La macchina scoperta stava per
imboccare il Ponte Latino sulla Miljacka. Sopra di essa viaggiava l’erede al
trono imperiale d’Asburgo, Francesco Ferdinando e sua moglie la contessa Sophie
von Chotkowa. All’angolo tra il lungofiume ed il ponte li aspettava il loro
destino. E quello del mondo.
Si chiamava Gavril Princip il giovane irredentista
serbo che aprì il fuoco contro le loro altezze imperiali, autore di uno dei due
attentati più famosi, drammatici e carichi di conseguenze del ventesimo secolo.
E destinato, al pari di Lee Harvey Oswald, a portarsi nella tomba la verità
vera su ciò che successe quel giorno a Sarajevo. E perché.
Era Vidovdan, San Vito, la festa nazionale serba, l’anniversario della
battaglia della Piana dei merli, Kosovo Poljie, la fatale sconfitta contro
l’Impero Ottomano in cui il paese balcanico aveva trovato per sempre la sua
identità nazionale. Il capoluogo della Bosnia-Erzegovina, sottoposta dal
Trattato di Berlino del 1878 all’Impero Austro-Ungarico, si era preparato a
ricevere l’erede al trono imperiale in un giorno di festa, come Dallas il 22
novembre 1963 aveva atteso il presidente americano John Fitzgerald Kennedy.
Senza sapere che la tragedia esplosa quel giorno sarebbe stata il preludio di
una tragedia ancora più grande.
Princip era un patriota serbo,
appartenente alla fazione irredentista Mlada
Bosnia (Giovane Bosnia), l’equivalente della nostra organizzazione
mazziniana per il paese che si riprometteva di riunire in un’unica nazione
indipendente tutti gli Slavi del Sud. Quella che un giorno sarebbe diventata la
Jugoslavia. Ma Princip era anche un affiliato della Mano Nera, Crna Ruka, una organizzazione che aveva
scelto il terrorismo come forma di lotta. Come il mazziniano Felice Orsini con
il fallito attentato a Napoleone III, aveva scelto di colpire direttamente il
tiranno, individuato nell’erede al trono d’Austria. E a differenza di lui non
fallì.
Il suo obbiettivo era l’unico erede
superstite al trono imperiale asburgico. Francesco Ferdinando era l’unico
superstite della linea di successione austriaca. Rodolfo, l’unico figlio dell’Imperatore
Francesco Giuseppe e della leggendaria imperatrice Sissi, era scomparso nella tragedia di Mayerling. Lui e l’amante Maria
Vetsera erano stati rinvenuti morti. La versione ufficiale era suicidio,
causato dall’infelicità di una liaison
osteggiata dalla famiglia reale e dall’opinione pubblica. Ma c’erano voci
insistenti, che gli studi storici non hanno mai potuto confermare ma neanche
smentire, che il figlio di Franz Joseph e di Sissi fosse stato eliminato
(insieme alla scomoda amante, involontario pretesto) perché troppo “progressista”.
A quanto pare, il cugino
Francesco Ferdinando seguì la stessa sorte di Rodolfo. Dalla metà dell’Ottocento
l’Impero Asburgico era una anacronia sopravvissuta al Medioevo, contro la quale
confliggeva la realtà sempre più esplosiva degli stati nazionali. Italia e
Germania avevano dovuto costituirsi a prezzo di lotte sanguinose contro Vienna.
L’Ungheria, dopo un tributo di sangue pesantissimo, era stata riconosciuta come
autonoma nell’ambito dell’Impero. Dalla crisi e dallo smembramento dell’Impero
ottomano era emersa l’aspirazione nazionale serba, solo parzialmente
soddisfatta a Berlino nel 1878. I serbi volevano tutta la penisola balcanica,
comprese le etnie croate e bosniache.
Francesco Ferdinando era a favore
del riconoscimento dell’autonomia slava sul modello di quella ungherese, che
avrebbe svuotato di contenuto le rivendicazioni jugoslave e probabilmente
scongiurato o rimandato il conflitto mondiale. Individuarlo come bersaglio era
una contraddizione apparente per la Mano Nera (a cui era affiliata metà dell’esercito
serbo e dell’establishment di quel paese). Una leggenda dei monti che
circondano Salisburgo voleva che chi avesse ucciso un camoscio bianco avrebbe
perso la vita entro un anno. L’Arciduca Francesco Ferdinando di Lorena-Asburgo
l’aveva fatto, e la maledizione lo colpì.
La spiegazione soprannaturale peraltro
aveva forse più fondamento di quella che voleva l’attentato di matrice
esclusivamente serba. Studi più recenti ed approfonditi hanno individuato
interessi economici fortissimi tanto a Vienna che a Berlino per sottomettere e
spazzare via il giovane stato serbo. Per l’Austria significava togliersi una
spina dal fianco e diventare padrona assoluta dei Balcani. Per la Germania,
significava via libera alla costruzione della ferrovia Berlino – Baghdad, una
specie di Alta Velocità dell’epoca, la madre di tutti gli affari e la via per
il possesso del predominio continentale a cui il Kaiser aspirava dai tempi di Bismarck.
Al tempo degli spari di Sarajevo,
si tendeva a credere alle “versioni ufficiali”. Nessuno dubitò che la Mano Nera
avesse agito su istigazione esclusivamente serba. O nessuno volle dubitarne. Franz Joseph von
Habsburg, appoggiato dal Kaiser Wilhelm II von Hohenzollern, spedì alla Serbia
un ultimatum che le intimava di rinunciare a qualsiasi ambizione nazionale nei
Balcani. Se la Serbia avesse accettato, avrebbe perso la faccia irrimediabilmente
di fronte a tutti gli Slavi del Sud. L’ultimatum scadeva un mese dopo l’attentato,
il 28 di luglio.
Austriaci e prussiani confidavano
in una rapida e facile vittoria, malgrado la Serbia avesse ricevuto garanzie di
sostegno da parte di un complicato sistema di alleanze. La Russia si riteneva
la patrocinatrice degli Slavi del Sud, cugini dal punto di vista etnico. Ma
soprattutto utili a stabilire una presenza zarista nell’Adriatico. La Russia
era legata da alleanza con la Francia, desiderosa di rivincita dalla disfatta
del 1870 che le era costata Lorena e Alsazia, e soprattutto desiderosa di
limitare una volta per tutte la minaccia tedesca in Europa. La Francia era
legata dall’entente cordiale (intesa
cordiale) con la Gran Bretagna, che aveva i suoi stessi obbiettivi. L’Italia si
stava lentamente spostando dal campo della Triplice Alleanza con Austria e
Germania a quello della Triplice Intesa suddetta.
Lo stato maggiore del Kaiser
continuava tuttavia a confidare nella vittoria. La Russia era arretrata e non
avrebbe retto ad una guerra, la Francia sarebbe stata messa in ginocchio con il
Piano Schlieffen (dal nome dell’ufficiale prussiano che l’aveva elaborato): l’attacco
attraverso le Ardenne, in spregio alla neutralità belga. Un piano destinato a
fallire nel 1914, ma ad avere successo clamoroso nel 1940.
Nessuno a Vienna o Berlino ebbe
remore di alcun tipo a spingere le cose al punto di rottura. Le indagini su chi
aveva realmente armato la mano a Princip si arenarono, come quelle a Dallas
cinquant’anni dopo. Lo studente serbo rimase praticamente l’unico autore del
gesto, come Lee Harvey Oswald. Le teorie complottiste avevano all’epoca poco
spazio, a differenza di quanto avviene nel mondo moderno in cui ne hanno fin
troppo. Nessuno pose l’accento sul fatto che la famiglia di molti cospiratori,
tra cui lo stesso Princip, fosse in mano austriaca.
Di sicuro, se anche non armò la
mano omicida, la fazione guerrafondaia a Vienna e Berlino fece salti di gioia
all’udire gli spari sul Ponte Latino quel 28 giugno 1914. Francesco Ferdinando
era contrario ai venti di guerra che ormai spiravano impetuosi dai Balcani su
tutta Europa. Tolto di mezzo lui, convincere il vecchio Francesco Giuseppe a
firmare l’ultimatum alla Serbia e poi la dichiarazione di guerra fu un gioco da
ragazzi.
Il 28 luglio l’ultimatum scadde,
e il mondo si ritrovò in guerra. Sarebbe durata quattro anni e mezzo, e avrebbe
spazzato via le vite di nove milioni di soldati e di cinque milioni di civili,
anche se studi più recenti parlano addirittura di 17 milioni di morti
complessivi. Avrebbe spazzato via anche un ancien
regime sopravvissuto a se stesso troppo a lungo. L’Europa, come una pentola
tenuta sotto pressione per troppo tempo, sarebbe deflagrata in un coacervo di
stati nazionali dall’entità spesso fragile, ma in cui circolava una quantità di
adrenalina difficile da riassorbire. Crisi economiche inevitabili avrebbero
creato miseria e disperazione, e preparato orecchie altrimenti più refrattarie
alle lusinghe di un totalitarismo che avrebbe fatto impallidire – anche e
soprattutto per il numero di vittime causate – il ricordo delle vecchie
monarchie che agli albori del ventesimo secolo avevano preteso ancora di
governare per diritto divino.
Nell’Impero Asburgico i minorenni
non potevano essere condannati a morte. Gavril Princip e molti altri
irredentisti serbi non avevano vent’anni, la maggiore età, quando alzarono le
mani sulle altezze imperiali. Princip fu condannato a vent’anni di carcere duro
a Terezin, la fortezza boema dal nome tedesco di Teresienstadt in cui venivano
rinchiusi i detenuti politici, come una volta allo Spielberg. Da piccolo aveva
contratto la tubercolosi, la recidiva che lo colse in carcere non gli lasciò
scampo. Morì nell’aprile 1918, sei mesi prima dell’armistizio che pose fine a
quella che sarebbe passata alla storia, nelle parole di Papa Benedetto XV, come
l’inutile strage. Era il giorno 28,
come quello in cui aveva sparato a Francesco Ferdinando e alla Contessa Sophie.
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