e bosniache.
Francesco Ferdinando era a favore del riconoscimento dell’autonomia slava sul modello di quella ungherese, che avrebbe svuotato di contenuto le rivendicazioni jugoslave e probabilmente scongiurato o rimandato il conflitto mondiale. Individuarlo come bersaglio era una contraddizione apparente per la Mano Nera (a cui era affiliata metà dell’esercito serbo e dell’establishment di quel paese). Una leggenda dei monti che circondano Salisburgo voleva che chi avesse ucciso un camoscio bianco avrebbe perso la vita entro un anno. L’Arciduca Francesco Ferdinando di Lorena-Asburgo l’aveva fatto, e la maledizione lo colpì.
La spiegazione soprannaturale peraltro aveva forse più fondamento di quella che voleva l’attentato di matrice esclusivamente serba. Studi più recenti ed approfonditi hanno individuato interessi economici fortissimi tanto a Vienna che a Berlino per sottomettere e spazzare via il giovane stato serbo. Per l’Austria significava togliersi una spina dal fianco e diventare padrona assoluta dei Balcani. Per la Germania, significava via libera alla costruzione della ferrovia Berlino – Baghdad, una specie di Alta Velocità dell’epoca, la madre di tutti gli affari e la via per il possesso del predominio continentale a cui il Kaiser aspirava dai tempi di Bismarck.
Al tempo degli spari di Sarajevo, si tendeva a credere alle “versioni ufficiali”. Nessuno dubitò che la Mano Nera avesse agito su istigazione esclusivamente serba. O nessuno volle dubitarne. Franz Joseph von Habsburg, appoggiato dal Kaiser Wilhelm II von Hohenzollern, spedì alla Serbia un ultimatum che le intimava di rinunciare a qualsiasi ambizione nazionale nei Balcani. Se la Serbia avesse accettato, avrebbe perso la faccia irrimediabilmente di fronte a tutti gli Slavi del Sud. L’ultimatum scadeva un mese dopo l’attentato, il 28 di luglio.
Austriaci e prussiani confidavano in una rapida e facile vittoria, malgrado la Serbia avesse ricevuto garanzie di sostegno da parte di un complicato sistema di alleanze. La Russia si riteneva la patrocinatrice degli Slavi del Sud, cugini dal punto di vista etnico. Ma soprattutto utili a stabilire una presenza zarista nell’Adriatico. La Russia era legata da alleanza con la Francia, desiderosa di rivincita dalla disfatta del 1870 che le era costata Lorena e Alsazia, e soprattutto desiderosa di limitare una volta per tutte la minaccia tedesca in Europa. La Francia era legata dall’entente cordiale (intesa cordiale) con la Gran Bretagna, che aveva i suoi stessi obbiettivi. L’Italia si stava lentamente spostando dal campo della Triplice Alleanza con Austria e Germania a quello della Triplice Intesa suddetta.
Lo stato maggiore del Kaiser continuava tuttavia a confidare nella vittoria. La Russia era arretrata e non avrebbe retto ad una guerra, la Francia sarebbe stata messa in ginocchio con il Piano Schlieffen (dal nome dell’ufficiale prussiano che l’aveva elaborato): l’attacco attraverso le Ardenne, in spregio alla neutralità belga. Un piano destinato a fallire nel 1914, ma ad avere successo clamoroso nel 1940.
Nessuno a Vienna o Berlino ebbe remore di alcun tipo a spingere le cose al punto di rottura. Le indagini su chi aveva realmente armato la mano a Princip si arenarono, come quelle a Dallas cinquant’anni dopo. Lo studente serbo rimase praticamente l’unico autore del gesto, come Lee Harvey Oswald. Le teorie complottiste avevano all’epoca poco spazio, a differenza di quanto avviene nel mondo moderno in cui ne hanno fin troppo. Nessuno pose l’accento sul fatto che la famiglia di molti cospiratori, tra cui lo stesso Princip, fosse in mano austriaca.
Di sicuro, se anche non armò la mano omicida, la fazione guerrafondaia a Vienna e Berlino fece salti di gioia all’udire gli spari sul Ponte Latino quel 28 giugno 1914. Francesco Ferdinando era contrario ai venti di guerra che ormai spiravano impetuosi dai Balcani su tutta Europa. Tolto di mezzo lui, convincere il vecchio Francesco Giuseppe a firmare l’ultimatum alla Serbia e poi la dichiarazione di guerra fu un gioco da ragazzi.
Il 28 luglio l’ultimatum scadde, e il mondo si ritrovò in guerra. Sarebbe durata quattro anni e mezzo, e avrebbe spazzato via le vite di nove milioni di soldati e di cinque milioni di civili, anche se studi più recenti parlano addirittura di 17 milioni di morti complessivi. Avrebbe spazzato via anche un ancien regime sopravvissuto a se stesso troppo a lungo. L’Europa, come una pentola tenuta sotto pressione per troppo tempo, sarebbe deflagrata in un coacervo di stati nazionali dall’entità spesso fragile, ma in cui circolava una quantità di adrenalina difficile da riassorbire. Crisi economiche inevitabili avrebbero creato miseria e disperazione, e preparato orecchie altrimenti più refrattarie alle lusinghe di un totalitarismo che avrebbe fatto impallidire – anche e soprattutto per il numero di vittime causate – il ricordo delle vecchie monarchie che agli albori del ventesimo secolo avevano preteso ancora di governare per diritto divino.

Nell’Impero Asburgico i minorenni non potevano essere condannati a morte. Gavril Princip e molti altri irredentisti serbi non avevano vent’anni, la maggiore età, quando alzarono le mani sulle altezze imperiali. Princip fu condannato a vent’anni di carcere duro a Terezin, la fortezza boema dal nome tedesco di Teresienstadt in cui venivano rinchiusi i detenuti politici, come una volta allo Spielberg. Da piccolo aveva contratto la tubercolosi, la recidiva che lo colse in carcere non gli lasciò scampo. Morì nell’aprile 1918, sei mesi prima dell’armistizio che pose fine a quella che sarebbe passata alla storia, nelle parole di Papa Benedetto XV, come l’inutile strage. Era il giorno 28, come quello in cui aveva sparato a Francesco Ferdinando e alla Contessa Sophie.

sabato 28 giugno 2014

La leggenda della Mens Sana Siena

Gli occhi di Siena sono quelli di Tomas Ress. Attoniti, persi nel vuoto lasciato dalla grande ultima impresa che è passata ad un millimetro, e se n’è appena andata via, solo sfiorata. Nel vuoto che si apre adesso davanti, al fischio finale di Luigi Lamonica. 
Sono le 23,30, Milano ha appena vinto il suo ventiseiesimo scudetto, al termine di gara 7, l’ultima, epica battaglia di una serie che rimarrà nella storia di questo sport. Alessandro Gentile scrive finalmente il suo nome sotto quello del padre Nando, 18 anni dopo. La folla, il popolo dell’Emporio Armani che ha agguantato lo scudetto dopo averlo quasi perso all’ultimo tuffo un paio di volte, si riversa sul parquet del Forum per stringersi ai suoi eroi dalle scarpette rosse.
Da una parte, ci sono gli altri eroi, quelli vestiti di biancoverde. Gli occhi di Ress sono gli occhi di tutti, sono gli occhi di una città. Siena non esiste più. Tra la Mens Sana ed il fallimento ormai non c’è più niente. Comunque fosse finita stasera, i legionari sapevano che questa era la loro ultima battaglia. Adesso, oltre al vuoto che si apre davanti – perché non c’è più una casa a cui tornare né stanotte né nei prossimi giorni per preparare la prossima battaglia – c’è il dolore della festa altrui, e la consapevolezza che per una frazione di secondo, per un giro di ferro del canestro in più, quella festa non è stata la loro.
Sarebbe stata apoteosi, l’ottavo titolo in otto anni, il nono in dieci. L’ultimo, ma vinto contro tutto e contro tutti, solo Crespi e i suoi dodici, tredici campioni, capaci comunque di mettere sotto la corrazzata Milano anche stasera e di far tremare la metropoli fino all'ultimo. A quattro minuti dalla fine Siena era sopra di sei punti. Bastava un’ultima spinta ad avversari presuntuosi che avevano dominato i primi due quarti credendo di aver già vinto. E poi si erano ritrovati sotto in un batter d’occhio. Il basket è più di altri uno sport dove la testa conta più di tutto il resto. Siena all’improvviso si era liberata delle sue paure e delle sue contratture, passandole agli avversari.
Bastava poco, ma è facile dirlo da seduti in poltrona. Agli ultimi minuti dell’ultimo quarto dell’ultima partita di una stagione lunghissima e durissima, anche quel poco è tanto. Gli schemi saltano, le squadre si affrontano come due pugili che schiantati dalla fatica cercano di darsi il colpo del KO, quasi alla cieca, con il sudore ed il debito di ossigeno che velano gli occhi, e la paura che attanaglia braccia e gambe. Le squadre, intese, come tali, non ci sono più, ci sono solo le giocate individuali, le ultime, disperate prodezze che possono fare quella differenza di un millimetro, di una frazione di secondo che sola ormai può assegnare questo scudetto che purtroppo non si può dividere in due.
Come in gara sei, a Matt Janning è capitata la palla decisiva per Siena e si è fermata sul ferro. Quella decisiva per Milano capita a Daniel Hackett, e come Jerrels due giorni prima lui non sbaglia. L’ultimo minuto non conta più, se non per misurare l’agonia di Siena. Alla sirena, per questi guerrieri in biancoverde non ci sarà nessuna consolazione, nessun premio al coraggio, né di Janning che si è preso la responsabilità di provare a vincere la madre di tutte le partite né degli altri che stavano per violare l’inviolabile Forum di Milano per la seconda volta.
Niente può consolare questi ragazzi, né i loro tifosi, se non il passare del tempo che rimargina ogni ferita. Siena lascia a Milano lo scudetto e va a seppellire la sua Mens Sana, ma anche se adesso non la consola sentirselo dire, è proprio in questa notte così amara che la città del Palio entra nella leggenda, come nessun’altra città in nessun altro sport ha mai fatto e difficilmente riuscirà a fare in un futuro immaginabile. Per dominare il basket come ha fatto lei per dieci anni ci vuole un’alchimia che per gli altri, dall’Armani vittorioso di stanotte a chiunque altro, è praticamente impossibile come la ricerca della Pietra Filosofale.

Diceva Rudyard Kipling, vittoria e sconfitta sono due impostori che bisogna imparare a trattare allo stesso modo. Ciò che conta è il “come”. Come si combatte, come si vince, come si perde. La favola bella di Siena sul tetto del basket è finita. La leggenda è appena cominciata.

giovedì 26 giugno 2014

DIARIO MUNDIAL: Gli sdraiati in azzurro

Arriva a Malpensa l’aereo degli azzurri. Sorpresa, ad aspettarli non c’è nessuno. Non siamo più quelli che tiravano i pomodori per un secondo posto, Mondiali del 1970, Italia sconfitta dal più grande Brasile di tutti i tempi e solo a 30 minuti dalla fine. Almeno per certe cose siamo cresciuti, maturati. Oggi è giornata di lavoro, tutti hanno qualcosa di più importante da fare che andare a vedere scendere dalla scaletta una delle più infelici squadre azzurre di tutti i tempi.
I romani proseguono per Fiumicino, i milanesi scendono. Da una parte la rappresentativa nazionale italiana, dall’altra Mario Balotelli. I primi hanno il buon gusto di presentarsi nella divisa ufficiale, almeno questa (forse solo questa) impeccabile. Lui, “l’altro”, no. Berrettino da rapper, capelli a strisce colorate, maniche di camicia arrotolate e cuffiette. Se voleva tagliarsi dietro gli ultimi ponti, ci riesce benissimo. I “fratelli neri”, come direbbe lui, forse non ci troverebbero nulla da dire. I fratelli italiani, diciamo noi, ormai sicuramente hanno finito qualsiasi commento.
Su una cosa ha ragione Mario. Non è lui la causa principale del fallimento dell’Italia a questi Mondiali. Il discorso è più complesso, è questa Italia che con il suo fallimento come società civile prima ancora che come comunità sportiva ha provocato la nascita ed il prosperare di personaggi come lui. Che riunisce in sé in perfetta sintesi due dei mali principali del nostro paese.
Il primo è quell’atteggiamento politicamente corretto e umanamente infingardo che abbiamo verso tutti coloro che – a torto o a ragione, il discorso è lungo e non è questa la sede – arrivano nel nostro paese da altri posti del mondo meno fortunati o che comunque fanno parte di minoranze etniche. A costoro, il politically correct prevede che nessuno si azzardi a prescrivere o rimproverare o addirittura contestare alcunché, a pena di essere tacciati di razzismo e tutto quello che ne segue.
Il secondo è l’atteggiamento profondamente sbagliato che abbiamo assunto nei confronti dell’ultima generazione, quella dei nostri figli. Nel presupposto esiziale che fosse giusto risparmiare loro tutte le difficoltà – anche minime e comunque funzionali ad un corretto sviluppo della personalità individuale – che abbiamo incontrato noi al tempo della nostra crescita, ne abbiamo fatto delle persone incapaci di affrontare qualsiasi ostacolo, anche il più insignificante. E che reagiscono adesso ad ogni nostra sollecitazione con un ribellismo di pura facciata, favorito dall’isolamento sotto le cuffiette dell’iPod.
Mario Balotelli è una via di mezzo tra l’individuo che ha capito benissimo le contraddizioni e le ipocrisie della nostra società e che la sfrutta senza scrupoli, in modo altrettanto contraddittorio ed ipocrita, per non pagare dazio, mai. Ed è insieme l’individuo che incarna perfettamente il giovane protagonista del saggio di Michele Serra Gli sdraiati. Il suo problema è che ha cercato (e probabilmente cercherà) per tutta la vita qualcuno capace di metterlo di fronte anche rudemente ad un sistema di regole – magari ricorrendo al benedetto ceffone che ha risolto tante situazioni ai nostri genitori nel difficile e meritorio compito di educarci – e purtroppo per lui ha trovato solo il dorato mondo del calcio, che se non sei già più che strutturato per conto tuo finisce per rovinarti irreparabilmente. In tutti i sensi.
Se ne va da solo Mario, verso la sua Motown virtuale, mentre gli altri azzurri sfilano mesti verso l’uscita. Finisce così l’avventura di Cesare Prandelli sulla panchina azzurra, con dei saluti frettolosi ai suoi ragazzi, figli e figliastri, campioni e promesse mancate. Tutti voluti da lui, tutti affondati insieme a lui, meno quei quattro o cinque che avevano già vinto senza di lui. La notte tra l’altro ha portato consiglio ad Andrea Pirlo, che si è detto disposto a mettersi a disposizione del prossimo CT, chiunque sia, se lo vorrà.
Già, il prossimo CT……. Speriamo che la Russia vada fuori stasera, così si libera Fabio Capello, l’unico insieme a Carlo Ancelotti dei nostri tecnici che gioca per vincere e sa come farlo. L’unico che può rifondare questa baracca. Parla Albertini, che nessuno ha capito ancora cosa ci stia a fare ma che ha tutte le intenzioni di continuare a farlo: “Per il prossimo allenatore della nazionale, tempi stretti”.
E’ già stata fissata un’amichevole a settembre contro l’Olanda, e chissà se gli Orange a quell’epoca avranno sulle maglie la loro prima stella. Glielo auguriamo, dopo una vita da secondi, e sarebbe un onore essere i primi a festeggiarli. Ma francamente sembra tanto un tentativo di creare un ricorso storico. La prima, bellissima uscita della Nazionale rifondata da Fulvio Bernardini nel 1974 fu appunto a Rotterdam contro Cruyff e compagni. Antognoni e gli altri ragazzi azzurri non sfigurarono pur perdendo, e uscirono dal campo tra i complimenti di avversari che erano già diventati leggenda. Per poi diventare otto anni dopo leggenda anche loro.
Il ciclo che si deve aprire adesso è molto più problematico, perfino rispetto a quattro anni fa. Allora, un Cesare Prandelli contattato da una Federazione in stato confusionale prima ancora del disastro sudafricano del Lippi-bis e stimolato a rispondere alla chiamata da Della Valle che non vedeva l’ora di liberarsi di lui e che gli fece ponti d’oro inaugurò la sua serie andando a perdere contro un avversario contro cui non avevamo mai nemmeno sognato di perdere nei peggiori incubi, la Costa d’Avorio di Drogba (e poco altro). Ma c’era almeno l’illusione di un ricambio generazionale, anche se poi a ben vedere questo ricambio era sostanziato da trentenni come Cassano e Diamanti o da giovani problematici e ingestibili come Mario Balotelli.
Il disastro brasiliano ha spazzato via queste ed altre illusioni, ed ha stabilito nuove certezze, oltre a lasciare un conto da pagare che si aggira sui cinque milioni di euro, per quindici giorni di soggiorno. E’ un disastro epocale come quello della Corea nel 1966, ma stavolta non si possono chiudere le frontiere, perché nel frattempo ci siamo costruiti un mondo molto più complicato e solo apparentemente più evoluto. La politica sportiva, come qualsiasi politica, non viene più decisa a Roma, ma a Maastricht e Bruxelles. Vanno trovate altre soluzioni, che comunque contemplino la rimessa in auge, o almeno in funzione dei nostri vivai.
Continuare a riempire le nostre squadre ed il nostro campionato di stranieri per la maggior parte poco più che mediocri fa di sicuro la fortuna di direttori sportivi e procuratori, che viaggiano a percentuali (in chiaro e in nero), ma difficilmente farà la fortuna del nostro calcio. Perché oltre a togliere spazio ai nostri ragazzi nelle squadre di club offre a questi pedatori che ai tempi d’oro avrebbero durato fatica a trovare posto nella nostra serie B l’occasione di migliorarsi apprendendo tecniche e tattiche più evolute per poi rivoltarcele contro in occasione delle prossime competizioni internazionali.

Mancano quattro anni a Russia 2018. A prescindere da dove sarà ad allenare Fabio Capello, se le cose non cambiano trovare undici ragazzi in grado di onorare la maglia azzurra sarà un’impresa disperata. Come passare un turno ad un Mondiale.

mercoledì 25 giugno 2014

DIARIO MUNDIAL: Italia anno zero

Diceva Winston Churchill, gli italiani perdono le guerre come se fossero partite di calcio, e le partite di calcio come se fossero guerre. Ai tempi del grande statista inglese, l’Italia si era indubbiamente rivelata un avversario più forte sul campo di calcio che su quello di battaglia. Ma l’aforisma di Churchill trova fondamento un po’ in tutta la nostra storia nazionale. 
Ci siamo ricordati della bandiera tricolore solo nelle occasioni in cui la nostra squadra di calcio nazionale ha vinto qualcosa. D’altro canto, niente ha scatenato la nostra rabbia di cittadini come una sconfitta degli azzurri in una competizione che conta.
Veniamo da tre anni – per semplificare il conto, che in realtà sarebbe più lungo – in cui la nostra classe politica ci ha fatto vivere una delle crisi economiche e sociali più drammatiche di sempre. Eppure, nessuno che si sia scatenato, al bar o altrove, a dire io avrei fatto così, avrei tolto questo e messo quello, così non si può andare avanti, tizio se ne deve andare, caio deve finire di fronte alla disciplinare e guai se non succede.
Per queste cose, ci vuole invece una eliminazione al primo turno della Nazionale. Una figuraccia come nessun altro è stato capace di fare, a parità di eliminazione. Quanta grandeur nel crepuscolo spagnolo e quanta dignità nell’addio inglese. Non abbiamo convinto del tutto nemmeno nell’unica vittoria, siamo stati inesistenti con la Costa Rica (fino a poco tempo fa una specie di Lussemburgo del Sud America) e polli da infilzare con l’Uruguay.
Torniamo a casa dopo la fase a gironi, è la settima volta, la seconda consecutiva. Nel 1950, la prima volta in Brasile, non avevamo saputo far fronte in tempo al venir meno del blocco del Grande Torino schiantatosi l’anno prima a Superga. La Svezia che ci eliminò, in compenso, era una squadra migliore di tutte quelle di questo Mondiale in corso d’opera messe insieme.
Anche la Svizzera che ci sbatté fuori nel Mondiale casalingo quattro anni dopo era una discreta squadra. Ballaman & C. sorpresero Boniperti & C., un’Italia che non aveva trovato ancora – tra Milan, Fiorentina e Juventus – un blocco su cui costruire una nazionale all’altezza di un grande campionato.
Nel 1958 non ci qualificammo nemmeno, ma mettemmo in mostra a Belfast i vizi che ci avrebbero condannato a Santiago del Cile quattro anni dopo. Erano gli anni in cui si credeva che bastasse naturalizzare oriundi sudamericani, senza riflettere che questi signori erano già sfamati, carichi di gloria ed interessati il giusto ad una ptria che era stata quella dei loro nonni, non la loro. 
A Santiago facemmo la prima conoscenza con gli arbitraggi a senso unico. Ken Aston fece a favore del Cile quello che Byron Moreno fece a favore della Corea 40 anni dopo. Ma noi glielo permettemmo giocando come peggio non si poteva.
Nel 1966, Edmondo fabbri portò in Inghilterra una squadra che era già in buona parte quella con cui Valcareggi avrebbe vinto la partita del secolo e messo paura a Sua Maestà Pelé in Messico quattro anni dopo. Ma Fabbri aveva idee sue, e riuscì a perdere non solo dalla solida U.R.S.S. ma anche dall’improbabile Corea del Nord. Il dentista Pak Doo Ik che segnò il gol a noi fatale divenne comunque un benemerito del nostro calcio, perché provocò quella chiusura delle frontiere da parte della Federcalcio che favorì in un periodo abbastanza breve il rifiorire del nostro vivaio.
Nel 1974 gli eroi dell’Azteca erano invecchiati e dettero un malinconico addio al primo turno ai mondiali tedeschi, complice una grande Polonia. Nel 1978 però in Argentina c’era una generazione nuova pronta a raccogliere degnamente il testimone. Una generazione che avrebbe riportato il titolo mondiale in Italia dopo 44 anni, dopo il gro d’onore sul prato del Santiago Bernabeu di Madrid.
Nei 24 anni successivi ci eravamo abituati male, finendo spesso eliminati alle ultime fasi del torneo e soltanto ai calci di rigore ma soprattutto finendo per rivincere il Mondiale in quel di Berlino, sempre ai rigori e stavolta senza che nessuno tremasse. Quattro anni dopo, in Sudafrica, l’errore fu pensare che il tempo non fosse passato né per Lippi né per la sua squadra. Il girone era molto più facile di quello di adesso in Brasile, ma finimmo fuori con due soli punti. Stavolta con tre.
I vecchi eroi sono stanchi, e si guardano indietro alla ricerca di giovani a cui passare il testimone. Non ce ne sono, o sono stati lasciati a casa da un C.T. rimasto legato al suo calcio da oratorio. Cesare Prandelli è sempre stato uno bravo a “cavare il sangue dalle rape”, a motivare cioè e far rendere al meglio giocatori mediocri. Con una Fiorentina non trascendentale sfiorò i quarti di Champion’s League nel 2010, con una Nazionale più o meno come questa sfiorò il titolo a Euro 2012. Ma le sue squadre, a ben vedere, sono composte sempre appunto di rape, giocatori che non sarebbero nemmeno presentabili su una ribalta internazionale.
Se a Firenze poteva dare la colpa al “braccino” dei della Valle, qui in Nazionale l’unico responsabile è lui. E’ lui che lascia in panchina un Alberto Aquilani mortificandolo, è lui che lascia a casa un Giuseppe Rossi o un Mattia Destro avvilendoli. E’ lui che dice no a Totti e Toni perché vecchi, salvo rendersi conto che a questi ritmi e su questi palcoscenici sarebbero stati ancora i migliori. E gli avrebbero forse salvato la panchina.
Non c’è un Fulvio Bernardini all’orizzonte stavolta, anzi i migliori allenatori, da Capello ad Ancelotti, sono tutti sotto contratto e senza nessun motivo per non rispettarlo. Ma soprattutto non c’è la generazione del 1974, che fu buttata in campo e fece vedere le streghe alla prima partita a Cruyff & soci, e otto anni dopo vinse in tromba un Mondiale come se ne sono visti pochi. E le frontiere, sic stantibus rebus, non si possono chiudere più.

DIARIO MUNDIAL: La resa dei conti

L’ultima immagine (forse l’unica) che ci resterà dentro di questo mondiale brasiliano è quella del vecchio capitano Gigi Buffon che all’ultimo dei cinque disperati minuti di recupero dell’ultima partita lascia la porta e sale su in attacco, all’arma bianca. Onor di capitano, uno degli ultimi eroi di Berlino, alla fine di una lunga e gloriosa carriera, non si sente ancora appagato e va su – forse per l’ultima volta – a difendere una maglia azzurra che altri (quasi tutti) hanno nel frattempo gettato nel fango.
Le immagini da dimenticare in compenso sono tante, e non le abbiamo neanche viste tutte. Il dramma - l’ennesimo – del calcio italiano si consuma tra le sette e le otto della sera del 24 giugno 2014. Al rientro negli spogliatoi per l’intervallo, un Cesare Prandelli che presagisce ormai sventura come un druido gallico, leggendola negli stessi occhi dei ragazzi a cui si è affidato, riprende Mario Balotelli, che in tutto il primo tempo si è messo in luce soltanto per una delle ammonizioni più stupide della storia del calcio.
Radio Spogliatoio riferisce che volano parole grosse, e anche qualche corpo contundente. Prandelli non ha bisogno di sostituire Balotelli, sono i compagni che lo buttano fuori dal camerino azzurro, e dalla squadra. Tornano in campo, almeno alcuni, a consumare il proprio destino e quello della squadra e della nazione sportiva. Poi, dopo una ripresa tra le più orrende di sempre dove tutto gira all’incontrario per una spedizione azzurra dove niente, ma veramente niente è stato organizzato e programmato per il verso giusto, tornano giù per la resa dei conti, che segue ad ogni eliminazione, meritata o no.
E’ il momento di dire le cose come stanno. Balotelli ha già avuto il suo, l’azzurro lo rivedrà nel cielo, se andrà a vivere in un posto dove piove poco. Tocca adesso a Prandelli dare un senso, per una volta, a quel codice etico che ha sbandierato per quattro anni stracciando il contratto improvvidamente offertogli da una F.I.G.C. che nei suoi comportamenti ormai non ha niente da individuare ad amministrazioni come quella di Venezia nella vicenda del Mose.
Alle dimissioni doverose del mister – pare – nessuno batte ciglio. Anzi, il presidente federale Abete nell’unico soprassalto di dignità della sua carriera ci mette sopra le proprie come carico da undici. Forse spera che il 4 luglio l’esecutivo della F.I.G.C le rigetterà, facendogli fare bella figura a gratis e graziandolo. Ma come diceva il senatore Andreotti, se presenti le dimissioni c’è sempre il rischio ce te le accolgano, chissà.
Il calcio italiano è all’anno zero. Lo abbiamo detto atre volte in passato, ma mai come adesso. Da questo Brasile 2014 non si salva niente, se non la faccia dei quattro-cinque veterani di Germania 2006 che anche stavolta avevano provato a gettare il cuore oltre l’ostacolo. Pirlo annuncia il suo ritiro dalla nazionale, dopo 112 partite che lo hanno messo di diritto nella storia. Buffon e De Rossi invece difendono la vecchia guardia e rompono un inutile codice d’onore attaccando i colleghi più giovani.
“Non è possibile che quando c’è da tirare la carretta tocchi sempre ai più vecchi. I discorsi stanno a zero, in campo si vede chi c’è e chi non c’è, e tocca sempre a noi”, commenta amaro il vecchio capitano, l’unico peraltro che quaggiù, ai confini della foresta amazzonica, ha trovato forse un degno sostituto. Salvatore Sirigu è una delle pochissime cose per cui è valso il prezzo del biglietto di questa numerosissima e costosissima spedizione azzurra.
“La Nazionale ha bisogno di uomini veri, non di figurine di calciatori”, è il commento durissimo di un livido De Rossi. Livido di rabbia, e non solo verso il reprobo Balotelli, che nella sua indisponente ma comunque ingenua arroganza è fin troppo facile individuare come bersaglio. 
Delle nuove leve di Prandelli, lascia intendere De Rossi, non se ne salva nemmeno mezza. Ai quattro di Berlino, De Rossi, Barzagli, Pirlo e Buffon, si aggiungono in positivo solo Chiellini, per il carattere e l’impegno, e Marchisio, che non tira indietro la gamba nemmeno quando un arbitro incapace o in malafede lo tiene d’occhio per buttarlo fuori.
Il resto è la paccottiglia con cui mister Prandelli si è baloccato per quattro anni, costringendo il campionato di calcio a frequenti interruzioni per esperimenti che non hanno prodotto nulla, né un gioco di squadra né una base per ripartire comunque, ora che tutto è perduto, compreso l’onore. 
La Spagna riattraversa l’Atlantico ammantata di un velo crepuscolare che le mantiene comunque una certa aura di grandezza pur nella amara eliminazione. L’Italia torna in condizioni peggiori di come tornò nel 1950, una Armata Brancaleone che stavolta non può invocare nemmeno la tragedia del Grande Torino. 
La tragedia, stavolta, è consistita nel dare fiducia a questi uomini, che hanno ridotto il nostro calcio a livelli da esercito di Franceschiello. Di positivo c’è che adesso i pomodori costano molto di più, gli azzurri non dovrebbero temere per le loro divise immacolate e per le loro mìse e acconciature all’ultima moda.


martedì 24 giugno 2014

DIARIO MUNDIAL: Azzurro di nuovo tenebra, addio Brasile

A Natal, nella città sotto la montagna che frana, vengono giù anche le ultime speranze dell’Italia di rimanere aggrappata a Brasile 2014. Nello spareggio per il secondo posto nel girone vinto dal Costa Rica, vanno in campo ad affrontarsi ben sei titoli mondiali di un passato che sembra ormai remoto, per l’Uruguay che non vince dai precedenti mondiali brasiliani e anche per l’Italia il cui trionfo berlinese sembra ormai lontano nel tempo come la breccia di Porta Pia.
Agli azzurri basta il pareggio, per differenza reti. Ma sono gli azzurri che non bastano più a se stessi. Per ottanta minuti l’Uruguay li aspetta, lasciando loro l’onere di “fare la partita” e cercando (rarissimamente) di colpirli in contropiede. Nel frattempo i celesti menano, non appena si rendono conto che l’arbitro vede solo i falli dei loro avversari.
L’arbitro messicano Rodriguez è una via di mezzo tra il Brizio Carter di USA 94 ed il Byron Moreno di Corea 2002. Del resto, Moreno è il suo secondo cognome. Si dimentica per lunghi tratti di fischiare quando gli uruguagi fanno assaggiare i tacchetti ai nostri eroi, poi appena Balotelli commette la prima (o l’ultima) delle sue sciocchezze a questo Mondiale lo ammonisce, mettendolo di fatto fuori gioco. 
Lo psicolabile centravanti dell’Italia sta in quel momento ripetendo la prova evanescente fornita con il Costa Rica, combattendo con i fantasmi che si aggirano nella propria testa piuttosto che con gli avversari. Dopo il cartellino giallo, Balotelli sparisce, costringendo Prandelli a toglierlo nell’intervallo, perché a quel punto la sua espulsione diventa un fatto sempre più probabile con l’andare dei minuti, giacché lo smaliziato Casseres si incarica di fargli saltare i nervi ad ogni azione.
Il cambio di Balotelli con Parolo è forse l’unica cosa azzeccata da Prandelli a questo Mondiale. Ma il destino azzurro è comunque segnato, e Rodriguez Moreno, detto chissà perché “Dracula” (ma dopo questa prestazione qualche idea ce la siamo fatta), privato di Supermario sceglie di buttar fuori Marchisio al primo fallo, anzi neanche per un fallo ma per un semplice per quanto rude contrasto.
In 10 contro 11, la partita degli azzurri è segnata. Per due volte Buffon salva la porta prima di capitolare all’81’ su calcio d’angolo provocato dallo stato confusionale di una difesa che di juventino ormai ha soltanto il ricordo. Godin tira una zuccata ad occhi chiusi, e su di essa si spegne lo stellone di Prandelli. 
A quel punto gli azzurri si buttano in avanti con le ultime bolle di ossigeno da espirare, ma producono quello che hanno prodotto nei 170 minuti precedenti, tra Costa Rica ed Uruguay: niente.
Unico episodio degno di nota, il morso di Mario Suarez detto il pistolero a Giorgio Chiellini, assurdo, gratuito e soprattutto non sanzionato dall’arbitro. Un episodio inqualificabile che getta una macchia indelebile sui mondiali brasiliani. 
Difficile che Rodriguez Moreno torni ad arbitrare a livello internazionale, ma ciò che interessa a noi è che l’Italia torna a casa per la seconda volta consecutiva dopo la fase a gironi. Va avanti l’Uruguay che ha l’unico merito di aver incontrato la peggior squadra azzurra dal 1910 a questa parte, e di aver saputo aspettare di cogliere i doni copiosi che la sorte gli ha riservato.
Al netto di un arbitraggio indegno, bisogna dire che l’eliminazione italiana è assolutamente meritata. Il primo a riconoscerlo è stato lo stesso Cesare Prandelli, che Radio Spogliatoio accredita sull’orlo delle dimissioni, insieme al Presidente Federale Abete. Il risultato odierno sancisce inequivocabilmente il fallimento di quattro anni di gestione del tecnico di Orzinovi, che malgrado lunghe sperimentazioni ed il risultato sorprendentemente confortevole degli Europei 2012 ha presentato a questi Mondiali una selezione inguardabile in almeno due uscite su tre.
Giocatori assolutamente inadatti al grande calcio che conta e impresentabili ad un Mondiale, come Immobile, Insigne, Parolo, Thiago Motta, Paletta e, a giudicare dalla prova di oggi anche le stesse giovani promesse Darmian e De Sciglio sono emersi da un tourbillon di test, amichevoli ed esperimenti come pochi altri tecnici avevano condotto in passato. Risultato, questa squadra non ha un gioco e non ha basi su cui ricostruire.
Chi dovrà farlo, se le dimissioni di Prandelli saranno confermate ed accettate dalla F.I.G.C., avrà un compito ben più gramo di quello di Bernardini nel 1974 o dello stesso Prandelli quattro anni fa. Perché nel frattempo, ed è l’altro lato oscuro della prestazione azzurra, il calcio italiano che questi ragazzi hanno indegnamente ma fedelmente rappresentato in Brasile è veramente all’anno zero. 
Il capocannoniere della serie A è un ragazzo che non ha chiaramente i movimenti giusti di un atleta in grado di giocare partite internazionali, mentre la nostra punta di diamante è una persona che non sa gestire i suoi comportamenti né dentro né fuori dal campo. Il resto è anche peggio.

Azzurro tenebra, una volta di più, ed è la sesta nella storia dei Mondiali. Azzurro che torna a casa, e che deve ringraziare che ormai i pomodori costano troppo, e i tifosi di sprecarli non se lo possono permettere più.

lunedì 23 giugno 2014

DIARIO MUNDIAL: La teoria della razza

Uno dei miei passatempi preferiti è quello di intrattenermi con uno dei miei più cari amici in conversazioni che spaziano più o meno su tutti gli aspetti dello scibile umano. Essendo tutti e due appassionati di calcio, è inevitabile che il calcio sia spesso l’argomento di discussione. Essendo tutti e due spiriti liberi e dalle argomentazioni spesso eterodosse, è inevitabile che nelle nostre conversazioni questo argomento venga “manipolato” in maniera assolutamente difforme da quanto solitamente avviene in quelle altrui, dal bar all’ufficio all’ombrellone.
Questo mio carissimo amico per esempio sostiene che ogni sport è più o meno congeniale ad una razza (intesa biologicamente come “etnia”) piuttosto che ad un’altra. Risultati alla mano. Per esempio, da quando i neri non solo d’America ma un po’ di tutto il mondo hanno cominciato a poter nutrirsi ed allenarsi come i bianchi, nelle discipline di corsa non c’è più stata partita, tranne pochissime eccezioni (due delle quali italiane, Livio Berruti e Pietro Mennea).
Et pour cause. Senza scomodare il celebre aneddoto della gazzella e del leone, correre in Africa – la “culla” della razza nera – è una condizione essenziale dell’essere, e prima ancora del sopravvivere, per ovvi motivi. E’ parte di un bagaglio genetico ormai allestito da millenni, modificarlo o eguagliarlo è praticamente impossibile, per motivi di biologia e di cultura in senso lato. Un nero ha fin dalla nascita i muscoli e gli istinti adatti alla corsa, un bianco deve coltivarli ed apprenderli. E in una finale olimpica sono decimi di secondo che fanno la differenza.
Altro esempio, di segno opposto. Mai visto un nuotatore di colore in una gara che conta. Il nuoto sembra una riserva della razza bianca. Poi magari il mese prossimo esplode un Michael Phelps dalla pelle più scura di quella di Ussain Bolt, ma per il momento – e per un tempo a venire ragionevolmente lungo – la cosa appare assai improbabile, se non addirittura inverosimile. Anche qui, usi, costumi e culture offrono una spiegazione. In Africa, i corsi d’acqua in genere sono ambienti poco raccomandabili, abitati da predatori forniti di denti più o meno aguzzi. Il mare poi è l’Oceano, poco raccomandabile per la balneazione a qualsiasi latitudine. Un africano non si sogna di mettere piede in acqua a meno che non abbia scelta, per sfuggire a un male peggiore. Un nuotatore di colore è verosimile come la squadra giamaicana di bob a 4 di qualche anno fa.
A questa dissertazione, decidete voi se sbilanciata più sul serio o sul faceto, non può sfuggire ovviamente il calcio. Che nasce in Europa come “caccia” ad un pallone. A Firenze, dove il gioco ebbe ufficialmente origine nel 1530, il “gol” si chiama ancora così, “caccia”, e non è un caso. Nei secoli successivi, poi, il gioco si è evoluto grazie anche al passaggio del trattamento del pallone dalle mani ai piedi ed alla comparsa di strategie e tattiche come in ogni battaglia che si rispetti, giacché dal ventesimo secolo il calcio è sicuramente la continuazione della guerra con altri mezzi.
Secondo il mio amico – e mi trova abbastanza d’accordo – il calcio è uno sport congeniale alla razza bianca. In guerra o nello sport di caccia, i bianchi da secoli hanno sviluppato strategie e tattiche raffinatissime, in base alle quali ogni componente della squadra sa qual è il suo posto nella “battuta”. Sono pochi, a volte uno solo, il cacciatore, coloro che vanno sull’obbiettivo, il pallone o la preda, gli altri hanno i loro posti assegnati nello schieramento e guai se non fosse così. Questo i bianchi l’hanno metabolizzato da secoli, così si spiegava anche la loro supremazia in guerra, oltre che con il gap tecnologico.
I neri, argomentavamo, cacciano e combattono ancora secondo schemi più tribali. Non vuol essere un discorso razzista, anzi. E’ un riconoscimento implicito della loro diversità culturale. Probabilmente per agguantare un pecari o una gazzella sono più efficaci loro, ma per mettere un pallone in una porta attraverso un gioco di squadra il loro avventarsi tutti insieme sulla preda li condanna in partenza alla sconfitta, da parte dei più smaliziati bianchi.
Queste le nostre argomentazioni, sostanziate dalle prestazioni di molti giocatori di colore nel nostro campionato che spesso sembrano prediligere la “caccia all’uomo” piuttosto che al pallone, o palla o gamba e meglio se gamba, parafrasando Nereo Rocco a rovescio. Non essendo in questo momento storico il nostro calcio in grado di assicurarsi i migliori, quelli che arrivano qui sembrano spesso una tribù lanciata alla cattura del pranzo giornaliero, piuttosto che componenti di una squadra di calcio. Come dice un popolare commentatore, qualcuno di loro sembra oggettivamente più adatto a fare dei traslochi che a giocare in serie A.
Argomentazioni che ormai è superfluo condividere o meno. Perché nel frattempo sono arrivati i mondiali di calcio 2014. Ecco allora un Costa Rica che nasconde la palla all’Italia per 90 minuti. Di bianchi in squadra nemmeno mezzo (il Costa Rica, purtroppo, non l’Italia), quelli che non sono neri sono indios (altra etnia su cui dissertare, magari un’altra volta). Ecco una Francia che ormai di “gallico” ha soltanto lo stemmino disegnato sulla maglietta fare a pezzi una pur multietnica ma sempre abbastanza “pallida” svizzera. Il Brasile gioca peggio di sempre, e sarà un caso che il tasso di colored tra i suoi giocatori è sceso considerevolmente rispetto al passato glorioso di Pelé e Ronaldo. Il Ghana fa sfracelli contro la Germania, che si salva solo perché Miroslav Klose deve raggiungere il fenomeno nella classifica dei marcatori mondiali di tutti i tempi, se no buonanotte anche a lei.
La teoria della razza va a farsi benedire ufficialmente nel giugno 2014. Nelle prossime conversazioni, il mio amico ed io dovremo operare una profonda rivisitazione delle nostre basi culturali a partire dal darwinismo. Addio Kipling, il futuro è nelle mani di Jorge Luis Pinto. Anche se, qualche eccezione al nuovo che avanza c’è, e lascia sperare per la sopravvivenza delle vecchie nostre certezze. L’Olanda sembra aver dimenticato le sue dependances molucchesi, i suoi lancieri sembrano tutti di Amsterdam e dintorni da diverse generazioni, per questo sembravano avere con gli spagnoli dei conti in sospeso dai tempi di Guglielmo d’Orange.
Poi c’è la madre di tutte le eccezioni. Mario Balotelli riconcilia con il nostro calcio di sempre. Nel senso che fa rimpiangere gli Schillaci e i Di Natale figli di un sud che ha codificato pregi e difetti genetici e culturali dai tempi della magna Grecia. L’unica volta guarda caso che abbiamo fatto un tentativo di “apertura post-coloniale”, guarda te chi siamo andati a pescare. Con Supermario, e con ciò che contiene la sua testa crestata, avrebbe poche chances perfino questo Ghana.
Mi stai dicendo che hai messo un cervello abnorme in un armadio di due metri?” E’ una celebre battuta del film Frankenstein Junior, tra Gene Wilder e Marty Feldman. Ma potrebbe benissimo essere una citazione della biografia di Balotelli Mario da Brescia. L’uomo che ha sintetizzato i risultati delle ricerche di Darwin con quelli di Basaglia.

Forse, grazie a Supermario, per il nostro “relativismo calcistico” c’è davvero qualche speranza di sopravvivenza. Devo dirlo al mio amico quando torno a casa. C’è caso anche che la Nazionale di Prandelli sia già arrivata prima di me.

DIARIO MUNDIAL: Italia battuta dal Costa Rica, qualificazione a rischio, e Prandelli?

Avevamo scritto in sede di presentazione di Italia-Costarica che il problema della squadra di Cesare Prandelli, che stasera si porta come presenze in panchina nientemeno che ad una distanza da Marcello Lippi e dal terzo posto dietro Vittorio Pozzo ed Enzo Bearzot, era trovarsi ad affrontare il calcio sudamericano al suo meglio. Non quello europeo, contro il quale ormai ce la caviamo “di riffa o di raffa”, ma quello che si chiama futebol, Di questo calcio, nel nuovo millennio, gli alfieri non sono più Brasile (aiuti a parte), Argentina o Uruguay ma Colombia e, appunto, Costa Rica.
Il gap tecnico è stato ormai colmato, grazie alla presenza dei giocatori di queste ex squadre di secondo piano nei club europei. La politica suicida delle federazioni del Vecchio Continente dà finalmente i suoi frutti. Dei costaricani, uno gioca in Russia, tre in Norvegia. A palleggiare non gli devi insegnare, la tattica l’hanno imparata da noi e la prestanza fisica ormai – da quando mangiano bene come noi – ci sovrasta addirittura.
All’Arena Pernambuco di Recife, Jorge Luis Pinto schiera la stessa squadra che ha fatto a pezzi l’Uruguay, Cesare Prandelli invece fa due cambi, Abate per Paletta e Thiago Motta per Verratti. Squadra che vince non si dovrebbe cambiare, recita una vecchia regola di questo gioco ormai bicentenario. Giusto – e non solo per questo – che alla fine vinca il Costa Rica, che si presenta in area azzurra solo due volte, ma gli bastano. Le due occasioni azzurre invece capitano sui piedi di Mario Balotelli, e sarebbero sufficienti solo per rimandarlo in Italia stasera stessa.
L’ex SuperMario oggi non c’è, ha la testa altrove e quando la rimette in campo combina solo guai, per sé e per i compagni, manco non fosse l’occasione della sua vita. Fortuna che l’arbitro cileno Osses prediliga il “gioco maschio”. Altrimenti, tra gli espulsi, oltre ad un paio di costaricani ci sarebbe stato di diritto lui, Mario da Brescia. E’ uno dei due fallimenti di questa partita, assieme ad un Candreva che non avevamo francamente mai visto giocare così male da quando è in serie A. Subito sotto, nella scala delle delusioni, un Thiago Motta che per l’ennesima volta fa pensare al fatto che i brasiliani in genere i pochi giocatori buoni che hanno se li tengono, e non li mandano a chiedere cittadinanze altrui.
Il resto è mediocrità, di quelle che durano fatica a passare la metà campo. Il Costa Rica sta dietro la linea del pallone, e pressa alto. Le rare volte che riesce a partire in contropiede colpisce come un cobra. Il resto lo fanno dei pedatoni sistematici sul portatore di palla, di quelli che il pensiero di Osses non considera, per dirla con Loredana Berté.
Abbiamo peraltro un solo fuoriclasse, e lo sappiamo. Si chiama Andrea Pirlo. E’ l’unico a capire che per salvare Patria e cavoli (ogni riferimento alla testa del centravanti è casuale) c’è un solo modo: il lancione secco, a tagliare la difesa. Due volte Mario da Brescia si trova solo davanti al portiere Navas. Una volta colpisce di tibia spedendo fuori come non è possibile fare secondo la fisica che abbiamo studiato a scuola. La seconda sparacchia da lontano, quando sarebbe probabilmente bastato un passo avanti. E qualcosa dentro la testa.
Quando sembra che gli azzurri bene o male abbiano preso in mano la partita, ecco che esce il Costa Rica. Al 43’ Campbell viene atterrato dal solito Chiellini, costretto a fare gli straordinari contro giocatori più tecnici e più prestanti di lui e dei suoi compagni. Rigore ancora più netto di quello negato all’Inghilterra, se andiamo fuori stavolta non sarà per colpa degli arbitri. Un minuto dopo, siccome San Giovanni non vuole inganni – dicono a Firenze –, Bryan Ruiz taglia la difesa italiana come Sturridge e va a mettere dentro di testa.
Italia nei guai, Prandelli in confusione. Le prova tutte il mister nel secondo tempo. Cassano per Motta, ed è addirittura esordio mondiale per il vecchio fantasista a fine carriera (la prova del fallimento di una intera generazione di dirigenti e tecnici federali), poi Insigne per l’inguardabile Candreva e per finire Cerci per Marchisio, l’unico forse che ha retto botta (e preso botte, tante).
In campo ci sono quattro attaccanti, il meglio della classifica cannonieri Pepito Rossi a parte. Il Costa Rica non correrà nemmeno un’ipotesi di rischio, tenendo il campo alla perfezione al 90’ come al primo minuto e vanificando puntualmente le velleitarie azioni azzurre. Ne segnaliamo solo una, quella in cui Lorenzo Insigne dimostra tutta la sua pochezza internazionale e la sua presunzione. Il tiro in corsa sarebbe vergognoso anche in una partita di rugby, come trasformazione. Proprio vero che è al mondiale “a discapito di qualcun altro”, secondo le sue parole. A discapito di qualcuno che peggio di così non avrebbe potuto fare, aggiungiamo noi.
Alla fine, ad un’Italia che s’era illusa di una facile qualificazione dopo lo scontro storico con l’Inghilterra resta una sfida all’O.K. Corral con l’Uruguay per non tornare a casa sul suo stesso aereo. Fortuna (forse l’unica) che la celeste è l’unica squadra sudamericana che gioca da sempre all’europea. Sono tosti, hanno due punte micidiali come Cavani e Suarez, ma con loro ancora possiamo giocarcela.
Poi, se dovessimo passare, sarebbero ancora guai, perché ci toccherebbe a quel punto la Colombia. Noi contro il futebol del ventunesimo secolo siamo disarmati, e non è nemmeno colpa di Prandelli e delle sue scelte. A questo ci ha portati la dissennata politica di una Federazione che ha permesso che le nostre squadre si riempissero di onesti pedatori di ogni nazionalità a discapito dei nostri giovani. Risultato, abbiamo insegnato a giocare anche ai macachi della Foresta Amazzonica, e noi di campioni veri non ne abbiamo allevati più.
Troppo facile sarebbe dare la croce addosso a Prandelli. Nel secondo tempo ha messo in campo il fallimento della presente generazione e quello della prossima. Ma il convento, come detto più volte, passa poco più che questo. Ci resta lo stellone, se ha ancora voglia di buttare un occhio dalla nostra parte, e la differenza reti. Il pareggio qualifica noi come la vittoria. Martedi Italia-Uruguay è la storia passata del calcio che lotta per avere ancora un futuro. Prandelli raggiungerà Lippi, speriamo non finisca allo stesso modo.

domenica 22 giugno 2014

L'Ultima Legione

Ho visto giocare Bob Morse, Dino e Andrea Meneghin, Carlton Myers, Gianmarco Pozzecco, Pierluigi Marzorati, Nando e Alessandro Gentile, Mike D’Antoni, Antonello Riva. Mi mancava Thomas Rees, l’ultimo guerriero di una stirpe imperiale. L’imperatore non paga più il soldo da tempo, le casse imperiali sono vuote, lui raccoglie a coorte i superstiti per l’ultima battaglia, cade, sbatte la testa, sembra colpito a morte, si rialza e guida l’assalto finale.
Il Re è ancora vivo, nella sua armatura biancoverde. La fine si avvicina e sarà comunque una fine gloriosa. L’Ultima Legione è pronta a vendere cara la pelle, lassù in Gallia Citeriore. La grande storia che non ha avuto e non avrà mai eguali si stempera ormai nella leggenda, mentre si appressa alle battute finali. La squadra che porta il nome di uno sponsor che non esiste più, ma che difende l’onore di una città che porta sul proprio labaro le insegne di imprese che nessun altro potrà eguagliare, gioca l’ottava finale scudetto consecutiva, la nona in dieci anni.
A Siena è nata la mia famiglia, a Siena è nato il basket. Era destino che le nostre sorti fossero legate l’una all’altro. Ricordo gli anni in cui la Mens Sana si affacciava alla pallacanestro che conta, tra i Giganti del Basket. A Siena lo sponsor era Antonini, la squadra guidata dal talento oriundo di George Bucci fu in testa al campionato per qualche turno nel 1979, prima di venire risucchiata dai top team di allora, Synudine Bologna, Mobilgirgi Varese, Forst Cantù, Emerson Milano.
Mio padre se n’è andato nel 2001 senza immaginare che pochi anni dopo la grande rincorsa si sarebbe conclusa in gloria. Arrivò inaspettato quello scudetto del 2004, Bootsy Thornton guidò una squadra di outsider ad una sorprendente cavalcata conclusa con un secco 3-0 alla Fortitudo Bologna, una delle squadre che per tanto tempo avevamo guardato dal basso in alto. E ancora non era niente.
Nel 2007 toccò alla Virtus Bologna, ancora 3-0, ancora scudetto, con Simone Pianigiani, l’ex vice di Carlo Recalcati in panchina. Ma stavolta era l’inizio della serie più incredibile nella storia dello sport mondiale. Non ho voglia di andare a controllare se nello sport che conta a qualsiasi latitudine ed in qualsiasi disciplina esiste un’altra squadra capace di vincere lo scudetto per sette anni consecutivi. Non ho voglia, tanto so che non c’é.
Questo è e resterà l’orgoglio di Siena. Un orgoglio che potrà soltanto aumentare a dismisura se la serie salirà ad otto. O restare immutato se si fermerà ad una resa più che onorevole ad un avversario forte, sì, ma che ha soltanto potuto approfittare delle vicissitudini di uno squadrone leggendario che poteva essere sconfitto soltanto da vicende extrasportive.
Ho visto giocare Shawn Stonerook, il fuoriclasse che nessuno riusciva a marcare. Ho visto Daniel Hackett e David Moss, quando erano orgogliosi della maglia biancoverde che vestivano e di un settimo scudetto vinto contro tutto e contro tutti, su Roma che ha pianto anche quest’anno quando pensava di poter ridere finalmente delle disgrazie altrui. Ho visto arrivare Thomas Rees e sistemarsi in panchina insieme a tanti altri fuoriclasse. Per ritrovarsi alla fine comandante dell’Ultima Legione. Quella che manda Matt Jenning e Jeff Viggiano a fare scorrerie, e che prepara l’ultimo assalto. Quella che non contenta di aver scritto la storia adesso sta scrivendo la leggenda.
L’anno prossimo Siena non ci sarà più. Fallì la Fiorentina calcio nel 2002, fallisce la Mens Sana nel 2014. Adesso nessuno riconosce più Ferdinando Minucci, che era Dio ed è diventato un reietto ed un galeotto. Mentre Mussari si gode dio solo sa dove i proventi delle sue malversazioni alla guida di quel Monte dei Paschi che ha chiuso i cordoni della borsa. Gli uomini passano, Siena resta. Restano questi quindici ragazzi o poco più, che ormai giocano solo per la gloria.

Ho fatto il tifo per il basket da quando ero un ragazzino da minibasket, al vecchio Ponterosso a Firenze, altro pezzo di storia che non esiste più. Ho fatto il tifo per Siena da quando ho avuto l’uso di ragione per riconoscere il mio sangue. Mi restano due partite, forse tre. Poi la favola bella sarà finita, mi resterà solo una leggenda appena cominciata. Ho fatto e farò il tifo per la Mens Sana fino alla fine, e sarà una grande fine. La mia squadra è la più grande di tutti i tempi. E lo resterà.

Sbatti il mostro in prima pagina

La mattina di lunedi 16 giugno Brembate, il paese del bergamasco balzato agli onori ed agli orrori delle cronache il 26 novembre 2010, giorno in cui fu uccisa la tredicenne Yara Gambirasio mentre tornava a casa dalla palestra, viene di nuovo scosso da una notizia altrettanto drammatica: il fermo della persona fortemente indiziata di essere il suo assassino.
E’ stata un’indagine durata quattro anni e condotta sul filo delle nuove tecnologie, quelle rese celebri da innumerevoli telefilm di importazione americana e rese possibili dall’esame del D.N.A., il codice genetico che ognuno di noi si porta dentro e che, al pari delle impronte digitali, e praticamente unico e irripetibile. Con una differenza rispetto alle impronte, il codice è ereditario, tali genitori tali figli.
Da tempo è noto al P.M. Letizia Ruggeri e a tutti gli investigatori che hanno fatto dell’indagine su uno dei delitti più efferati della storia della repubblica una questione – giustamente – quasi personale per assicurare il misterioso assassino alla giustizia, che costui è il figlio illegittimo di tale Giuseppe Guerinoni, autista di corriera morto nel 2009, un anno prima che il suo DNA finisse sugli slip della povera Yara.
Esclusi i figli legittimi, tutti forniti di alibi incontestabili, resta “Ignoto 1”, un probabile figlio naturale non riconosciuto, l’unico che può replicare il DNA dell’autista morto. Mezza Brembate, compresi gli emigrati da tempo, viene sottoposta all’esame del DNA, ma niente. L’unica che sa e potrebbe parlare è la altrettanto misteriosa amante del Guerinoni, la madre di Ignoto 1. Che si guarda bene dal venire allo scoperto finchè non ce la costringe un vecchio amico del morto, che si decide a parlare un paio di settimane fa. Da lì in poi il passo per arrivare al figliastro, Massimo Giuseppe Bossetti, il fermato di lunedi scorso, il passo è breve.
Sembra la trama di un libro di Michael Connelly o di John Grisham. Da lì in poi se fossimo negli Stati Uniti il legal thriller si svilupperebbe a ritmo serrato verso un finale logico e normalmente – conoscendo gli amici americani e soprattutto il loro sistema giudiziario – lieto (almeno per chi parteggia ancora per la giustizia). Ma siamo in Italia, e questo normalmente è il momento in cui di le cose svoltano prendendo inesorabilmente la direzione di un casino inestricabile, di procedimenti giudiziari che richiedono anni e risorse per arrivare a nulla, di colpevoli su cui non c’è mai certezza, di presunti innocenti che restano tali anche dopo le sentenze, di avvocati di grido che sono gli unici veri vincitori di qualsiasi azione legale.
Un primo passo verso quella direzione lo compie subito non una autorità inquirente ma una politica. Angelino Alfano, Ministro della Giustizia, rompe subito il “naturale riserbo dettato dalla prudenza” degli inquirenti annunciando la cattura dell’assassino di Yara e fornendo nome, cognome, indirizzo e foto segnaletica. In spregio a tutte le garanzie fornite a qualunque cittadino italiano da un codice penale che era stato riformato esclusivamente a questo scopo nel 1989, e che non ha mai funzionato.
Stavolta è addirittura il Ministro, evidentemente preoccupato di segnare un punto a favore di una giustizia che da troppo tempo non ne becca più una e di un governo che stenta a beccare la prima malgrado le fanfare elettorali, a violare le garanzie giuridiche che un ordinamento di un paese civile dovrebbe fornire come modello base, senza accessori.
Il nome di massimo Giuseppe Bossetti finisce in prima pagina come quello di Girolimoni. Dagli anni 30 non è cambiato nulla, se è vero che la gaffe di Alfano è riproposta fedelmente da tutti, dicasi tutti, i giornali e i telegiornali d’Italia, senza eccezione. Si dice, ma è lui, il D.N.A. non sbaglia, la scienza non può fallire. E allora perché il TG della Svizzera riesce a dare esaustivamente la stessa notizia senza fornire generalità e fotografie dell’interessato-indagato? Perché allora il giorno dopo il Procuratore della Repubblica di Bergamo Francesco Dettori ritiene opportuno bacchettare lo stesso Ministro Alfano, sottolineando che la fuga di notizie pregiudica i diritti di un cittadino indiziato ma ancora non riconosciuto legalmente colpevole, per non parlare delle stesse indagini che - nelle mani di un avvocato scafato come i vari Taormina, Marazzita o Bongiorno – rischiano di essere compromesse irreparabilmente?
Brembate gemellata con Cogne? Presto per dirlo, ma intanto la avvocatessa Bongiorno, che ha fatto assolvere in appello Raffaele Sollecito per un delitto commesso e soprattutto indagato in circostanze tecnicamente analoghe insorge subito: “Il DNA da solo non è una prova, ci vogliono altri riscontri”. La giustizia italiana che sembrava aver segnato finalmente un punto incontrovertibile a suo favore vive ore convulse. Il Gip non convalida il fermo di Bossetti ma ne convalida l’arresto. E’ una perla giuridica, a questo siamo arrivati. Tecnicamente esiste una possibilità del genere, un magistrato può scrivere una cosa del genere su un suo provvedimento senza essere dichiarato (da chi, poi?) inabile perché i nostri ineffabili codici lo consentono.
Il fermo non sussiste perché non c’è pericolo di fuga o di reiterazione da parte dell’indiziato, dice il Gip Ezia Maccora. Ma l’arresto rimane in ragione della natura particolarmente efferata del delitto. Ora, delle due l’una. O chi studia legge, questa legge almeno, ha dei disturbi della personalità che andrebbero risolti una volta per tutte, a livello sociale, con buona pace di Basaglia e dei suoi eredi, oppure il nostro codice penale e relativo codice di procedura andrebbero di nuovo riformati, questa volta con previsioni di senso compiuto.

Ci hanno rovinato troppi telefilm americani. E i mondiali di calcio che ci fanno guardare meno che distrattamente a qualunque nefandezza accada intorno a noi. Non vorremmo sbagliarci, ma l’impressione comunque è che l’avvocatessa Bongiorno, o chi per lei, stiano già affilando le armi. Alzi la mano chi si sente garantito da questo tipo di giustizia.

domenica 15 giugno 2014

DIARIO MUNDIAL: Italia, buona la prima, God save the Queen

La peggiore F.I.F.A. di sempre manda a giocare in uno dei posti più assurdi del pianeta la migliore Inghilterra degli ultimi 40 anni e un’Italia che sicuramente è da rivedere, ma che comunque ha forza sufficiente per agguantare vittoria e, a meno di sconvolgimenti imprevedibili, qualificazione all’80%.
Manaos era la suggestiva location scelta dalla Casa Editrice Bonelli per le avventure di Mister No. Da allora, la città forse ha vinto la sua battaglia con la foresta amazzonica che vorrebbe riprendersi la sua terra. Di sicuro, il Brasile ha ancora da vincere la sua battaglia per la modernità. L’Arena Amazonia è una cattedrale non nel deserto, ma sul deserto. Nel senso che ogni calcio al pallone solleva una quantità di sabbia impressionante. Il clima poi fa rimpiangere il mezzogiorno di Pasadena, a U.S.A. 94. A confronto sembrava di stare sul lago di Carezza, a primavera.
In questo stadio Cesare Prandelli e i suoi ragazzi fanno il loro esordio a Brasile 2014, contro la squadra di Roy Hodgson, vecchio ammiraglio dei Sette Mari del Calcio. “L’Inghilterra si aspetta che ognuno di voi faccia il proprio dovere”, deve aver ripetuto ai suoi prima della partita, usando le stesse parole di Horatio Nelson sul ponte di comando della Victory la mattina del 21 ottobre 1805, poco prima di ingaggiare la decisiva e fatale battaglia a Trafalgar.
In incontri ufficiali gli inglesi non ci hanno mai battuti. Fino al 1973 non li avevamo mai battuti noi, in assoluto. Fino a ieri sera stavamo complessivamente 9-8 per noi. Per i leoni di Sua Maestà Britannica, che inseguono una nuova vittoria mondiale dal 1966, l’occasione di pareggiare il conto e cominciare una nuova cavalcata trionfale. La squadra ce l’hanno. A vecchi condottieri come Gerrard e Rooney si sono uniti nuovi talenti coltivati nel Commonwealth, come Welbeck, Sterling e soprattutto Sturridge. Nel primo tempo ci fanno ballare, e parecchio. Nella ripresa, il caldo afoso, la stupidità della F.I.F.A. che istituisce i time out e poi li nega, i crampi e un pochettino anche l’arbitro Kuiper li mettono ko. Hanno di che recriminare, stavolta. C’era almeno un rigore grosso come una casa per loro.
Prandelli invece non avrà fatto dichiarazioni storiche, non è nel suo stile. Lui in genere parla di “rispetto delle posizioni e delle distanze tra i reparti”, di “svolgimento ordinato dei rispettivi compiti”, niente che possa andare sui libri di storia. Ma se il buongiorno si vede dal mattino – o in questo caso da questa notte – probabilmente è destinato a ripetere un’impresa come quella di Kiev: andare avanti parecchio con una squadra su cui nessuno avrebbe scommesso una lira, nemmeno con i rimborsi a perdere di Betfair.
Il calcio italiano è al fondo del barile, lo sappiamo. Se non hai di meglio da schierare di Paletta, che non soltanto nei capelli ricorda l’Antonio Conte giocatore (se possibile in peggio), allora si è detto tutto. Se sei costretto a prolungare la ferma ad Andrea Pirlo (che imposta sempre da par suo, ma non ce la fa più a interdire nemmeno un filo d’erba) o ad un Daniele De Rossi che al pari dell’Iniesta di due sere fa sembra rimasto decisamente a casa sua, allora è difficile andare lontano. Eppure….. l’Uomo di Orzinovi quando lo dai per spacciato ti tira fuori sempre qualche coniglio dal cappello, come lo spettacoloso Darmian di stanotte. E manda in campo una squadra di pirati da fare invidia a Sir Francis Drake. E alla regina Elisabetta, in questo caso, ovviamente.
Prandelli non farà mai giocare le sue squadre come il Barcellona (mutatis mutandis), anche se a Manaos l’Italia gioca come la Fiorentina di Montella, possesso palla vicino al 60%, superiorità a centrocampo peraltro vanificata dalla punta singola ed isolata. Non farà mai calcio spettacolo, Prandelli, dicevamo, ma non c’è nessuno come lui, capace di cavare sangue dalle rape. Arrivò negli ottavi di Champion’s con una Fiorentina dalla formazione non certo esaltante, nel 2010. Arrivò alla finale di Kiev con la Spagna praticamente con i soli Pirlo, Cassano e Balotelli (il resto mancia).
Vediamo dove arriva stavolta, che ha pescato un Candreva che sta facendo di tutto per ricordare Angelo Domenghini ed un Marchisio che sta facendo lo stesso con Marco Tardelli. Nessuno salti sulla sedia, non sono bestemmie. Tra l’altro Claudio segna in fotocopia di Roberto Baggio con la Nigeria nel ’94. Quel gol servì a tirare giù dall’aereo la Nazionale di Sacchi già pronta ad un inglorioso ritorno anticipato. Questo probabilmente mette la gara su binari diversi da quelli sperati da Hodgson e dai suoi uomini, forse troppo self confident.
Supermario caracolla indolente per tutto il primo tempo, non serve nemmeno a tenere alta la squadra. Perde il confronto con Rooney alla grande, si vede che giocare isolato non gli piace. Ma i piedi li ha sempre, non è per i piedi che lo si può criticare, dentro e fuori dal campo. Al 45’ per poco non segna un gol che fa venire giù lo stadio, e tutto il Brasile che lo ha adottato nemmeno fosse un giocatore verdeoro. Poi nella ripresa, quando Candreva inventa lui è lì, al posto giusto, come lo era stato Sturridge poco prima.
2-1, 10-8 per noi. Albione dovrà aspettare. Tra l’altro tra tre giorni si gioca uno spareggio drammatico con l’Uruguay, altra sconfitta di giornata, incredibilmente contro il Costa Rica. Dice Prandelli, chi non conosce le squadre è meglio che stia zitto. Alzi la mano chi aveva pronosticato una simile magra di Cavani & C., che tra l’altro erano andati anche in vantaggio per primi. Shoot out tra inglesi ed uruguagi quindi, dentro o fuori per ben tre titoli mondiali del passato. Per noi, una qualificazione agevole se facciamo l’Italia ed il Costa Rica fa il Costa Rica, con buona pace di Prandelli a cui chiediamo solo, nella sua infinita saggezza, di aggiustare un paio di cose, leggasi gli inguardabili Paletta ed Immobile, nella prossima partita.

Una qualificazione agevole, ce l’avessero detto fino a poche ore fa chi ci avrebbe creduto? Italia, animale mundial.

sabato 14 giugno 2014

DIARIO MUNDIAL: La Nazionale non abita più qui?

Lo sport è cultura. Prima ancora che con la strategia, la tattica, l’allenamento, la classe individuale, l’amalgama di squadra, si vince perché si ha lo spirito giusto, alimentato dai contenuti che derivano dalla propria personalità individuale (più o meno educata in senso lato) e dal senso di appartenenza alla comunità che si rappresenta.
Il calcio non fa eccezione. Siamo un paese di 60 milioni di commissari tecnici, e solo pochi ancora riescono a capire che le nostre grandi vittorie sono maturate nei periodi in cui la nostra comunità nazionale ha saputo tirar fuori la parte migliore di sé (spesso per la verità tenuta accuratamente nascosta) e trasmetterla alle rappresentative che scendevano in campo a difendere i suoi colori.
In questi giorni, i campionati mondiali di calcio che si stanno disputando in Brasile ripropongono il consueto turbine di passioni controverse che gira attorno alla nostra nazionale fin dalla sua nascita. E’ l’occasione per rendersi conto di tante cose, a cominciare dal fatto che siamo tutto fuori che una solida e solidale comunità nazionale. Lo diventiamo occasionalmente solo al fischio finale di grandi vittorie, o al verificarsi (va detto) di tragiche calamità naturali.
Per il resto del tempo, neanche il calcio, estrema passione nazionale, riesce a metterci d’accordo anche solo per 15 giorni. E così, finiamo per subire da paesi che hanno meno tradizione, meno classe complessiva, meno blasone di noi, ma che si presentano in campo con una fame, una determinazione, un senso di rivalità a noi quasi sempre sconosciuta.
In nessuna città d’Italia il fenomeno diventa clamorosamente visibile come a Firenze. Da circa vent’anni a questa parte c’è una netta e apparentemente insanabile spaccatura tra gli appassionati di calcio che continuano a tifare per la nazionale del proprio paese e quelli che invece continuano a snobbarla, se non a detestarla e a tifarle contro. Questi ultimi addirittura giustificano il loro atteggiamento con una pretesa manifestazione di fiorentinità. Lo slogan più spesso ripetuto è: La Fiorentina è la mia nazionale, c’è solo la Fiorentina. E solo chi lo fa proprio è ritenuto fiorentino vero dagli altri apostati azzurri.
Ci sarebbe da chiedersi quanti conoscono le ragioni di simile disaffezione, se non addirittura odio. Ragazzi di vent’anni e uomini fatti di trenta che si vantano di non avere mai tifato per l’Italia, di tenere di volta in volta per Spagna, Germania, Argentina o Brasile. Ma perché?
Fino a tutti gli anni ottanta, i fiorentini riversavano in massa il loro tifo sulla Nazionale, quando questa scendeva in campo. Chi scrive ricorda bene le strade della città deserte, quasi fosse il set del film Io sono leggenda, in occasione di certe partite storiche dove la Nazionale affrontava avversari di prestigio o giocava per titoli importanti. E l’orgoglio dei tifosi viola quando qualche loro beniamino veniva chiamato a indossare la maglia azzurra.
Così negli anni cinquanta fu motivo di vanto il trasferimento in blocco della Fiorentina del primo scudetto nella Nazionale di allora. In Messico nel 1970, nello storico 4-3 alla Germania Ovest c’era Picchio De Sisti, bandiera viola e capitano del secondo scudetto. Nel 1978 c’era Giancarlo Antognoni, il ragazzo che giocava guardando le stelle che Bernardini chiamò in nazionale e che Bearzot vi mantenne, fino all’atto finale di sollevare la Coppa del Mondo, nel 1982 al Santiago Bernabeu colorato interamente d’azzurro. Perché allora erano gli spagnoli che stavano a guardare noi.
Bearzot era nel cuore di tutti i fiorentini perché resisteva ai poteri forti del nord che chiedevano l’estromissione di Antognoni dalla rappresentativa, a vantaggio di numeri 10 meno dotati ma che indossavano maglie a strisce. Chi pretende oggi di sapere cos’è la fiorentinità forse dovrebbe ripassarsi queste lezioni. La notte dell’11 luglio 1982 non rimase un fiorentino in casa, se stava bene di salute. Tutti presero la bandiera tricolore e scesero in strada, rimanendoci fino all’alba.
I guai sono cominciati dopo. Il lungo braccio di ferro della Fiorentina di Pontello con la Juventus risoltosi a vantaggio di quest’ultima spesso attraverso anche l’uso di maniere forti e appoggi federali fecero sì che una
parte della tifoseria arrivasse al punto di rottura con la Federazione Italiana Giuoco Calcio. Da lì a identificare la FIGC con la nazionale azzurra il passo risultò molto breve.
Pochi giorni dopo la vendita di Roberto Baggio alla Juventus, si riuniva a Coverciano la nazionale in vista di Italia 90. La dura contestazione viola si trasferì da Piazza Savonarola ai cancelli del Centro Tecnico, e anche lì successe il finimondo. Fu il classico caso in cui il marito volle fare il famoso dispetto alla moglie. O almeno furono molti i mariti fiorentini, che in occasione del mondiale giocato in casa presero a fare il tifo per altre nazionali.
Firenze come Napoli (che però subiva l’effetto del fenomeno Maradona) diventarono aree extraterritoriali rispetto alla Repubblica Italiana. E quando Donadoni sbagliò il rigore decisivo contro l’Argentina qui molti gioirono. Archiviate le notti magiche, il fenomeno rimase. Nel 1993 in occasione di Italia-Messico per la quale fu scelta poco opportunamente Firenze come sede, i tifosi viola affollarono lo stadio Franchi, ma indossando il sombrero. La cosa più carina che si sentì intonare sugli spalti fu l’accostamento di Antonio Matarrese, allora presidente della FIGC a quel Pietro Pacciani già sospettato di essere il Mostro di Firenze. Ovviamente, don Antonio non la prese bene, e quando la Fiorentina si complicò la vita precipitando in zona retrocessione sicuramente non mostrò un atteggiamento benevolo o comprensivo.
Da allora, mezza Firenze continua a sentirsi italiana, l’altra mantiene la secessione. Nel 2006 per le strade colorate di nuovo dal tricolore la notte del 9 luglio c’era la stessa moltitudine di 24 anni prima. Ma il clima adesso è cambiato. Snobbare la Nazionale è un vanto che si esibisce a scena aperta, soprattutto tra i giovani. Quello che in quasi tutti gli altri paesi sarebbe un atteggiamento che porterebbe dritto all’ostracismo sociale (se non a conseguenze peggiori), qui a Firenze è diventato un segno di distinzione.
Nemmeno la presenza sulla panchina azzurra dell’ex amatissimo tecnico viola Cesare Prandelli, di cui molti sognano il ritorno dopo gli europei, vale ad attenuare il fenomeno più di tanto. E quando si comincia a paventare l’ipotesi di una nuova eliminazione precoce della nostra squadra azzurra, c’è già chi dichiara di prepararsi a festeggiare.

Bertolt Brecht diceva: disgraziata la patria che ha bisogno di eroi. A Firenze in questo periodo per sentirsi italiani pare proprio che bisogna essere quasi degli eroi.

DIARIO MUNDIAL: Al via Brasile 2014

Aveva detto Neymar nella conferenza stampa della vigilia: “Il momento è finalmente arrivato, speriamo che queste ultime ore passino in fretta”. Verrebbe voglia di rispondergli, se il buongiorno si vede dal mattino speriamo che sia questo mese a passare in fretta.
Brasile 2014 comincia alle 20,00 italiane circa, dopo che da pochi minuti la polizia locale ha appena finito di manganellare la popolazione scesa in piazza per protestare in mondovisione per l’ennesima volta contro un Mondiale che, se le cifre riportate sono esatte, il 55% degli abitanti di quello che una volta era l’El Dorado del calcio sta vivendo come una mano di vernice data frettolosamente su un muro male intonacato e dalle fondamenta marce.
Teatro della protesta e relative manganellate, che i network televisivi in generale si guardano bene da trasmettere per non turbare la liturgia del pallone che si ripete, è quella spiaggia di Copacabana diventata attraverso i decenni paradigma di tutto ciò che significa Brasile nell’immaginario di torme di vacanzieri e di turisti del sesso di ogni parte del mondo. Il popolo brasiliano sta dimostrando che il calcio non è più il suo oppio. Il mondo per ora preferisce tenere le telecamere puntate sui 65.000 che gremiscono gli spalti dello stadio di San Paolo, dove di lì a poco le forme un po’ tendenti all’inquartamento di Jennifer Lopez, ma sempre piacenti, daranno il via alla ventesima edizione della Coppa del Mondo di calcio.
La cerimonia d’apertura conferma quanto già si temeva. A memoria d’uomo è difficile ricordarne una così brutta, qualunque cosa si trattasse di aprire o di chiudere. L’impressione è quella di un gigantesco “facite ammuina” in stile marina borbonica, il tutto ammantato di un che di posticcio e raffazzonato. I colori sono tanti, come lo erano nel Paese dell’Arcobaleno, il Sudafrica, ma lì pulsava la vita, esplodeva la voglia di vivere di una nazione che finalmente si affacciava al mondo moderno con la faccia pulita e gloriosa di Nelson Mandela.
Qui la sensazione è di essere ad una carnevalata allestita anche male. Chiunque abbia un figlio alle elementari e abbia assistito ad un saggio di fine anno sa che si può fare molto meglio, anche con gli scarsi fondi a disposizione delle scuole italiane. Perfino la canzone-inno dei mondiali è brutta, non ce ne voglia Jennifer. La faccia poi è quella di Sepp Blatter che in tribuna VIP mastica un chewing gum in perfetto stile Obama. Del suo competitor Michel Platini in compenso non c’è traccia, forse è in Qatar a veder di sbrogliare una grana grossa come una casa. E’ il ventunesimo secolo, bellezze, e il convento passa questo. Tra quattro anni, se vi consola, siamo in Russia, e se Soci mi dà tanto abbiamo detto tutto.
A poche ore dal fischio d’inizio ancora nello stadio paulista non funziona l’impianto elettrico. Squadre di operai si affaccendano ancora alacremente a fissare moquettes, verniciare muri e porte e smontare tubi Innocenti. Da Manaos arriva la notizia incredibile che lo stadio dove Italia e Inghilterra si affronteranno nel loro esordio è privo di erba. Si gioca nel campo del prete, un tuffo nell’infanzia che ognuno di noi è in grado di apprezzare, struggendosi di nostalgia.
Non era mai successo che un paese si presentasse all’avvio di una manifestazione sportiva organizzata in queste condizioni. La figuraccia planetaria va ad aggiungersi al ricco palmarés dei pentacampeaos. In compenso la F.I.F.A. brevetta la bomboletta spray per la distanza della barriera sulle punizioni e la goal line technology, l’apparecchio che stabilirà in tempo reale se un gol è fantasma o no. Il gol rubato all’Inghilterra nella scorsa edizione contro la Germania non si ripeterà, come già succede nel tennis l’occhio di falco dirà subito come stanno le cose. Il pallone calciato da Lampard era dentro di un metro, Larriondo non era dotato di GLT (come molti suoi colleghi a giro per il mondo), ma di buon senso sì, doveva esserlo. Anche se è una merce che ancora nessuno alla F.I.F.A. ha pensato di brevettare. Speriamo bene.
Scendono in campo le squadre, il Brasile ed il “Brasile d’Europa”, la Croazia. Sul volto dei giocatori carioca si legge benissimo la tensione fortissima rispetto a ciò che stanno vivendo e a ciò che li aspetta. Neymar & C. sanno di non poter fallire, un altro 1950 stavolta sarebbe un disastro ben superiore al Maracanazo. L’altra volta i suicidi accertati furono circa 200, stavolta si rischia una rivolta popolare, o perlomeno che niente possa arrestare la rivolta popolare che già c’é. I ragazzi in verdeoro sono buoni giocatori, ma da qui a diventare Pelé o Garrincha ce n’è da mangiare di pappa. I croati non tremano, e senza l’arbitro Nishimura stasera finirebbe male, già alla prima uscita.
Dopo il vantaggio della Croazia, del Brasile si vede soprattutto la gomitata di Neymar ad un avversario. Si fosse chiamato De Rossi o Tassotti, il mondiale carioca avrebbe già preso una brutta china e il “figlio del popolo” vedrebbe già da oggi il resto delle partite alla televisione. Invece resta in campo è può beneficiare di una papera di Pletikosa, portiere croato non certo paragonabile a un Dasaev o a uno Zamora. Sul rigore concesso nel secondo tempo ai padroni di casa per il volo d’angelo di Fred, che dire? E’ uno di quelli che “si possono non dare”. La classica regola che per gli amici si interpreta e per gli altri si applica. Se ti chiami Fred e sei brasiliano, l’arbitro si chiama Barney e ti fischia il rigore.
Andiamo avanti. Dalle magagne degli altri a quelle di casa nostra. Stasera tocca alla Spagna contro l’Olanda, la finale di quattro anni fa qui è il primo turno. A noi invece tocca domani notte, contro l’Inghilterra in attesa di Uruguay e Costarica, complimenti a chi fa i sorteggi. Oddio, non è che questa Italia sia quella del Sarria di Barcellona, né le sue avversarie sono il Brasile di Zico e l’Argentina di Maradona. Forse giocare sulle zolle di terra ci dà un vantaggio in più, gli inglesi sono ormai abituati a stadi che sono tavoli da biliardo, i campi di patate si confanno più a noi.
Prandelli si dice preoccupato, ieri si è fermato De Sciglio, dopo Montolivo e dopo il gran rifiuto a Pepito Rossi che hanno depauperato un parco giocatori già al minimo storico per l’Italia. Fossimo in lui ci saremmo preoccupati quattro anni fa, il primo giorno in cui assunse l’incarico. Ormai è tardi, il fondo del barile è raschiato, le scelte – giuste o più probabilmente sbagliate – sono state fatte. Lo “stellone” ha prodotto tanto due anni fa in Ucraina, difficile che si ripeta a così breve distanza, ma con Prandelli non si può mai dire.
Stiamo a vedere. A tornare a casa ci si mette un attimo, non più le tre settimane di sessant’anni fa. E a Manaos almeno potremo dire di essere stati sui luoghi del mitico Mister No. Una postilla sulla R.A.I., i cui inviati hanno già fatto vedere che si sono presentati a questo Mondiale con lo spirito di un pullman di turisti di mezza età recapitati ad un centro benessere thailandese. Lo slogan imperante è “Brasile è bello”. Il resto non esiste, dalla polizia che manganella all’arbitro che fischia a senso unico.

Al Giro d’Italia campeggiava uno striscione, “La R.A.I. siamo noi”, in segno di protesta contro la riforma ventilata da Renzi. Caro Presidente del Consiglio, se questa dev’essere la R.A.I., chi siamo noi davvero non lo sappiamo più.