Lo sport è cultura. Prima ancora
che con la strategia, la tattica, l’allenamento, la classe individuale, l’amalgama
di squadra, si vince perché si ha lo spirito giusto, alimentato dai contenuti
che derivano dalla propria personalità individuale (più o meno educata in senso
lato) e dal senso di appartenenza alla comunità che si rappresenta.
Il calcio non fa eccezione. Siamo
un paese di 60 milioni di commissari tecnici, e solo pochi ancora riescono a capire
che le nostre grandi vittorie sono maturate nei periodi in cui la nostra
comunità nazionale ha saputo tirar fuori la parte migliore di sé (spesso per la
verità tenuta accuratamente nascosta) e trasmetterla alle rappresentative che
scendevano in campo a difendere i suoi colori.
In questi giorni, i campionati mondiali
di calcio che si stanno disputando in Brasile ripropongono il consueto turbine
di passioni controverse che gira attorno alla nostra nazionale fin dalla sua
nascita. E’ l’occasione per rendersi conto di tante cose, a cominciare dal
fatto che siamo tutto fuori che una solida e solidale comunità nazionale. Lo
diventiamo occasionalmente solo al fischio finale di grandi vittorie, o al
verificarsi (va detto) di tragiche calamità naturali.
Per il resto del tempo, neanche
il calcio, estrema passione nazionale, riesce a metterci d’accordo anche solo
per 15 giorni. E così, finiamo per subire da paesi che hanno meno tradizione,
meno classe complessiva, meno blasone di noi, ma che si presentano in campo con
una fame, una determinazione, un senso di rivalità a noi quasi sempre
sconosciuta.
In nessuna città d’Italia il
fenomeno diventa clamorosamente visibile come a Firenze. Da circa vent’anni a
questa parte c’è una netta e apparentemente insanabile spaccatura tra gli
appassionati di calcio che continuano a tifare per la nazionale del proprio
paese e quelli che invece continuano a snobbarla, se non a detestarla e a tifarle
contro. Questi ultimi addirittura giustificano il loro atteggiamento con una
pretesa manifestazione di fiorentinità. Lo slogan più spesso ripetuto è: La Fiorentina è la mia nazionale, c’è solo la Fiorentina. E solo chi lo fa
proprio è ritenuto fiorentino vero dagli altri apostati azzurri.
Ci sarebbe da chiedersi quanti
conoscono le ragioni di simile disaffezione, se non addirittura odio. Ragazzi
di vent’anni e uomini fatti di trenta che si vantano di non avere mai tifato
per l’Italia, di tenere di volta in volta per Spagna, Germania, Argentina o
Brasile. Ma perché?
Fino a tutti gli anni ottanta, i
fiorentini riversavano in massa il loro tifo sulla Nazionale, quando questa scendeva
in campo. Chi scrive ricorda bene le strade della città deserte, quasi fosse il
set del film Io sono leggenda, in
occasione di certe partite storiche dove la Nazionale affrontava avversari di
prestigio o giocava per titoli importanti. E l’orgoglio dei tifosi viola quando
qualche loro beniamino veniva chiamato a indossare la maglia azzurra.
Così negli anni cinquanta fu
motivo di vanto il trasferimento in blocco della Fiorentina del primo scudetto
nella Nazionale di allora. In Messico nel 1970, nello storico 4-3 alla Germania
Ovest c’era Picchio De Sisti, bandiera viola e capitano del secondo scudetto.
Nel 1978 c’era Giancarlo Antognoni, il ragazzo che giocava guardando le stelle
che Bernardini chiamò in nazionale e che Bearzot vi mantenne, fino all’atto finale
di sollevare la Coppa del Mondo, nel 1982 al Santiago Bernabeu colorato
interamente d’azzurro. Perché allora erano gli spagnoli che stavano a guardare
noi.
Bearzot era nel cuore di tutti i
fiorentini perché resisteva ai poteri forti del nord che chiedevano l’estromissione
di Antognoni dalla rappresentativa, a vantaggio di numeri 10 meno dotati ma che
indossavano maglie a strisce. Chi pretende oggi di sapere cos’è la fiorentinità
forse dovrebbe ripassarsi queste lezioni. La notte dell’11 luglio 1982 non
rimase un fiorentino in casa, se stava bene di salute. Tutti presero la
bandiera tricolore e scesero in strada, rimanendoci fino all’alba.
I guai sono cominciati dopo. Il
lungo braccio di ferro della Fiorentina di Pontello con la Juventus risoltosi a
vantaggio di quest’ultima spesso attraverso anche l’uso di maniere forti e
appoggi federali fecero sì che una
parte della tifoseria arrivasse
al punto di rottura con la Federazione Italiana Giuoco Calcio. Da lì a
identificare la FIGC con la nazionale azzurra il passo risultò molto breve.
Pochi giorni dopo la vendita di
Roberto Baggio alla Juventus, si riuniva a Coverciano la nazionale in vista di Italia
90. La dura contestazione viola si trasferì da Piazza Savonarola ai cancelli
del Centro Tecnico, e anche lì successe il finimondo. Fu il classico caso in
cui il marito volle fare il famoso dispetto alla moglie. O almeno furono molti
i mariti fiorentini, che in occasione del mondiale giocato in casa presero a
fare il tifo per altre nazionali.
Firenze come Napoli (che però
subiva l’effetto del fenomeno Maradona) diventarono aree extraterritoriali rispetto
alla Repubblica Italiana. E quando Donadoni sbagliò il rigore decisivo contro
l’Argentina qui molti gioirono. Archiviate le notti magiche, il fenomeno rimase.
Nel 1993 in occasione di Italia-Messico per la quale fu scelta poco opportunamente
Firenze come sede, i tifosi viola affollarono lo stadio Franchi, ma indossando
il sombrero. La cosa più carina che si sentì intonare sugli spalti fu
l’accostamento di Antonio Matarrese, allora presidente della FIGC a quel Pietro
Pacciani già sospettato di essere il Mostro di Firenze. Ovviamente, don Antonio
non la prese bene, e quando la Fiorentina si complicò la vita precipitando in
zona retrocessione sicuramente non mostrò un atteggiamento benevolo o comprensivo.
Da allora, mezza Firenze continua
a sentirsi italiana, l’altra mantiene la secessione. Nel 2006 per le strade colorate
di nuovo dal tricolore la notte del 9 luglio c’era la stessa moltitudine di 24
anni prima. Ma il clima adesso è cambiato. Snobbare la Nazionale è un vanto che
si esibisce a scena aperta, soprattutto tra i giovani. Quello che in quasi
tutti gli altri paesi sarebbe un atteggiamento che porterebbe dritto
all’ostracismo sociale (se non a conseguenze peggiori), qui a Firenze è
diventato un segno di distinzione.
Nemmeno la presenza sulla
panchina azzurra dell’ex amatissimo tecnico viola Cesare Prandelli, di cui
molti sognano il ritorno dopo gli europei, vale ad attenuare il fenomeno più di
tanto. E quando si comincia a paventare l’ipotesi di una nuova eliminazione
precoce della nostra squadra azzurra, c’è già chi dichiara di prepararsi a
festeggiare.
Bertolt Brecht diceva:
disgraziata la patria che ha bisogno di eroi. A Firenze in questo periodo per
sentirsi italiani pare proprio che bisogna essere quasi degli eroi.
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