domenica 29 giugno 2014

1914

La macchina scoperta stava per imboccare il Ponte Latino sulla Miljacka. Sopra di essa viaggiava l’erede al trono imperiale d’Asburgo, Francesco Ferdinando e sua moglie la contessa Sophie von Chotkowa. All’angolo tra il lungofiume ed il ponte li aspettava il loro destino. E quello del mondo. 
Si chiamava Gavril Princip il giovane irredentista serbo che aprì il fuoco contro le loro altezze imperiali, autore di uno dei due attentati più famosi, drammatici e carichi di conseguenze del ventesimo secolo. E destinato, al pari di Lee Harvey Oswald, a portarsi nella tomba la verità vera su ciò che successe quel giorno a Sarajevo. E perché.
Era Vidovdan, San Vito, la festa nazionale serba, l’anniversario della battaglia della Piana dei merli, Kosovo Poljie, la fatale sconfitta contro l’Impero Ottomano in cui il paese balcanico aveva trovato per sempre la sua identità nazionale. Il capoluogo della Bosnia-Erzegovina, sottoposta dal Trattato di Berlino del 1878 all’Impero Austro-Ungarico, si era preparato a ricevere l’erede al trono imperiale in un giorno di festa, come Dallas il 22 novembre 1963 aveva atteso il presidente americano John Fitzgerald Kennedy. Senza sapere che la tragedia esplosa quel giorno sarebbe stata il preludio di una tragedia ancora più grande.
Princip era un patriota serbo, appartenente alla fazione irredentista Mlada Bosnia (Giovane Bosnia), l’equivalente della nostra organizzazione mazziniana per il paese che si riprometteva di riunire in un’unica nazione indipendente tutti gli Slavi del Sud. Quella che un giorno sarebbe diventata la Jugoslavia. Ma Princip era anche un affiliato della Mano Nera, Crna Ruka, una organizzazione che aveva scelto il terrorismo come forma di lotta. Come il mazziniano Felice Orsini con il fallito attentato a Napoleone III, aveva scelto di colpire direttamente il tiranno, individuato nell’erede al trono d’Austria. E a differenza di lui non fallì.
Il suo obbiettivo era l’unico erede superstite al trono imperiale asburgico. Francesco Ferdinando era l’unico superstite della linea di successione austriaca. Rodolfo, l’unico figlio dell’Imperatore Francesco Giuseppe e della leggendaria imperatrice Sissi, era scomparso nella tragedia di Mayerling. Lui e l’amante Maria Vetsera erano stati rinvenuti morti. La versione ufficiale era suicidio, causato dall’infelicità di una liaison osteggiata dalla famiglia reale e dall’opinione pubblica. Ma c’erano voci insistenti, che gli studi storici non hanno mai potuto confermare ma neanche smentire, che il figlio di Franz Joseph e di Sissi fosse stato eliminato (insieme alla scomoda amante, involontario pretesto) perché troppo “progressista”.
A quanto pare, il cugino Francesco Ferdinando seguì la stessa sorte di Rodolfo. Dalla metà dell’Ottocento l’Impero Asburgico era una anacronia sopravvissuta al Medioevo, contro la quale confliggeva la realtà sempre più esplosiva degli stati nazionali. Italia e Germania avevano dovuto costituirsi a prezzo di lotte sanguinose contro Vienna. L’Ungheria, dopo un tributo di sangue pesantissimo, era stata riconosciuta come autonoma nell’ambito dell’Impero. Dalla crisi e dallo smembramento dell’Impero ottomano era emersa l’aspirazione nazionale serba, solo parzialmente soddisfatta a Berlino nel 1878. I serbi volevano tutta la penisola balcanica, comprese le etnie croate e bosniache.
Francesco Ferdinando era a favore del riconoscimento dell’autonomia slava sul modello di quella ungherese, che avrebbe svuotato di contenuto le rivendicazioni jugoslave e probabilmente scongiurato o rimandato il conflitto mondiale. Individuarlo come bersaglio era una contraddizione apparente per la Mano Nera (a cui era affiliata metà dell’esercito serbo e dell’establishment di quel paese). Una leggenda dei monti che circondano Salisburgo voleva che chi avesse ucciso un camoscio bianco avrebbe perso la vita entro un anno. L’Arciduca Francesco Ferdinando di Lorena-Asburgo l’aveva fatto, e la maledizione lo colpì.
La spiegazione soprannaturale peraltro aveva forse più fondamento di quella che voleva l’attentato di matrice esclusivamente serba. Studi più recenti ed approfonditi hanno individuato interessi economici fortissimi tanto a Vienna che a Berlino per sottomettere e spazzare via il giovane stato serbo. Per l’Austria significava togliersi una spina dal fianco e diventare padrona assoluta dei Balcani. Per la Germania, significava via libera alla costruzione della ferrovia Berlino – Baghdad, una specie di Alta Velocità dell’epoca, la madre di tutti gli affari e la via per il possesso del predominio continentale a cui il Kaiser aspirava dai tempi di Bismarck.
Al tempo degli spari di Sarajevo, si tendeva a credere alle “versioni ufficiali”. Nessuno dubitò che la Mano Nera avesse agito su istigazione esclusivamente serba. O nessuno volle dubitarne. Franz Joseph von Habsburg, appoggiato dal Kaiser Wilhelm II von Hohenzollern, spedì alla Serbia un ultimatum che le intimava di rinunciare a qualsiasi ambizione nazionale nei Balcani. Se la Serbia avesse accettato, avrebbe perso la faccia irrimediabilmente di fronte a tutti gli Slavi del Sud. L’ultimatum scadeva un mese dopo l’attentato, il 28 di luglio.
Austriaci e prussiani confidavano in una rapida e facile vittoria, malgrado la Serbia avesse ricevuto garanzie di sostegno da parte di un complicato sistema di alleanze. La Russia si riteneva la patrocinatrice degli Slavi del Sud, cugini dal punto di vista etnico. Ma soprattutto utili a stabilire una presenza zarista nell’Adriatico. La Russia era legata da alleanza con la Francia, desiderosa di rivincita dalla disfatta del 1870 che le era costata Lorena e Alsazia, e soprattutto desiderosa di limitare una volta per tutte la minaccia tedesca in Europa. La Francia era legata dall’entente cordiale (intesa cordiale) con la Gran Bretagna, che aveva i suoi stessi obbiettivi. L’Italia si stava lentamente spostando dal campo della Triplice Alleanza con Austria e Germania a quello della Triplice Intesa suddetta.
Lo stato maggiore del Kaiser continuava tuttavia a confidare nella vittoria. La Russia era arretrata e non avrebbe retto ad una guerra, la Francia sarebbe stata messa in ginocchio con il Piano Schlieffen (dal nome dell’ufficiale prussiano che l’aveva elaborato): l’attacco attraverso le Ardenne, in spregio alla neutralità belga. Un piano destinato a fallire nel 1914, ma ad avere successo clamoroso nel 1940.
Nessuno a Vienna o Berlino ebbe remore di alcun tipo a spingere le cose al punto di rottura. Le indagini su chi aveva realmente armato la mano a Princip si arenarono, come quelle a Dallas cinquant’anni dopo. Lo studente serbo rimase praticamente l’unico autore del gesto, come Lee Harvey Oswald. Le teorie complottiste avevano all’epoca poco spazio, a differenza di quanto avviene nel mondo moderno in cui ne hanno fin troppo. Nessuno pose l’accento sul fatto che la famiglia di molti cospiratori, tra cui lo stesso Princip, fosse in mano austriaca.
Di sicuro, se anche non armò la mano omicida, la fazione guerrafondaia a Vienna e Berlino fece salti di gioia all’udire gli spari sul Ponte Latino quel 28 giugno 1914. Francesco Ferdinando era contrario ai venti di guerra che ormai spiravano impetuosi dai Balcani su tutta Europa. Tolto di mezzo lui, convincere il vecchio Francesco Giuseppe a firmare l’ultimatum alla Serbia e poi la dichiarazione di guerra fu un gioco da ragazzi.
Il 28 luglio l’ultimatum scadde, e il mondo si ritrovò in guerra. Sarebbe durata quattro anni e mezzo, e avrebbe spazzato via le vite di nove milioni di soldati e di cinque milioni di civili, anche se studi più recenti parlano addirittura di 17 milioni di morti complessivi. Avrebbe spazzato via anche un ancien regime sopravvissuto a se stesso troppo a lungo. L’Europa, come una pentola tenuta sotto pressione per troppo tempo, sarebbe deflagrata in un coacervo di stati nazionali dall’entità spesso fragile, ma in cui circolava una quantità di adrenalina difficile da riassorbire. Crisi economiche inevitabili avrebbero creato miseria e disperazione, e preparato orecchie altrimenti più refrattarie alle lusinghe di un totalitarismo che avrebbe fatto impallidire – anche e soprattutto per il numero di vittime causate – il ricordo delle vecchie monarchie che agli albori del ventesimo secolo avevano preteso ancora di governare per diritto divino.

Nell’Impero Asburgico i minorenni non potevano essere condannati a morte. Gavril Princip e molti altri irredentisti serbi non avevano vent’anni, la maggiore età, quando alzarono le mani sulle altezze imperiali. Princip fu condannato a vent’anni di carcere duro a Terezin, la fortezza boema dal nome tedesco di Teresienstadt in cui venivano rinchiusi i detenuti politici, come una volta allo Spielberg. Da piccolo aveva contratto la tubercolosi, la recidiva che lo colse in carcere non gli lasciò scampo. Morì nell’aprile 1918, sei mesi prima dell’armistizio che pose fine a quella che sarebbe passata alla storia, nelle parole di Papa Benedetto XV, come l’inutile strage. Era il giorno 28, come quello in cui aveva sparato a Francesco Ferdinando e alla Contessa Sophie.

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